Le nuove scritture musicali per il cinema & In ascolto. Mappe sonore per la storia della musica
AA.VV.
Le nuove scritture musicali per il cinema (2022)
a cura di Roberto Calabretto e Luca Cossettini
Lucca, Libreria Musicale Italiana
pp. IX-154
€ 25,00
Paolo Russo
In ascolto. Mappe sonore per la storia della musica (2022)
Lucca, Libreria Musicale italiana
pp. XIV-248
€ 25,00
“[…] l’indagine sull’odierna prassi compositiva per il cinema non può prescindere dallo studio delle tecnologie con cui e in cui essa si realizza”. L’assunto del volume collettaneo Le nuove scritture musicali per il cinema si condensa in quest’affermazione che chiude l’intervento di Kristjan Stopar. Gli altri contributi sono di Roberto Calabretto e Luca Cossettini (curatori del tutto ed anche autori dell’Introduzione), Ilario Meandri, Gabriele Gilodi, Saverio Rapezzi, Roberto Frattini, Riccardo Giagni, Cristiano Alberghini, Giancarlo Guarrera e Michael Levine.
Da angolazioni e prospettive diversificate, si evidenziano i mutamenti che dagli anni Ottanta del secolo scorso e via via più rapidamente nel nuovo millennio hanno rivoluzionato la maniera di «fare musica» dei compositori cinematografici e non solo, dovuti alle innovazioni tecnologiche. Il salto è dal foglio pentagrammato al computer, ben più clamoroso di quello avvenuto nel passaggio dalla scrittura manuale, o alla macchina per scrivere, a quella digitale. Non si tratta di scrivere su monitor invece che su carta; piuttosto, di elaborare suoni, comporre melodie, creare partiture orchestrali avvalendosi di sofisticati software e di fornitissime library in grado di riprodurre con fedeltà i timbri e le prerogative di tutti gli strumenti, e di fornire una vasta campionatura di suoni «artificiali». Il compositore – che dovrà possedere, o costruirsi, competenze tecniche avanzate – avrà così modo di creare spartiti virtuali che – nell’applicazione al cinema ancor più che altrove – consentiranno evidenti vantaggi. In prima istanza, si ridurranno le molte incomprensioni tra musicista e regista legate al fatto che il secondo, quando finalmente udiva lo score in fase di registrazione, si trovava dinanzi a qualcosa di diverso da ciò che in precedenza aveva sentito eseguire al pianoforte, e spesso rimaneva insoddisfatto (il paventatissimo «momento della verità»). Nella score virtuale (demo, provino, mockup) tutto è da subito chiaro e la partitura può essere modificata ipso facto. Altro vantaggio collegato è che il compositore può verificare in tempo reale il suo lavoro (ma i colleghi della generazione precedente l’avevano tutta in testa la musica, prima dell’esecuzione già ne conoscevano la resa…). Infine – come puntualizza Roberto Frattini –, “dal compositore-esecutore può essere svolto il lavoro di quasi 200 persone” saltando i passaggi intermedi (copiatura, correzione delle bozze, impaginazione, professori d’orchestra e coro che devono studiare le parti, ingegneri e tecnici del suono…); e, “quando la simulazione è veramente buona ottiene gli stessi risultati che avrebbe garantito un’orchestra vera, risparmiando però più del 90%...”.
