Che
Alberto Iglesias
Che – L’argentino & Che – Guerriglia (Che – 2008)
Varèse Sarabande VSD 6929
21 brani (19 di commento + 2 canzoni) – durata: 58’25’’
Audace.
Per quanto paradossale e anacronistico possa sembrare un simile aggettivo per l’ultima prova cinematografica di Alberto Iglesias, così apparentemente radicata in un linguaggio e in un approccio che verrebbe più naturale etichettare come datati, vecchio stampo o addirittura fuori luogo, non c’è davvero altro modo per rendere giustizia a questo sublime lavoro di commento musicale per le copiose immagini tributate da Steven Soderbergh alla figura di Ernesto “Che” Guevara, suddivisa cinematograficamente in L’argentino e Guerriglia. Tanto più ci si inoltra nella scelta audiovisiva operata dai due cineasti, ancor meglio anzi l’essenza non contemporanea della scrittura di Iglesias e il suo accostamento anticonvenzionale al racconto impongono riconoscimenti di coraggio e arditezza. Proporsi oggi, per un’opera espressamente modellata sui canoni del filmaking postmoderno (liquidità di messa in scena, regia di pedinamento, macchina a mano prevalente e libertà grammaticale) – peraltro diretta da uno dei registi maggiormente coinvolti nella costruzione di questa estetica - con un’idea di musicazione filmica che non si limiti ad evanescenti sottolineature ma bensì penetri, finanche ricorrendo ad idiomi orchestrali ormai non più ortodossi, il testo narrativo alla ricerca di un'intesa organica con la sua (difficile) architettura diegetica, ha più dell’impossibile che dell’improbabile. Eppure Iglesias non solo trova in Soderbergh un sodale interlocutore, ma accede ad un progetto sonoro dotato a sua volta di un densità non comune. Una narrazione che frequentemente e con particolare dedizione in L’argentino si discosta dal naturalismo di missaggio e arbitrariamente esclude la colonna rumori per giustapporvi, imperiosa, la voice-over del protagonista temporalmente slegata dall’azione; o ancora permette allo scoring di prendere a sua volta il sopravvento sul flusso auditivo in una forma debole che sembra preferire l’indagine psicologica di un idealista fondamentale solo e isolato con se stesso al ritratto del fiero combattente rivoluzionario. Soderbergh infatti raramente prende posizione o marca un punto di vista morale, tantomeno politico. Un’altra occasione di audacia per Iglesias: addentrarsi musicalmente in quella nuova tendenza di racconto per immagini equilibrata sulla neutralità di giudizio - che dal moderno seriale televisivo ha strutturalmente e precipuamente conformato molto cinema - trovando un’alternativa rinfrancante allo spandersi di droning sounds, moti perpetui e pedali pulsanti spesso volontariamente relegati all’annichilimento di senso anziché all’integrazione semantica. Il compositore spagnolo, che certo non ha mancato con le sue collaborazioni almodovariane di dimostrare pienamente la sua scaltrezza sinfonica, sceglie la strada impressionistica, la forte coloritura atonale, tornando alle sue origini avanguardistiche e, sempre in controcorrente, interviene con parsimonia durante le oltre quattro ore di montato, toccando il massimo rigore in Guerriglia. Si è parlato di rimembranze del Goldsmith più viscerale, di Takemitsu e di David Shire (Zodiac in primis), e in effetti la portata complessiva dello score si presta non di rado a simili corrispondenze. Resta però, preponderante, un piglio cerebrale e una capacità di misura che chiama in causa principalmente le composizioni di Jerry Fielding per Michael Winner e Sam Peckinpah, così come lo scenario fotografico prevalentemente naturale e le soluzioni moderne della partitura riportano allo Schifrin radicale di Duello nel Pacifico. Anche Iglesias, d’altronde, nell’accostarsi alla figura discussa del protagonista, contribuisce ad estraniare il personaggio dalla sua dimensione civile impastandolo in un universo quasi panistico, individuale e metafisico. I legni, con flauto e clarinetto in evidenza, assecondano questa sensazione prestandosi ad intavolature fluttuanti ed evocative; gli archi emergono invece come delatori di un determinismo fatale, che cresce e si attanaglia lungo l’intreccio come l’esercito che tenta di scovare il Che nella boscaglia, stazionati poi intorno al personaggio in un freddo abbraccio che trasuda partecipazione (ma mai compassione) e senso di incombenza per una morte inevitabile. Spetta ad una cristallina chitarra classica l’onere degli unici passaggi prettamente melodici dello spartito: la mancanza di legato con cui le corde risuonano mischiano però all’umanità dello strumento la stessa imparzialità riconosciuta ai violini.
