Colonne sonore. Immagini tra le note. 23 interviste ai grandi compositori italiani
Massimo Privitera (a cura di)
Colonne sonore. Immagini tra le note. 23 interviste ai grandi compositori italiani (2023)
Bloodbuster Edizioni
pp. 171
€ 20,00
Disporre delle dichiarazioni degli autori sulla propria opera, leggibili in scritti autobiografici, epistolari, testi di poetica, è avere a disposizione testimonianze di prima mano relative alle circostanze, ai propositi, ai procedimenti attuati; nonché giudizi che sono forme di autoesegesi. Nel presente si sono aggiunti canali più immediati, giornalistici, televisivi e legati alla Rete; veniamo investiti da un profluvio di dichiarazioni estemporanee e persino troppo connesse al qui ed ora, all’evento e alla sua istantanea fruibilità, non sempre attendibili ed utilizzabili in sede critica.
La modalità più diffusa è l’intervista in occasione di qualche novità – libro, disco, film - da dare in pasto al mercato, di una performance da pubblicizzare, di un anniversario (compleanni, decennali e a seguire) che rinverdisca glorie appassite e frutti ancora qualche doblone.
“Interviste” – ma di ben diverso livello e intento - sono anche quelle raccolte e rivedute da Massimo Privitera per i tipi di Bloodbuster, piccola grande casa editrice milanese iperspecializzata nel cinema di genere (il catalogo è consultabile nelle ultime pagine): 23 colloqui con i compositori italiani per il cinema di ieri e di oggi per celebrare i vent’anni della rivista “Colonne sonore”, l’unica nel nostro paese ad occuparsi dell’ottava arte (sintagma coniato da Privitera e subito entrato nell’uso), a differenza di quanto avveniva altrove da ben prima del nuovo secolo (e non per essere esterofili); in origine cartacea e dal 2006 digitale. L’esuberante materiale, sino ad ora spaiato nei vari numeri o disperso entro le pieghe del WEB, è finalmente disponibile in formato fisico e tutto insieme, ovvero si unisce la comodità di una consultazione prêt-à-porter con il piacere sensuale del libro e di una lettura sfogliabile e appuntabile.
Il volume è – fra le tante cose - un manuale di storia. Attraverso le dichiarazioni dei musicisti si ricostruisce l’importante stagione cinemusicale del secondo Novecento in Italia e ci si affaccia ai chiaroscuri del nuovo secolo, tanto diverso da quella golden age e bisognoso di una disponibilità conoscitiva libera da pregiudizi e da nostalgie. Lo sguardo non si spinge oltre l’Italia, una prospettiva “nazionalista” che non sottintende primati veri o presunti, trattandosi piuttosto di una focalizzazione mirata ad approfondire ciò che avvenne – e che accade - nel nostro paese (che peraltro, in ambito di cinema e di musica per il cinema occupa(va?) una posizione di rilievo e fu spesso punto di riferimento oltre i patrii confini).
Abbiamo usato i termini “intervista” e “colloquio. Non sono sinonimi. Sergio Miceli spiegò ad un corsista della Chigiana la differenza (1). L’intervista si lega al presente: è cronaca, tempo reale che subito si brucia. Inoltre, colui che pone le domande è il più delle volte un profano, non possiede le conoscenze necessarie per condurre una conversazione che superi la genericità dei quesiti di rito. Il colloquio vede al contrario due interlocutori culturalmente paritari, consente sviluppi e approfondimenti, può divenire documento storiografico. Come nel caso dei 23 confronti tra i compositori e le controparti altamente specializzate (Massimo Privitera, Carmelo Milone, Giuliano Tomassacci, Pietro Rustichelli, Gianni Aloisio, Anna Maria Asero, Gabrielle Lucantonio). L’arco cronologico si estende dal 2004 al 2017. 23 testimonianze, nomi storici e consacrati e presenze collaterali come Giovanni Nuti o Franco Campanino o il desaparecido Walter Rizzati. 23 storie differenti, ambiti musicali i più eterogenei, narrazioni estese e fitte o stringate all’osso. Si leggono con particolare piacere le disquisizioni dotte di Ennio Morricone, l’aneddotica effervescente di Stelvio Cipriani, lo spaccato della musica leggera italiana dei Settanta delineato da Maurizio De Angelis, il racconto puntuale e partecipe di Riz Ortolani che ricostruisce una storia avventurosa e non replicabile, il percorso frastagliato di Pino Donaggio dal canto alla composizione e la sua difesa della melodia “vincente in partitura” perché rispetto alle dissonanze “rimane”, le preziose osservazioni di Luis (Enriquez) Bacalov sugli importanti registi (Di Leo, Pasolini, Petri) con i quali lavorò. Altri, vedi Giorgio Gaslini, Nora Orlandi, Alessandro Alessandroni, Roberto Pregadio, appaiono laconici e persino reticenti: dichiarazioni asciutte che si limitano a scalfire la superficie lasciando inesplorata la profondità delle esperienze vissute.