Meglio di così, verrebbe da dire. Tuttavia, se il supporto tecnologico elimina criticità importanti e consente un taglio sensibile dei costi, nuove problematiche si affacciano e tecniche e di principio. Delle prime, l’incompatibilità tra le forme dell’orchestrazione classica e i procedimenti di orchestrazione virtuale, per cui le parti MIDI (campionate) devono essere sottoposte a numerose operazioni di ripulitura: un mockup, per quanto accurato, deve essere completamente ritradotto per servire di base ad un’orchestrazione reale. E poi, “realizzare una simulazione orchestrale significa affrontare una lettura praticamente identica a quella che svolge il direttore d’orchestra nel momento dello studio e della concertazione del brano che prepara” (ancora Frattini). Non sono proprio passeggiate. Non si tratta di utilizzare suoni prefabbricati in luogo dell’orchestra perché “costa meno”: qui si chiama in causa una nuova, in estremo, figura di compositore “ultra-specializzato, capace di scrivere musica, orchestrare, programmare e sincronizzare i propri demo, preparare e gestire tutte le fasi della registrazione, e possibilmente aver competenze di ingegneria del suono per il mixaggio e l’editing” (Rapezzi), e necessitato ad aggiornarsi di continuo. E’ proprio l’identità autoriale ad essere messa in gioco, a sgretolarsi nel grande mare delle opportunità tecnologiche; per dirla tutta, a rischiare e anche grosso. Sono in agguato l’abbassamento qualitativo, “l’uniformazione estetica” (Stopar), il livellamento (“Se nell’ambiente musicale esiste ancora una certa tendenza a distinguere tra il compositore di formazione accademica e quello proveniente da altre esperienze musicali, tale distinzione non ha alcun peso nel mondo del cinema […] il terreno dell’arte è tutt’uno con quello del business”: Rapezzi), insidie striscianti (“Lavorando sempre più spesso e a lungo con i campioni, si corre il rischio di attenuare, se non perdere la percezione interiore del suono reale degli strumenti e della loro interazione, finendo per ridurre gli stimoli all’immaginazione sonora che stanno alla base della creatività musicale”: Id.). Certezze consolidate nei secoli conoscono l’angoscia del dubbio: “La partitura esiste ancora? In che rapporto si pone con [le] tecnologie? […] Che ruolo ha l’Accademia oggi? E’ in grado di formare pienamente il futuro professionale del compositore?” (Alberghini). Questioni di fondo che investono la musica senza distinzioni. Di fronte a simili dilemmi, legittimi non meno che spiazzanti, occorre tenere preziosa una considerazione di Jerry Goldsmith, giustamente richiamata in un paio di interventi: “I’ve been using electronics for twenty-five years now. But I’ve never seen it as a sostitute for an orchestra. I believe it will someday be an accepted section in a symphony orchestra”. Parole che oggi potrebbero sembrare desuete; ma che mantengono la loro forza di richiamo alla prassi artigianale dello «scrivere per l’orchestra» senza per ciò chiudersi in un pregiudiziale rifiuto del nuovo che – piaccia o meno - “avanza” e può offrire ausili importanti – purché ben gestiti - ad un mestiere, quello del compositore, “destabilizzante, non accomodante” (Frattini). Per Goldsmith, Morricone e tutti gli altri fu più agevole affiancare alla formazione accademica le risorse aggiunte degli strumenti elettronici, del suono campionato e così via. Oggi con i nuovi sviluppi, più che di integrazione tra apporti diversi si tende a parlare di «sostituzione» o quasi. E’ pur vero che per i musicisti della nuova e nuovissima generazione, nativi digitali, il passaggio sarà indolore. Meno per chi sta nel mezzo.
Il volume si articola in due sezioni. La prima accoglie contributi di natura teorica sulle “nuove scritture musicali per il cinema”. La seconda accoglie le “testimonianze” di chi ha vissuto sulla propria pelle i cambiamenti in atto e può raccontare la sua pratica sul campo.
Se Roberto Calabretto, professore associato di discipline musicali presso l’Università di Udine ed autore di monografie sulla musica nel cinema di Pasolini, Antonioni, Visconti, Tarkovskij, Resnais ci delizia con un excursus sulla “musica per film nell’arco di un secolo” paragonabile, più che ad un pranzo luculliano, ad un menu preparato da un raffinato gourmet di invoglianti assaggi dei sistemi produttivi che hanno contrassegnato l’ottava arte lungo il Novecento, dal “pianista che improvvisava al pianoforte sotto lo schermo” ai cue sheets e successivi manuali di soluzioni musicali bell’e pronte quali la Kinobibliothek di Giuseppe Becce, dallo specialismo ai “nuovi universi della scrittura digitale”, con nel mezzo la prassi statunitense dei dipartimenti musicali e quella più artigianale, “di bottega”, vigente in Italia con rimandi all’esperienza della LUX Film e del suo amministratore delegato Guido M. Gatti (Da meditare la conclusione ove si ipotizza, per il futuro, un problematico “ritorno alle origini, a quelle Biblioteche musicali che tanta fortuna hanno avuto nell’età del muto, dove l’utilizzo di precisi stereotipi era alla base delle associazioni audiovisive”); Stopar e Meandri-Gilodi puntano sul tecnico, illustrano i primi software di scrittura quali il protocollo MIDI, il Roland Microcomposer Mc8, il Prophet5, il Firlight CMI, il Synclavier negli Ottanta, l’Atari Notator (il primo sequencer moderno), Cubase e Steinberg nei Novanta, sino agli odierni demo digitali e alle sample library, con dichiarazioni di Hans Zimmer e altri. Si forniscono poi esempi di orchestrazione virtuale di uno strumento acustico (violoncello), ed è tutto un fiorire di mapping editor, preset; un ready made da utilizzare in modo creativo: perché “le creazioni più grandi riposano su stereotipi formali che consentono di costruire un sistema di attese e schemi di azione e ricezione che il genio compositivo non disprezza, e con cui anzi ama giocare”.
