I cento film che sconvolsero il mondo
Gianni Canova
I cento film che sconvolsero il mondo (2022)
24 ORE Cultura srl, Milano
pp. 216
€ 32,90
E’ possibile compendiare la cinematografia mondiale dai Lumiére ad oggi in 100 film? Ci tenta con successo Gianni Canova nel suo "I 100 film che sconvolsero il mondo". I compilatori di crestomazie conoscono a priori i pericoli a cui vanno incontro. In sintesi, di scegliere – anche, e soprattutto magari, inconsciamente - sulla base del proprio gusto, della formazione culturale, dell’orientamento ideologico ed anche politico: insomma, l’individualità del soggetto che seleziona si infiltra in forme subdole e surrettizie in barba ai buoni propositi di sguardo equanime.
Canova, rettore dell’Università IULM e professore ordinario di Storia del Cinema e Filmologia, critico cinematografico e autore di svariate pubblicazioni sull’argomento, evita la trappola richiamandosi ad un parametro che, se non azzera la soggettività, la relega in un pertugio semibuio in condizione di non nuocere. I criteri invero sono due, lo sconvolgimento e il mondo, ma indissolubili. Il cinema, ci spiega l’autore, è sempre sconvolgente perché “ha regalato stupore”, “interrotto il grigiore monotono del mondo”. Però, trascorrendo dal genere alla specie, non tutti i film sconvolgono e comunque non tutti allo stesso modo; molti anzi “hanno cercato di – o hanno finito per - essere normalizzanti”. Depennati questi ultimi – ovvero ampia parte del cinema -, un ulteriore filtro è necessario: distinguere tra i film che ci hanno sconvolto sul piano personale, e quelli “che hanno sconvolto il mondo”. L’«antologia personale» non interessa a Canova, l’ambizione è quella di compilare “un piccolo atlante di sconvolgimenti possibili” (dunque aperto, modificabile, ampliabile) senza pretese canoniche né imperativi gerarchici: una bussola per orientarsi entro il mondo-cinema attraverso 100 titoli entrati per i più svariati motivi nell’immaginario collettivo e punto di partenza per ulteriori percorsi. E dunque non solo i film «belli», «d’arte», ché anzi nella centina troviamo molte pellicole sgradevoli, che ci sbattono in faccia l’orrore della realtà in forme lucide e spietate; e neppure il cinema esclusivamente «d’autore» (capace di comunicare conoscenze, emozioni e idee prima di annullarsi nella ricerca dell’intrattenimento, come suggerito nel portale Treccani: https://www.treccani.it/enciclopedia/cinema). “Ci sono film che hanno sconvolto il mondo perché disturbanti e altri che l’hanno fatto perché incompatibili con le credenze dominanti. Film che hanno oltraggiato la morale e altri che hanno aggredito il presunto «comune» (comune?) senso del pudore”; “che hanno ribaltato l’idea stessa di bellezza, film che hanno rovesciato i codici con cui siamo soliti classificare e perimetrare il mondo”. In quest’ottica, Sussurri e grida di Bergman può convivere con Malizia di Samperi, The Blues Brothers con 2001: Odissea nello spazio, Ladri di biciclette con Profondo rosso, Pulp Fiction con Il pianista in un melting pot da libero pensatore cinematografico che include con disinvoltura kolossal, horror, neorealismo, giallo, commedia tout court e commedia drammatica, comico, fantascienza, erotico, surreale/fantastico, cartoon, documentario, metacinema e tante pellicole non classificabili univocamente, sintesi e sintassi di approcci plurimi, opera di sguardi non convenzionali (come definire – «felliniano»? - 8½, Nostra signora dei Turchi di Carmelo Bene, M. Butterfly di Cronenberg, il Salò di Pasolini?...). Molti titoli incorsero ad ogni buon conto nei rigori della censura codina e pavida, sino al caso limite di Ultimo tango a Parigi mandato (letteralmente) al rogo dalla novella Santa Inquisizione.