Elementi comuni, la consapevolezza di operare “a servizio”; e l’entusiasmo, la passione verso un mestiere spesso ingrato, e la volontà di riscattare una prassi che non si rassegna ad essere solo artigianato, per quanto alto ed abile. Per cui, se è vero che “noi compositori […] siamo come i sarti che fanno i vestiti, come quelli che attaccano i tubi del gas e ne fanno un impianto” come evidenzia con sano pragmatismo Manuel De Sica; alla domanda “Che cosa significa per lei «musica per immagini»?”, Pivio e Aldo De Scalzi rispondono senza esitare “Libertà”: proprio “i vincoli imposti dalla necessità di interagire con le immagini ci permettono in realtà di concepire ogni volta mondi sonori sempre diversi, soluzioni ritmiche ed armoniche altrimenti impensabili” pur mantenendosi fedeli al proprio stile. “La musica da film” incalza Riz Ortolani “è un’espressione che se compresa e apprezzata può permettere ogni cosa”. Ennio Morricone concepisce l’ottava arte come un’interpretazione che il compositore dà dell’immagine che il regista ha voluto, ma anche come autonomo percorso di ricerca “assoluta”. E tuttavia la realtà effettuale può essere davvero dura e tale da inficiare la dignità del compositore. Nel corso del colloquio con Maurizio De Angelis, Giuliano Tomassacci ricorda il caso di un brano scritto per i titoli di testa di una miniserie thriller, inquietante come il soggetto richiedeva: venne respinto perché “si pensava avrebbe messo troppa paura alla massaia che vedeva la tv a quell’ora” - e che dunque, deduciamo, avrebbe cambiato canale alla ricerca di intrattenimenti più allegri, a scapito dell’audience. Il compositore dovette riscrivere, mutare l’orchestrazione e l’armonia. Un caso limite? Nemmeno troppo. La storia dell’ottava arte è anche quella di produttori volti al profitto al cui altare la qualità, la ricerca, l’innovazione devono immolarsi; e della lotta – non sempre vincente - dei musicisti intenzionati a preservare il proprio decoro. Oggi l’onnipotenza del Moloch televisivo ha aggravato la situazione, ad esempio l’ossessione dell’audience porta ad un eccesso di minimalismo soprattutto nelle fiction, per non annoiare (il telecomando è a portata di mano) si comprimono le scene col risultato di inibire lo sviluppo tematico. E allora ci si chiede con Maurizio De Angelis “ma c’è ancora questo lavoro?”. Le nuove criticità si assommano a quelle di sempre, dallo scarso tempo a disposizione (“le musiche devono essere pronte quasi sempre per «ieri»” ironizza Maurizio Abeni) ai finanziamenti risicati (“il musicista più bravo è quello che costa meno”: Maurizio De Angelis) alla piaga delle Temp Track (“coltello dalla doppia lama”: Bacalov). Sullo stato attuale della musica per film in Italia i giudizi sono severi: eccesso di dilettantismo (Morricone); “giovani musicisti limitatissimi, tranne rari casi, perché non si applicano, non studiano come dovrebbero fare […], pensano solo al denaro” (Cipriani); richiesta di musiche realizzate “usando i moderni computer” e che poi il montatore (non il regista!) “inserirà nei punti giusti” (Detto Mariano); “assenza di un’anima musicale italiana, non siamo in grado di fornire scuole, come invece negli U.S.” (Abeni). Giudizi ingenerosi? Ma quei professionisti dalla formazione solida ed eclettica, con alle spalle faticosi apprendistati, avvezzi a lavorare gomito a gomito con i registi, faticano ad accettare le nuove prassi tecnologiche quando totalizzanti e l’abbassamento del livello culturale di molti che oggi aspirano a scrivere per lo schermo (magari dopo avere seguito un corso accelerato) senza rendersi conto che prima che “musicisti del cinema” occorre essere “musicisti”. Anche i nati negli anni Settanta come Paolo Buonvino e Maurizio Abeni manifestano ampie riserve. Peraltro, accomunare tutto e tutti in un irreversibile processo di decadenza rischia di oscurare il buono che ci potrebbe essere. Forse, osiamo dire, l’oggi non è così drammatico, buoni musicisti si possono ancora trovare. Ma quella era una stagione ricca di talenti, di entusiasmo, di inventiva, avevi l’imbarazzo della scelta; oggi, devi cercare con la lanterna di Diogene.