Stimolante e a largo raggio lo scritto di Luca Cossettini (ricercatore in Musicologia e Storia della musica all’Università degli studi di Udine dove insegna Musica elettronica, Editoria digitale e Semiografia digitale della musica) che intravede nelle librerie di suoni e nelle procedure della musica elettronica “il mondo delle melodie infinite”. Il riutilizzo di materiali preesistenti (digitali ma anche acustici) sviluppa una “cultura del taglio” ovvero del collage, dell’assemblaggio non nuova nell’arte (Picasso, Apollinaire, certo jazz, le tecniche modulari) ma adesso più agevolmente realizzabile grazie alle possibilità combinatorie prospettate dai vari software dedicati. Risalendo alle radici di tale pratica in ambito musicale, ecco negli anni Sessanta il catalogo di Risset, “una definizione teorica di suoni di sintesi da creare in tempo differito con un computer e da registrare successivamente su nastro magnetico”, la musica di Bruno Maderna che, ben prima di Internet, riutilizza gli stessi materiali sonori in composizioni diverse; all’inizio dei Novanta, il catalogo digitale di Fausto Romitelli. All’opera univoca si sostituisce la prospettiva di interpretazioni e trascrizioni infinite grazie ai procedimenti ricombinatori. Prassi per eccellenza della musica cinematografica - dove inventio e dispositio procedono unisone e spesso la seconda ha la meglio sulla prima -, oggi facilitata dal computer.
Ulteriori scenari apre Giancarlo Guarrera che analizza “ruolo e funzione della musica per il videogame” introducendo i concetti di “musica non lineare” e “musica adattiva”: la prima “indica un tipo di composizione musicale che non segue un decorso temporale prestabilito”; la seconda “è un particolare tipo di composizione non lineare dove i contenuti musicali si rigenerano a seconda di fattori esterni alla composizione stessa, nel caso dei videogame, le azioni del giocatore”. Musica «applicata» qui pure ma che, rispetto a quella del cinema, deve prendere in considerazione l’interattività: per cui “il compositore rinuncia a un suo testo compiuto dall’inizio alla fine per lasciare spazio alla sinergia creata con l’interazione e lo sviluppo narrativo dinamico”.
Riccardo Giagni in New Eye and Ear Control indaga la musica in New York Eye and Ear Control (1964) di Michael Snow, in Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) del messicano Alejandro Gonzáles Inárritu (2014) e in Dunkirk di Christopher Nolan (2017). Si individuano (ovviamente semplifichiamo) elementi comuni, espressione di “un’estetica postmoderna” che assume “un valore predittivo rispetto a ciò che avverrà nel suono e nella musica del cinema nel prossimo futuro”: insofferenza per la musica “narrativa”; “tendenza a un dialogo forte tra colonna effetti e colonna musicale”; evoluzione del commento verso la non-tematicità e in chiave anempatica: ovvero la musica come “oggetto qualunque, perfettamente sostituibile”, “nuovo suono cinematografico integrato”, “colonna musicale pura, paritaria e oggettualizzata che sappia porsi su un piano logico differente rispetto alla logica del montaggio delle immagini, eppure coabitando con esse simultaneamente e nel segno di un’aurea indifferenza”. Davvero interessante, suggestivo e complesso. E però gli esempi e le teorizzazioni di Giagni rientrano nella storia delle eccezioni, delle ricerche e sperimentalismi che non possono trovar sede nel cinema mainstream, ove la score resta legata a convenzioni romantiche e tardoromantiche ultrasemplificate e agli stereotipi della «musica da film» e non oltrepassa la funzione primaria di dignitoso accompagnamento/parafrasi di immagini e situazioni, quando non scade a superflua tappezzeria (come si esprimeva Ermanno Comuzio). Che la musica cinematografica del futuro sia quella preconizzata da Giagni, ci sembra improbabile. Eppure la sua analisi lascia intendere che oltre l’omologazione esistono altre strade capaci di stimolare le pigre abitudini acquisite.
