21 Dic2010
Inception
Hans Zimmer
Inception (Id. - 2010)
Water Tower Music/Reprise 524667-2
12 brani - Durata: 49’ 20”
Uno “score” elementare, primordiale, di una potenza sonora brutale e tellurica quello che Zimmer regala come sovrastruttura decisamente “eccedente” al nuovo mind-movie di Nolan, dopo quelli – in “strana coppia” con James Newton Howard – per i vari prequels batmaniani. Un ascolto iniziale, al buio, sembra evocare più il nome di un altro grande specialista in apocalissi sonore, in urgenze del tragico, qual è Elliot Goldenthal (si pensi a In dreams o Alien ³): l’insistenza pesante e ossessiva di una ritmica lenta e schiacciante, l’ululato degli ottoni rinforzati dall’elettronica e inchiodati su note ribattute come in un’architettura bruckneriana mentre gli archi si accaniscono in un motivo conduttore semplicissimo ed ostinato, ribattuto sino alla persecuzione psicologica, fra crescendi, sospensioni, echi distorti, riverberi fantasmatici (“Dreams is collapsing”)… Tutto evoca un universo sonoro dove la coazione a ripetere (“Radical notion”) non possiede nulla di minimalista – siamo dinanzi ad un organico strumentale vastissimo all’interno di una partitura sostanzialmente elettronica di cui l’orchestra rappresenta una sorta di raddoppio iperbolico, non senza elementi solistici spiazzanti tipo quel “Pink Floyd sound” in apertura del lunghissimo “Waiting for a train”, il brano più complesso della partitura – e nemmeno di “zimmeriano” nel senso tradizionale di questo compositore per quando riguarda l’indole divagante e variativa, parafrastica, dei leit-motifs o il piacere citazionistico esibito, il gusto narcisistico della costruzione accademica.
Qui colpiscono la cattura di un’atmosfera molto più “onirica” dello stesso film (si ascoltino le liquescenze sospese e misticheggianti di un brano come “Old souls”), l’implacabile progressione della temperatura drammatica (il salire inarrestabile degli archi fino ai tremendi rintocchi di percussione e ottoni in “528491”), i bruschi scarti di stile e le repentine accelerazioni (“Mombasa”), l’utilizzo drammaturgico delle masse di suono secondo strutture armoniche molto elementari (“Dream within a dream”, che in coda contiene un esempio di tematismo accordale basato su crescendi continui ed emotivamente travolgente).
In un affresco di queste dimensioni c’è spazio per autentiche, struggenti parentesi liriche zimmeriane come le perorazioni degli archi nella seconda parte di “Waiting for a train” (ma si ascolti sempre sullo sfondo l’implacabile scansione ritmica), in mezzo alle quali spunta, spettrale, la citazione evocativa e necessaria di “Non, je ne regrette rien”; mentre il dialogo sospeso tra ottoni cupi e archi siderali usati anche solisticamente in “Paradox” sfocia in una letterale, significante monotonia, e il conclusivo “Time” è costruito per fasce avvolgenti e crescenti di armonie sino a una coda eterea e bruscamente interrotta…
In sintesi uno “score” sopra le righe e fuori dai consueti e un po’ consunti canoni zimmeriani, capace di trasmettere un senso di urgenza e di allarme ben oltre la “matrioska” narrativa del film, trionfalisticamente esibita fra azione e paradosso.