Dopo un’accattivante e perspicua premessa “con la dinamite dei decimi di secondo”, scorrono 100 schede concise e pregnanti, un concentrato di trame, attori, vicende produttive e distributive, reazioni della critica, premi, condanne, impatto spettatoriale, seguiti, imitazioni e influssi sulla cinematografia successiva. Si parte da L’arrivèe d’un train en gare de la Ciotat (1896, Auguste e Louis Lumière), 50 secondi sufficienti a sprigionare il dirompente effetto realistico del nuovo medium che mostrava il treno in avanzamento verso la sala, per cui molti fuggirono per evitare di essere investiti dalla locomotiva; si conclude (provvisoriamente) con Joker (2019, Todd Phillips), clown tragico raggelato dalla natura in una smorfia comica, coatto ad una risata che è esattamente il suo contrario, “una risata che squassa, raspa, graffia, stride”. Nel mezzo c’è la storia del cinema nei suoi archetipi fondanti ed inquietanti, nelle provocazioni contenutistiche e formali, nelle innovazioni tecniche, nell’elaborazione progressiva di un linguaggio proprio, «altro». Il pionierismo del muto è imprescindibile punto di avvio a partire da Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914), “punto di non ritorno nella storia del cinema” sia per le didascalie di Gabriele d’Annunzio che conferiscono “dignità d’arte al cinematografo, in precedenza considerato dal misoneismo antitecnologico dell’establishment culturale italiano poco più che un loisir o un trastullo per il popolo”, sia perché “fa delle masse le vere protagoniste del racconto”, sia per “l’invenzione del carrello”. E poi Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Friedrich Wilhelm Murnau, 1922: “un cinema che non imita il reale ma lo deforma”), La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin, Sergej M. Eizenštein, 1925) con il suo “montaggio delle attrazioni” e la messa in atto della teoria del “cine-pugno” (immagini forti ed effetti shock) contrapposta a quella del “cineocchio” di Dziga Vertov, Metropolis (Fritz Lang, 1927) senza il quale “tanto cinema di science fiction contemporaneo […] non sarebbe neppure pensabile”). L’evoluzione della settima arte è di seguito percorsa attraverso titoli celeberrimi (inutile far nomi, ciascuno di noi li ha ben presenti: se non per visione diretta, per fama) e il Novecento appare più che mai il secolo del cinema, affiancato alle tradizionali forme espressive con pari dignità e centuplicata potenza emotiva. Accanto al cinema classico, sedimentato nell’immaginario di tutti, quello del nuovo millennio, che – all’interno di un mare di politically correct, di melensaggini e di noia - ancora sa offrire qualche opera riattivatrice delle emozioni e del pensiero. Da Million Dollar Baby di Clint Eastwood (2004, “una sorta di Dostoevskij in versione hollywoodiana”) a Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 2008) dei fratelli Cohen, autentica “fenomenologia di un mattatoio”; da Venere nera (Vénus noire, 2010) del franco-tunisino Abdellatif Kechiche (“necrofilia del vedere”) a Shame (Steve McQueen, 2011: “superbamente malsano”, “agonico”); da Nymph()maniac (2011) di Lars von Trier che “provoca con perfido cinismo, consapevole che nulla più scandalizza nell’odierna società dello spettacolo” a La favorita (The Favourite, 2018) di Yorgos Lanthimos, “immerso in una penombra kubrickiana […] e in una rutilanza greenwayana”, “una sorta di Eva contro Eva ambientato alla corte inglese di inizio Settecento”. Il cinema italiano del XXI secolo è rappresentato da La grande bellezza (“antifrastica”, “percezione dell’irrilevanza”) di Paolo Sorrentino (2013) e Dogman di Matteo Garrone (2018), “esplorazione dei confini estremi dell’umano, fin dentro gli abissi assoluti della solitudine e della sopraffazione”. Ciascuna scheda è affiancata da un fotogramma significativo o dalla locandina del film. La scalinata di Odessa sparsa di cadaveri e con la celebre carrozzina. Marlene/Lola in cappello a cilindro e lingerie. King Kong in cima all’Empire State Building. I sette nani accanto al letto di Biancaneve. Anna Magnani nell’ultima corsa. Anita che si bagna nella fontana. Catherine Deneuve belle de jour. L’occhio sbarrato di Profondo rosso. Il volto «di tenebra» del colonnello Kurtz. Sharon Stone scosciata…
L’autore non dimentica la musica, e la ricorda nelle occasioni in cui divenne elemento determinante della narrazione filmica. (Ad altri – a noi - l’onore e il piacere di trattarla anche in separata sede). Come gli “elementi sonori volutamente stridenti e dissonanti” creati da Giovanni Fusco per L’avventura di Antonioni, le “corde di violino dell’indimenticabile partitura di Bernard Herrmann” per Psyco, il tema di 8½ “divenuto quasi la «marcia trionfale» del fellinismo”, note che “ci fanno vibrare il cuore ogni volta che le risentiamo”, il “sax malinconicamente sensuale” di Gato Barbieri per Ultimo tango a Parigi, “la musica ipnotica e martellante di Giorgio Gaslini e dei Goblin” per Profondo rosso, quella “struggente” di Vangelis per Blade Runner, “i temi struggenti di Ennio Morricone [che] accompagnano lo scorrere delle immagini e spesso fanno del sonoro l’elemento che anticipa e prefigura il visivo” in C’era una volta in America, Tinto Brass che “usa la colonna sonora di Ennio Morricone come contrappunto di volta in volta gioioso o ironico allo sviluppo della storia” ne La chiave.