Ultima “testimonianza”, in lingua inglese, quella di Michael A. Levine, che illustra la score da lui composta per la serie tv Siren.
Con In ascolto. Mappe sonore per la storia della musica di Paolo Russo entriamo in territori differenti, imparentati con la classicità e a prima vista estranei alla musica del cinema. L’autore, professore di musicologia presso l’Università di Parma, ha scritto un libro assai particolare, quasi un audiolibro: nel senso che alla lettura dei singoli capitoletti – puntigliose analisi di pagine operistiche e non entro un arco temporale dal primo Cinquecento con il “Kyrie” dalla Missa “Hercules, dux Ferrarie” del fiammingo Josquin Des Prez a Laborintus II di Edoardo Sanguineti e Luciano Berio del 1965 - dovrebbe affiancarsi l’ascolto dei brani stessi, ai quali accedere su Spotify con un QR-code onde verificare in re le considerazioni analitiche le quali, lette in separata sede, risulterebbero scisse dal loro oggetto e faticose da recepire. Un libro pensato dunque e per la lettura e per l’ascolto, parola chiave. Un «invito all’ascolto» ben chiaro nel titolo, che ribadisce un concetto lapalissiano quanto disatteso; tanto più ignorato oggi, un presente in cui sentiamo musica ovunque – dal ristorante alla metropolitana alle varie sale d’attesa -, eppure mai ne abbiamo ascoltata così poca. Perché l’ascolto presuppone umiltà, abbandono all’altro (“l’estraneo” come lo denomina l’autore, ma che potrebbe diventare noi), pazienza, disponibilità interiore e temporale: attitudini assai poco praticate nell’attuale idolatria della velocità e di certo non favorite dall’idea di musica come rito tribale e delirio collettivo che pervade le adunanze affollanti i vari concertoni.
Nell’Introduzione l’autore precisa non essere la sua “una nuova storia della musica […] ogni capitolo è […] costruito attorno ad un brano musicale, ne seleziona alcuni eventi sonori, attribuisce loro un possibile significato, li nomina”. E tuttavia l’opera si configura, a lettura conclusa, come una «storia» alternativa che procede per exempla commentati e scandagliati, “mappe sonore”, con un’attenzione specifica alla musica vocale e alla tradizione operistica (Russo è un profondo conoscitore dell’opera francese e italiana tra Sette e Ottocento), e al conseguente rapporto musica/testo – e qui potrebbe insinuarsi il concetto di «musica applicata» in senso lato, come vedremo. Le tecniche compositive sofisticatissime dei fiamminghi, presenti nelle corti europee con la loro “arte di rappresentazione”. L’opera secentesca, quella seria, quella buffa, quella dell’Ottocento. Per chiudere con le “illustrazioni musicali” dei frammenti danteschi e poundiani assemblati da Edoardo Sanguineti in Laborintus II e messi in musica da Luciano Berio, “inventario di temi, tecniche musicali diverse che si alternano e si incrociano tra loro”. Ma anche il concerto grosso, il concerto solista, quello per pianoforte, la sinfonia, l’atonalità di Arnold Schönberg e la “musica organizzata” di Edgard Varese. Il mutare delle forme nei secoli può essere esperito nella concretezza dell’ascolto, nella lettura guidata dei testi musicali. Tale approccio consente di allargare la fruizione ad un pubblico di non-specialisti che altrimenti si troverebbe di fronte a difficoltà notevoli di lettura: il libro non è di quelli «facili», si tiene alla larga dalla divulgazione spicciola, dai sommari delle enciclopedie portatili, dalle «storie della musica» abbinate ai quotidiani. E’ un testo serio, impegnativo, che richiede la collaborazione dei lettori/ascoltatori, di “chi ascolta musica con passione pur senza avere una formazione e una alfabetizzazione musicale”: “chi ascolta per diletto e nella musica cerca esperienze emotive e conoscitive differenti da quelle che muovono il musicista di professione o lo storico della musica”. Un piccolo “glossario d’ascolto” viene in soccorso di questa tipologia di uditori, più estesa di quanto si creda. Il mondo è pieno di sinceri e volenterosi amanti della musica, che si sentono respinti dalla difficoltà di quest’arte esoterica in sé e resa ancor più ostica – da noi per lo meno - da una scuola – quella di matrice gentiliana ed impronta idealistico/crociana - avversa ad ogni forma di «tecnica» in nome di un malinteso e riduttivo umanesimo: il che ci ha ridotto ad un paese di analfabeti musicali (ciò spiega, in parte, il trionfo di tanto cattivo gusto e l’innalzamento ad astra di troppe mediocrità in un proliferare sconsiderato di «artisti» e di «maestri»). Libri come questo costituiscono un valido punto di partenza nell’arduo cammino dell’educazione musicale.
