Oppenheimer
Ludwig Göransson
Oppenheimer (Id. - 2023)
Back Lot Music
24 brani – Durata: 1h 34’
Usciti dalla visione di Oppenheimer, cercando tra gli sguardi e le frasi degli altri spettatori, si è avvolti da una sensazione indefinita, una sorta di lieve intorpidimento poco comprensibile nell’immediato. Ma dopo qualche minuto ti viene in mente quella volta che andasti a sentire i Foo Fighters proprio davanti al palco e improvvisamente tutto ti torna: quella sensazione ti ricorda l’effetto dell’acufene post-concerto. E’ ovviamente una falsa percezione perché quello che hai appena visto e ascoltato in una sala cinematografica non è nulla di paragonabile alla potenza dei decibel di un concerto. Ma lo stordimento sì, quello c’è tutto. Cerchiamo di capirne le ragioni.
Le regie di Christopher Nolan, da sempre dinamiche e muscolari, prima fra tutte quelle della Trilogia del Cavaliere Oscuro (Batman Begins, Il cavaliere oscuro, Il cavaliere oscuro - Il ritorno) hanno sempre prediletto un impianto musicale con un impatto energico e possente dove Hans Zimmer (anche in accoppiata con James Newton Howard, non lo dimentichiamo) ha sicuramente trovato il terreno ideale per poter definire al meglio l’interazione tra scrittura orchestrale, musica elettronica e sound design. Ludwig Göransson sembra voler portare alle estreme conseguenze questo approccio spingendo forte sul pedale dell’acceleratore grazie anche al suo background di compositore abituato alla libera commistione di stili, timbriche e tecniche ma con una visione più contemporanea e radicale di Zimmer.
Per quanto il termine sia stato spesso abusato, quella di Göransson per Oppenheimer può veramente definirsi a tutti gli effetti musica immersiva perché letteralmente sommerge l’ascoltatore nel mood di ogni singola sequenza e azione del film. Per farlo ricorre liberamente a tutti gli espedienti compositivi della sua ricca palette scegliendo universi sonori ben precisi che indubbiamente sottintendono una lunga attività di ricerca e di reference verso le quali indirizzarsi. Un lavoro musicale con una definizione maniacale che si interseca con la regia iperrealistica di Nolan e con un montaggio improntato su una narrazione non lineare il cui fine ultimo è quello di non far mai staccare lo sguardo dallo schermo. Quindi il suo scopo non è necessariamente quello di stupire o colpire nel profondo ma nell’immergere lo spettatore in uno stato mentale di costante allerta.
Göransson fornisce il suo contributo all’opera con un quantitativo massiccio di musica dove il numero di silenzi e pause si contano con le dita d’una mano e dove si succedono citazioni che mettono in fila svariati compositori capostipiti delle odierne tendenze più o meno attuali della musica applicata, come il già nominato Hans Zimmer ma tra gli altri anche Philip Glass, Vangelis e Ben Frost. E poi, in ordine sparso, tanti altri elementi attualmente in voga nell’immaginario mondiale della scena musicale contemporanea: citazioni minimaliste, phase shifting, palindromi musicali, sound design a gogò, droni, picchi e cadute improvvise di volume, ostinati d’archi, glissati di sintetizzatore. Tutto costruito con grande maestria da un compositore che per l’occasione si è circondato di uno stuolo di orchestratori e sound designer e svariati altri collaboratori del dipartimento musicale.
Il risultato finale si può a mio avviso racchiudere nel senso di tre aggettivi: impetuoso, esagerato ma soprattutto ridondante. La ridondanza è quella componente che se associata a un’autentica e coerente visione artistica ha storicamente prodotto modelli eccelsi come testimoniato ad esempio dal Barocco. Se l’uso della ridondanza è invece solo pirotecnica e di maniera si sconfina nel Rococò che è tutt’altra cosa. E aggiungerei anche che se le citazioni e gli elementi semiotici di una colonna sonora sembrano non sempre amalgamarsi in un quadro musicale organico è forte il rischio di rappresentare solo una rassegna di manierismi musicali seppur ben confezionati.
Nello score di Oppenheimer ci sono tante luci e ombre ma in definitiva c’è tanto, forse troppo, e in questa ansia di dare spazio all’enfasi e di descrivere musicalmente sinc, azioni e stati d’animo si perde la profondità e il valore di un respiro o di un silenzio (...forse per sottolineare emozionalmente l’intensità dell’unico e più importante silenzio presente in tutto il film) perché, anche se stiamo parlando di un’opera realizzata da un schiera di massimi esponenti della cinematografia mondiale, vige sempre la buona regola del detto popolare che recita: “il troppo stroppia”.