Bersaglio mobile
Ivan Vandor
Bersaglio mobile (1967)
Digitmovies DGST050
28 brani – Durata: 56’03”
Nel 2020 oltrepassava le porte del silenzio Ivan Vandor, all’età di ottantotto anni. Era nato nel 1932 a Pecs, in Ungheria, da una famiglia ebraica con il nome Ivan Weisz, poi mutato dal padre in Vandor (“viandante”). In seguito naturalizzato italiano, si diploma al Conservatorio di Roma e si perfeziona con Goffredo Petrassi. Studia un anno anche con Max Deutsch, un allievo di Schönberg. Laurea in Etnomusicologia presso l’università della California a Los Angeles, studi sulla musica del buddismo tibetano con soggiorni in Nepal e in India, esperienze con Nuova Consonanza, direttore dell’International Institute for Comparative Music Studies nell’allora Berlino Ovest, direttore dell’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati a Venezia dal 1978, docente di Composizione ai conservatori di Bologna e di Roma, vicepresidente della Società italiana di Etnomusicologia. Autore di lavori da camera e per orchestra, sinfonici e corali d’alta bellezza e finezza quali “Poèmes imaginaires” (1987), “Offrandes 2” (1993), “Nouvelles errances per 20 archi solisti” (1998), “In penombra per flauto, clarinetto, viola e violoncello” (2001), “Otto pezzi brevi per violoncello e pianoforte” (2011), “Violino e viola - Canone triplo” (2015), dispersi nel mare magnum della musica d’arte contemporanea sempre collocata in una posizione di nicchia sospesa tra privilegio ed emarginazione. Se quella del cinema è la musica del nostro tempo, egli non vi si sottrasse: praticò l’Ottava Arte in poche ma significative occasioni, “con risultati intelligenti e di livello superiore” come scrive Ermanno Comuzio nel suo Dizionario ragionato dei musicisti cinematografici, parlando di una musica “non descrittiva e non corriva” che “predilige l’economia dei mezzi e i discorsi antiromantici”. Sergio Miceli lo colloca nel “versante d’area colta” accanto a Petrassi, Luigi Dallapiccola, Valentino Bucchi, Franco Mannino, Roman Vlad e altri (1). Scrisse per Petri (I giorni contati, 1962), Nelo Risi (Diario di una schizofrenica, 1968), Zurlini (Seduto alla sua destra, 1968), Antonioni (Professione reporter, 1964); in un paio di casi si concesse alla cinematografia di genere con il western maldido Se sei vivo spara (1967) di Giulio Questi (partitura non convenzionale, ancora inedita) e Bersaglio mobile (’67) dell’eclettico Sergio Corbucci, uno spythriller d’ambientazione greca con spie russe, diplomatici inglesi, un microfilm da recuperare, un tale che evade da un carcere all’altro e diviene il “bersaglio mobile” di troppi che vogliono farlo fuori, un paio di beltà apprezzabili (Paola Pitagora e Graziella Granata); Ty Hardin, Gordon Mitchell e Vittorio Caprioli nei ruoli maschili principali. Accettabili le scene d’azione e belle le location elleniche, ma non si va oltre l’onesto intrattenimento. Allora da noi si giravano anche film così, forme di exploitation degli spionistici americani e inglesi ed anche figli del fenomeno 007 (“sotto007” furono anche detti a posteriori; e, non potendo replicare la cifra dell’agente di Ian Fleming, si ripiegava sugli avatar 077, 070, 777 e via numerando, concedendosi al massimo un O.K. Connery). Non fu uno dei filoni più riusciti della cinematografia italiana di quegli anni. Con ciò, si tratta di duecento titoli uno più uno meno coprodotti nel triennio 1965-1968, diretti da Parolini, Sollima, Corbucci e infiniti altri che approderanno in seguito, e con ben maggiore inventiva, al western e al thriller.
Se il film non è grande cosa, va meglio con la musica, debitrice verso gli stereotipi del genere ma non passiva. Si attinge al gangster noir statunitense per l’action, ai modelli europei – anche nostrani - per la sezione tensiva. Qualche pagina più rilassata diversifica il paesaggio, né possono mancare i “momenti sexy”, lo “striptease”, le atmosfere latine, greche e balcaniche, che erano l’obbligata zavorra di quel tipo di pellicole. Ne deriva una score varia ma anche qualitativamente disomogenea, con momenti riusciti e pienamente ascoltabili ed altri più di maniera o di pura esteriore funzionalità. Il compositore dimostra peraltro di conoscere a fondo i repertori di riferimento e niente gli si può imputare quanto a padronanza delle risorse. L’orchestra è affidata alle cure di Stelvio Cipriani, qui nell’insolita veste di direttore di musica altrui.
Un riff di chitarra bassa e ottoni di colore oscuro dialoga con gli acuti delle trombe nei “Titoli” marcati da batteria e colpi dei fiati ribattuti. Brano dinamicissimo, nervoso e con evidenti ma non invadenti influssi cool jazz metabolizzati a dovere. Azione allo stato puro ma – appunto - a fusione fredda, ché il breve segmento d’inizio lascia presto spazio a frammenti di suono destrutturati che si prolungano nelle estensioni dei fiati, nelle semi improvvisazioni del sax, nel ritmo variato in libere frasi scattanti ed incisive oppure rallentate e quasi statiche. Non ci si annoia di sicuro in questi 2’ di animato andirivieni che con quel refrain di poche note accompagnano la dimensione spettacolare e pirotecnica della vicenda e somatizzano tanto le acrobazie dello spy quanto le insidie di malavitose giungle d’asfalto. Vive l’America criminale resa mito da tanto cinema, riprodotta con una verosimiglianza che non esclude la rivisitazione. Che poi il tutto si svolga nella Grecia mediterranea e non negli States bituminosi, non conta dal punto di vista della musica, “troppo poco esclusiva per respingere in modo assoluto ciò che altri possono suggerirci di trovarvi” (2). Il motivo, vera cifra caratterizzante, torna, oltre che d’obbligo nel “Finale”, in “Caccia all’uomo” (ripresa scatenata in stile bondiano), “Jason spia” ove appare episodicamente in un contesto di fiati sospesi e sparsi interventi percussivi, “Tra i vicoli” inserito in climi notturni e misteriosi.