Ma v’è dell’altro, come supra accennato. Nelle sue disamine l’autore evidenzia l’«applicazione» delle note ai sintagmi testuali, generatrice di autentici virtuosismi autoriali. Come nella citata Missa di Josquin des Prez: “il compositore non si limita a indicare il nome del mecenate [Alfonso d’Este, in omaggio al padre Ercole] nel titolo della messa: per dimostrare la propria perizia tecnica inserisce il nome di Ercole dentro la messa stessa. La melodia cantata lentamente dai soprani prima e dai tenori dopo è estratta dal nome del duca: le vocali di ciascuna sillaba del titolo danno infatti origine a una nota […]”. O il madrigale di Luca Marenzio, intonazione del sonetto petrarchesco Solo et pensoso (Canzoniere, XXX), pubblicato nel 1599 in una raccolta dedicata ai membri dell’Accademia Filarmonica di Verona, dove il musicista si afferma “come lettore e interprete del testo poetico, regista della sua epifania sonora”. Nell’Armide (1686), ultima opera di Jean Baptiste Lully su libretto di Philippe Quinault, “la musica si modella sulla elocuzione verbale; cadenze, accentuazioni, prosodia offrono le curve melodiche, le articolazioni ritmiche, la forma musicale stessa” E quando leggiamo, nell’analisi di due passi del Simon Boccanegra (1857-1881, testo originale di Francesco Maria Piave ripreso da Arrigo Boito, musica di Giuseppe Verdi) che “la musica illumina […] l’ansia di Simone a quel [di Amelia] racconto e ce la fa sentire nell’orchestra che cambia andamento con incalzanti suoni ribattuti”, e si parla di “convergenza tra parola, musica, azione scenica e scenografia”: se non sapessimo che di un’opera lirica si tratta, penseremmo ad una musica in funzione dell’immagine, dello schermo. Ecco: il libro conferma il carattere «applicato» dell’arte di Euterpe ben prima dell’avvento del cinema. Come già ebbe a sottolineare Ennio Morricone: “[…] molta musica è nata come musica applicata. Come esempio massimo basterà citare il periodo barocco e buona parte del classicismo viennese. Haydn, Mozart, ma prim’ancora Telemann, Händel, Bach hanno scritto in stato di dura sottomissione e dietro precisa commissione […]” (dalla lectio magistralis per il conferimento della laurea ad honorem in Lingue e Letterature straniere. Cagliari, Aula Magna dell’Ateneo, 31 marzo 2000. L’estratto della prolusione è riportato in ENNIO MORRICONE, SERGIO MICELI, Comporre per il cinema, a cura di Laura Gallenga, [Bianco & Nero], Marsilio, Venezia, 2001, p. 303).
Ad onta del soggetto, in apparenza estraneo all’ottava arte, ci sembra che il libro di Russo costituisca un apporto propedeutico all’intelligenza della stessa, intesa come forma macroscopica dell’attitudine primigenia della musica ad «applicarsi» a qualcos’altro senza per ciò perdere la sua dimensione «assoluta».