Scrivere di cinema è difficile, come potrebbe la parola corrispondere alla visione? Bene, qui accade il miracolo, ogni scheda è una visione. Non si limita a fornire strumenti di conoscenza: te li fa vedere quei film, le immagini prendono corpo evocate da parole che sono formule magiche. Grazie ad una scrittura di prim’ordine che possiede in primis la qualità dell’esattezza – tanto elogiata da Italo Calvino nella sua terza lezione americana - e che di ogni film ci restituisce lo spirito, l’atmosfera, il senso. Scrittura «esatta» e nondimeno suggestiva, medium transcodificatore dell’inafferrabilità delle immagini semoventi che si fissano nelle acconce definizioni senza per ciò sclerotizzarsi in formule astratte, come dimostrano gli stralci citati. Nell’«immenso fiume dei libri nuovi che vengono tuttogiorno in luce» sui quali ironizzava Leopardi già due secoli fa e che ci disorienta e intimidisce (che cosa leggere e chi e perché), questo di Canova (che non ha conosciuto l’onta dei talk show) è una felice eccezione. Per i lettori più giovani sarà un corso di cinema, la scoperta di opere lontane dalla loro esperienza ed auspicabile stimolo alla visione – se non altro per contestualizzare le pellicole del presente e comprendere quanto siano debitrici verso quelle del passato; anzi, dovrebbe essere adottato nelle scuole e nelle facoltà umanistiche -; per quelli senescenti, il recupero di nozioni apprese in qualche dimenticato corso universitario e poi dismesse, ed anche un work in regress della memoria. Quei titoli ci accompagnarono, formarono negli anni più ricettivi. Alcuni li visionammo, allora o dopo. Altri ce li siamo persi. Altri ancora preferimmo evitarli per risparmiare ai nostri occhi il disturbo sconvolgente e permanente causato da certe immagini – l’occhio è onnivoro, cupido, morboso; ma anche vile -, alla nostra anima la presa di coscienza diretta di realtà da rimuovere, Ma tutti, in qualsivoglia forma, faccia a faccia o per speculum, li abbiamo visti, sono entrati in noi come un tossico, non possiamo liberarcene. Una diacronia che, terminata la lettura, si muta in sincronia: quelle pellicole sono qui, tutte insieme a noi davanti in un adesso eterno: il nostro occhio di spettatori è divenuto simile all’occhio di Dio. Anche di ciò dobbiamo render grazie a questo libro, che è ben di più del solito «dizionario dei film», esorbita dalla funzione informativa e approda alla sfera dell’esistenzialità: ricostruiamo la nostra biografia di spettatori in un percorso che ci restituisce per intense epifanie il fascino della memoria, il sapore autentico del passato. Il cinema come intermittences du coeur.
Il libro offre il destro ad una personale hit parade filmica lungo la linea sottile ed insidiosa che ci induce a confondere, a mescolare l’adesione emotiva e la più distaccata prospettiva critica. Ché alla fine, poi, è bello ciò che piace, brutto ciò che dispiace. Un titolo, uno solo, avremmo aggiunto, compatibile con l’ottica dello sconvolgimento: Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone. Un regista sconvolgente sempre – per lo stile di regia fitto di primi e primissimi piani non meno che di spaesanti campi lunghi, ellissi, analogie, studiate lentezze e brutali accelerazioni, ridondanze barocche e stilemi pauperistici, epos e trivialità - e che con la «trilogia del dollaro» ha ribaltato (sconvolto?) il western. Quel film è la summa della visione leoniana del genere cinematografico per eccellenza, dalle sette vite e che, dopo, non sarà più lo stesso ed anche gli americani dovranno fare i conti con quell’ingombrante rivisitazione. Col successivo C’era una volta il West (“balletto di morte” lo siglava il regista) si apre un nuovo capitolo come già titolo annuncia, si celebra il funerale del West e forse del western che sopravviverà in forme sempre più ibride e meta. Dopo l’epopea maestosa e trucida, il crepuscolo degli dei, il peso del Tempo e della Storia, l’inanità della (di ogni) rivoluzione, lo scacco dei sentimenti e della vita intera: un nuovo cinema, più disincantato ed amaro (adulto?) che culmina in C’era una volta in America, giustamente inserito nell’aristocratica centina.
In una lettera a Oscar Pollak, del 27 gennaio 1904, il giovane Kafka diceva che “bisognerebbe leggere […] soltanto i libri che mordono e pungono. Se un libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?”. Bene, il libro di Canova è di questi. Estendendo, l’autore ha radunato e commentato 100 film che hanno morso, punto, preso a martellate in testa l’umanità; provocato stupore, estasi, disagio, repulsione; pugni sul cranio delle nostre facili sicurezze, delle pigre abitudini mentali, delle ipocrisie contrabbandate per buon senso e buon gusto. E adesso, percorso il cammino per noi tracciato dal prezioso vademecum, siamo in grado di procedere da soli: aggiungiamo alla lista, se ci pare, i nostri personali sconvolgimenti, sempre salutari.