Altro momento tematico importante è “Gangsters” 1 e 2 che swinga tra gli ottoni e si concede attimi di riposo a base di sax, trombe e sottofondo ovattato dei fiati. Atmosfere alla Howard Hawks, Robert Siodmak e affini, alla Chandler, Hammett, Chase: anche qui musica che recupera la memoria del cinema e del crime novel che fu, e dei pulp magazines, e dunque con una forte valenza connotativa. L’acceso dinamismo del pezzo è degno contraltare di una narrazione filmica all’insegna del moto veloce e spericolato, ma il punto di forza è nella capacità evocativa che va oltre l’immagine.
Più distesi “Momento sexy” e “Striptease”, brani strettamente d’atmosfera, sax mellifluo e languido e fiati in funzione d’orchestra. Stile night club, interni saturi di fumo, bionde platinate che paiono finte e a tal punto artefatte da sembrare vere. Un lirismo trasognato accompagna poi taluni brevi momenti a intervallare le ritmiche più spinte: “Atmosfera serena” (clavicembalo ed archi in modo maggiore, dolce ed aggraziato; il timbro del clavicembalo anticipa il successivo Escalation di Morricone), “Passeggiata” (archi, clarinetto e nacchere con toni da commedia ilare), “Tempo di cocktail” (dopo un’apertura falsotensiva, si accede ad un clima rilassato ed avvolgente molto thirties), “Attimi d’amore” (romantico, con echi rosziani). Pagine piacevoli che paiono uscite da un film di Frank Capra o, come “Attimi d’amore”, da qualche noir americano dell’epoca d’oro.
La sezione atematica è ben curata e abbondante. Spicca “Fuga e combattimento”: contrabbassi, ostinati, pizzicati del banjo (western?), registri acuti e gravi con prevalenza dei secondi, momenti statici e altri mossi in una struttura variata ed agile. Si segnalano anche “Attesa” con tromboni, fiati pendenti, archi in tremolo e contrabbassi vivaci; “Piano criminale” (fiati grevi, statico con qualche stacco della batteria che apre ad uno scioglimento sempre eluso della tensione); “Jason in azione” con strumentini e piccole percussioni, stridii degli archi (Herrmann?), effetti sospensivi d’impronta minimalista e puntinistica (sarà l’approccio morriconiano in uno dei rari momenti atmosferici di C’era una volta il West) (3); “Jason, re delle evasioni”, sax brillante su batteria e piano, pezzo rocambolesco e funambolico di buona orecchiabilità.
I momenti meno interessanti sono le sottolineature turistiche, quando al compositore viene richiesta una musica di puro accompagnamento e mimesi del folklore locale: qui abbiamo “templi greci”, “balletti balcanici”, “feste latine” ed anche un “Juke box shake”. Consigliamo di saltare a pié pari questa sezione, necessaria (forse) al film quanto priva di attrattiva al di fuori di esso. Difficile salvarsi in tali frangenti, a meno di non chiamarsi Miklós Rózsa o Ennio Morricone: del primo è nota l’acribia filologica, il secondo fece buona musica “greca” in Le casse (4) ed ottima musica “indigena” in Oceano e Sardegna (5).
A conti fatti, abbiamo a disposizione una score apprezzabile, con pagine efficaci e suggestive. Non emerge, se mai, un profilo compositivo netto. L’autore ha privilegiato la prassi artigianale d’alto livello, ha ricostruito benissimo i modi di tanta musica del cinema strizzando l’occhio a modelli in prevalenza d’Oltreoceano: l’ascolto è un viaggio in un certo tempo-cinema e nei suoni che lo scandirono in epoche distanti consegnate al mito e alla nostalgia. In questo compendio è il pregio e il limite della partitura di Ivan Vandor, un musicista che probabilmente offrì il meglio nei lavori liberi dai condizionamenti della Settima Arte.
(1) SERGIO MICELI, Musica per film. Storia, estetica – Analisi, tipologie, Milano, RICORDI-LIM, 2009, p. 138.
(2) MARCEL PROUST, All’ombra delle fanciulle in fiore. Trad. di F. Calamandrei e N. Neri, Torino, Einaudi, 1978, p. 131.
(3) Corrisponde al brano “L’attentato”: C’era una volta il West, edizione estesa 2018, Beat Records CDX 1033.
(4) Brani “Marinella” e “Irene”: Le casse, edizione 2006, GDM CD Club 7033.
(5) Cfr. “Isola di Pasqua”, “Vulcano”, “Le maschere morte”, “Il vento è il vento e soffia dove vuole”, etc.: Oceano, edizione estesa 2010, GDM CD Club 7080.
(6) Cfr. “Tra la foresta e il mare”, “Segni misteriosi”: Sardegna, edizione estesa 2011, Cometa Edizioni Musicali – CMT 10021.