E’ con lo strumento a corde che si apre il disco, introducendo quello che è forse l’unico vero tema della partitura (“Ese hombre es el Che Guevara”). La cavatina riflette la dicotomia del personaggio così come restituito nel suo ritratto schermico: gentile nella melodia ma pervasa da una secchezza d’esecuzione quasi violenta. “Ten Years Earlier (December 1, 1956)” sbriga con una rapida rullata di percussioni l’accesso alla dimensione portante dello score e all’iter militante del protagonista; linee d’archi su crescendo di ottoni accolgono poi la prima cellula vagante del clarinetto, raggiunto dal flauto su un pedale di pianoforte. Un cluster crescente dell’orchestra, reiterato e progressivamente accresciuto in dinamica, chiude il brano sancendo definitivamente il mood viscerale e irrisolto, esitante e frammentario che guiderà lo score in affinità con la parabola politica del Che. Ne è un esempio immediato il successivo “Sierra Maestra”, dove un florido albeggiare di corno francese - poi passato al flauto e all’oboe nella prima riesposizione e introducente un bagliore coplandiano che ben si unisce allo scenario fotografico – viene alternato in una forma-rondò a squarci di puntillismo aleatorio che riportano alle asperità del cammino. A “Landscape”, che riassume nel titolo la natura ambientale dell’unica linea di sintetizzatore caratterizzante il brano, precede lo scenario rarefatto degli accordi d’archi in sordina (anch’essi intermittenti) di “I Want To Take The Revolution To Latin America” e la solitaria elegia del violino in “New York, December 1964”. L’afflato patriottico torna ad aprire, con un oboe morriconiano, “Across Mount Turquino”, ma già la risposta della tromba è adombrata da una flessione dissonante dei corni. Il tono si assesta nuovamente su una tramatura di elusiva inconsistenza, con il clarino a riprendere la frase iniziale sul punteggiare ansioso dei trilli dei flauti, il pizzicato di contrabbasso e i rintocchi di percussione: sgorga dal flauto un passaggio che afferma la decisiva connotazione impressionistica della partitura, un intervento capace di particolare suggestione sulle immagini. Con l’ottava traccia, “March”, l’album presenta quella che è la mosca bianca e insieme la pagina più indicativa del commento, estratta da un montage de L’argentino. Il cue che più di tutti realizza autonomamente la densità compositiva e la felicità d’orchestrazione, con l’aggiunta di una pienezza melodica unica al di fuori del tema chitarristico, è una baldante marcia bitematica. L’intelaiatura sincopata dei violini accoglie una fiero proclama di tromba e corno, rapidamente incalzati da un’imprevista digressione esotica per strumentini e marimba. Un’avvicendarsi degli episodi musicali e una precisione della scelta strumentale che traducono con lucidità il dividersi del protagonista tra impegno militante e idealismo individuale, civiltà e natura. Le code, non a caso, sono affidate ad un dialogo interrogativo tra clarino e tromba, con quest’ultima predisposta nel mezzo come ponte per il rientro della ritmica. E se la voce del legno, con la sua dimensione personale, sembra avere la meglio in chiusura, la successiva “Some Crazinesse Is Good” torna a setacciare le cavernosità armoniche introducendo, in un altro spartito di predominante astrattezza aleatoria, ulteriori colori orchestrali: un’allarmante avvisaglia dei violini nelle alte ottave, accordi ribattuti del pianoforte e un simbolico montare degli armonici d’archi. Di nuovo Iglesias ribadisce il suo principio chiaroscurale in “Luces y ombra”, predisponendo un quieto e atonale notturno per flauto e chitarra. Ma l’atmosfera di distensione è subito squarciata dai sovracuti delle cornamuse (tanto esasperate da confondersi con un sample di canti di balene) che in “Ambush”, evidenziando l’acume della scelta timbrica, trafiggono l’agguato teso alla pattuglia del comandate durante un guado. Contribuiscono allo stato di tensione i lancinanti sforzando dei contrabbassi, prima che il vespertino aprirsi dell’orchestra di “Sierra Maestra” torni a mostrarsi in “Political Skills” preludendo ad un’inquietante fluttuazione di progressioni cromatiche per pianoforte e crescendo di fiati. Un’imbastitura marziale delle percussioni apre invece “Military Skills”, ma all’idea è precluso un compiuto sviluppo dal ritorno alla dissonanza, per poi riapparire, in maggiore affinità con “March” e attraversata da nuovi scampoli di americana, in “Camino a la Habana”. I blocchi finali si affidano al mesto melodismo della chitarra, che se in “Doctor Guevara” è addirittura raddoppiata in un virtuosistico duetto contrappuntistico, in “Patria o Muerte” abbina alle divagazioni del flauto uno sbozzato ritmo di habanera. Da notare comunque come all’appuntamento con il noto epilogo delle gesta guevariane, anche il plettro e i tesi accordi degli archi vengano infine divorati dal magma elettronico crescente e saturante dell’accerchiamento e della cattura.
Chiudono l’album due canzoni, “Balderrama” e “Fusil Contra Fusil” (rispettivamente interpretate da Mercedes Sosa e Silvio Rodriguez), perfettamente sciolte nel discorso musicale di Iglesias ed efficaci nell’ulteriore definizione del colore folcloristico. Il CD Varèse, tra l’atro, offre la migliore integrazione a quanto ascoltato sulle immagini, nell’intento di una valutazione complessiva dell’operato dell’autore anche alla luce delle ventilate riserve espresse dallo stesso a proposito del montaggio musiche scelto dal regista. Forse l’adeguamento in extremis del cineasta alla logica cinemusicale corrente, di fronte ad un approccio davvero troppo inusuale al giorno d’oggi. Da non guardare però come ad un’oasi solitaria e sterile: considerata anzi la simile profondità profusa già da Alex Heffes per l’affine L’ultimo re di Scozia, si auspica di poter inquadrare lo score di Che come un altro passo verso il ritorno ad una scrittura per il grande schermo capace di osare senza perdere di vista i propri diritti e i propri doveri. Nonché la propria dignità.