Nel corso dei colloqui emergono infinite questioni inerenti all’ottava arte, ai suoi problemi ed opportunità. Alla rinfusa: il rapporto con le nuove tecnologie, scrivere per il cinema e scrivere per la televisione, per un classico film “a termine” e per una serie potenzialmente senza termine, per la fruizione in sala e per quella domestica fisiologicamente deconcentra (per cui, ci precisa Paolo Buonvino, occorre scrivere molta più musica in funzione di riempitivo per combattere la distrazione); come in concreto “applicare” la musica all’immagine. E qui emergono aspetti squisitamente tecnici che di solito l’ascoltatore ignora o non tiene in conto, a ricordare che siamo di fronte ad una realtà prismatica che non si esaurisce nell’atto creativo (nelle note), perché a supporto di un’altra forma d’arte. E allora, dove (e dove non) inserire la musica, e calibrarla sul fotografico rispettando i synch e i click (si leggano in proposito le messe a fuoco di Riz Ortolani), e una quantità di altre operazioni indispensabili affinché la musica “funzioni” sul serio dentro il film. Ecco: leggendo questi colloqui si prende coscienza di tanti aspetti, si entra nella logica della musica del cinema, si perde in idealità forse ma si guadagna in realismo. E si impara a valutare meglio, a comprendere le ragioni di certe scelte compositive; si recupera il contesto in funzione del testo, tutto a vantaggio della successiva fruizione autonoma: quando, immersi entro la dimensione mistica dell’ascolto, potremo apprezzare suoni, temi ed armonie in sé, ma pur sempre consci del “prima” che li generò rendendoli ciò che sono.
I 23 colloqui offrono una pluralità di punti di vista sull’argomento, non lo possono esaurire. Mancano – oltre a quelle di quanti trapassarono anzitempo, Rota, Nicolai, Savina, Rustichelli, Piccioni, Trovajoli, Ferrio… -le narrazioni di Franco Micalizzi, Nicola Piovani, Franco Piersanti, Marco Werba, Di Bona & Sangiovanni: vecchia scuola i primi tre, più giovane il secondo ma diretto discendente di quella tradizione, più recenti gli altri e comunque validi. Con loro, ed altri della nuova leva, è già pronto il materiale per un secondo capitolo di aggiornamento. Il primo, è un libro della nostalgia. Molti degli interpellati non sono più con noi, un’intera generazione nati negli anni Venti-Trenta ha varcato la soglia del silenzio. Le loro parole registrate e stampate ne prolungano idealmente la vita, non meno necessarie delle loro note. Curioso, affascinante ed inquietante è poi l’effetto di sfasatura temporale: molti colloqui risalgono all’inizio del nuovo secolo, i compositori dicono “adesso”, ma oggi quell’«adesso» è un “allora”.
Una considerazione terminologica in chiusura. Tutti i chiamati in causa impiegano, in piena buona fede, l’espressione “musica da film”: che è orribile. La squalifica è implicita nella dizione. Molto meglio “musica per film”. Non è pedanteria cruscante. Sergio Miceli nel suo manuale Musica per film (appunto) è una volta ancora dirimente: In questo testo non si troverà mai la dicitura “musica da film”, bensì “musica per film. L’oggetto in questione non è infatti un genere musicale come lo è ad esempio la musica da camera, bensì un contenitore di forme e di generi diversi. Pertanto la preposizione indica la destinazione, non una presunta “natura” caratterizzante – che la storia e l’analisi dimostrano inesistente -, evitando al tempo stesso la spiacevole associazione e la relativa sfumatura semantica con una forma idiomatica come “una donna da marciapiede.” (corsivi dell’autore) (2)
Il volume si correda di una qualificata introduzione di Alessandro De Rosa, di una “piccola guida storiografica alle interviste” di Gianmarco Diana, di “motivazioni e ringraziamenti” di Massimo Privitera che ripercorre la storia ventennale di “Colonne sonore” con l’accento appassionato che lo contraddistingue: materiali propedeutici pendant delle parole luminose e illuminanti dei 23 protagonisti.
(1) ENNIO MORRICONE – SERGIO MICELI, Comporre per il cinema. Teoria e prassi della musica nel film, a c. di L. Gallenga, Venezia, Marsilio, 2001, p. 265.
(2) SERGIO MICELI, Musica per film. Storia, Estetica – Analisi, Tipologie, Milano, Ricordi-LIM, 2009, pp. 11-12.