Carol & Freeheld & Io e lei
Carter Burwell
Carol (Id., 2015)
Varese Sarabande 302 067 380 8
19 brani + 6 canzoni – Durata: 52’57”
Hans Zimmer, Johnny Marr
Freeheld – Amore, giustizia, uguaglianza (Freeheld, 205)
WaterTower Music
7 brani – Durata: 27’41”
Gabriele Roberto
Io e lei (2015)
Indigo/Warner Music
15 brani + 1 canzone – Durata: 18’36”
Esiste uno specifico femminile nello sguardo intenso e attento che il cinema contemporaneo sta riservando alla tematica dell’amore fra donne? A prima vista non si direbbe. Dei tre film che, sull’onda delle sacrosante lotte per il riconoscimento di pari diritti alle coppie gay e per le unioni civili, hanno caratterizzato l’anno passato, solo uno - Io e lei – è diretto da una donna, Maria Sole Tognazzi, anche se Carol di Todd Haynes proviene da un racconto di Patricia Highsmith ed è coprodotto dalla coprotagonista Cate Blanchett. Si aggiunga che il titolo in materia più dirompente degli ultimi anni, La vita di Adele del franco-tunisino Abdellatif Kechiche, Palma d’oro a Cannes 2013, è stato apertamente accusato di indulgere a tentazioni pornografiche a stretto uso e consumo del pubblico maschile, e si capirà quanto la materia è delicata. D’altronde questa recente produzione non ha nulla a che spartire con il cinema di più rigorosa e diretta militanza lesbica, del quale fu ad esempio portabandiera una ventina d’anni fa Go Fish (1994) dell’americana Rose Troche, ma tende piuttosto a mediare l’argomento attraverso storie e personaggi dove prevale nettamente l’aspetto sentimentale, si direbbe romantico, su quello erotico o “politico”, coniugato tuttavia – soprattutto nel caso di Freeheld – con una nitida e determinata battaglia di civiltà e dignità.
Anche per quanto riguarda l’aspetto musicale, colpisce il mancato coinvolgimento di compositrici nella stesura dei rispettivi scores. Naturalmente sono considerazioni puramente teoriche: una firma femminile, infatti, non garantisce di per sé uno sguardo (né una musica) “al” femminile: vogliamo citare gli esempi di Kathryn Bigelow alla regia o della compianta Shirley Walker alla musica? Per contro, vi sono registi maschi che hanno saputo farsi portatori di una sensibilità muliebre sconosciuta a molte colleghe: citeremo solo Ingmar Bergman, John Cassavetes, François Truffaut, Woody Allen, Clint Eastwood… Materia scottante, dicevamo. La sorpresa però, sotto l’aspetto musicale che qui a noi principalmente compete, riguarda la presenza di due (su tre) compositori decisamente abituati ad altro.
Carter Burwell, ad esempio, si è negli anni dimostrato completamente a proprio agio nell’universo sarcastico e grottesco (e piuttosto misogino) dei fratelli Coen, estendendo la propria vena sottrattiva, le proprie tessiture trasparenti e allusive anche ad altri generi cinematografici, e persino ad un prodotto “cool” come Twilight; anche quando si trova in presenza di una vicenda melò Burwell non alza mai i toni e rifiuta programmaticamente ogni enfasi, come nella sua notevolissima partitura per la miniserie Mildred Pierce (2001); ed è ancora per il regista Todd Haynes, e ancora per la sua malinconica vena “vintage”, che ora sembra in Carol fare appello alla propria ispirazione più minimalista, semplificando al massimo gli interventi e contenendoli nei limiti di un pudore espressivo quasi anaffettivo.
“Opening”, ad esempio (anche nella sua ripresa di “Drive into night” così come nel carezzevole “Datebook”) sembra qualcosa che sta fra Nyman e Desplat nella elementare linearità dell’idea centrale per pianoforte, archi mossi e clarinetto: un’idea che pur trasmettendo agitazione emotiva punta a raffreddarla in un’enunciazione di algida, imperscrutabile compostezza. Altrove (“To Carol’s”), l’intervento della voce femminile e dell’elettronica aggiunge una senso di lontananza incolmabile, mentre il moto perpetuo degli archi in “Christmas trees”, sempre intorno al leit-motiv, assume una colorazione vagamente spettrale. Colorazione che si aggrava di ombre cupe, nel pedale dei bassi, in “The train” o lievita verso altezze siderali in “Packing”; è abbastanza evidente che Burwell non insegue le tracce di una partitura “d’epoca”, ispirata cioè alla cifra melò anni ’50 che è costante nel cinema di Haynes e aveva già ispirato il lussureggiante score di Elmer Bernstein per Lontano dal Paradiso (2002): anzi, in “Gun” si riaffaccia il musicista dei Coen Bros. in una scrittura densa e vagamente sinistra che acquista tanto più rilievo in quanto l’organico strumentale appare rigorosamente cameristico, mentre “Letter” – che spicca per la sua relativa lunghezza in uno score costituito più che altro da brevissimi frammenti – raggiunge una sconsolata tristezza nelle lunghe frasi di piano e archi cui risponde un solitario clarinetto.
L’approccio di Hans Zimmer all’argomento (che però aggiunge al tema dell’amore saffico quello della malattia e si basa su una storia vera, nonché su un progetto fortemente voluto dalla co-protagonista Ellen Page, autrice nel 2014 di un clamoroso “coming out”) è decisamente più pop, ma nello stesso tempo anche più astratto. Complice sicuramente la compresenza di Johnny Marr, il chitarrista della band britannica The Smiths, Zimmer abdica completamente alle proprie abituali tonalità solenni e di geometrica potenza, rievocando piuttosto sonorità underground anni ’70, fra tocchi di chitarra riverberati, tastiere gorgoglianti e una patina di offuscamento del suono che trasporta l’indomabile battaglia d’amore delle due protagoniste in una dimensione antinaturtalistica e universale. Così, se “House hunting” ha la forma di una ballata serena e conversevole, di impronta acustica e quasi counmtry, “Can I have your number?” è tutta sospesa in un sound design vitreo, quasi puntillistico, ancor più accentuato nella lunga “Can’t leave her”, dove Zimmer e Marr mostrano con tutta evidenza di voler sfuggire alle trappole del sentimentalismo strappalacrime percorrendo la strada di una rarefazione assoluta del suono e di una immobilità espressiva ottenuta non senza il rischio di un monotono, impassibile disagio che sembra incrinarsi solo nell’accelerazione ritmica finale, parzialmente trasmessa anche a “The decision” (specie nel finale “metal”), dove emergono in sottotraccia elementi del pathos che caratterizzava Inception. Si rientra però nell’alveo di un trattenuto e composto sconforto con “Justice”, che sembra sciogliersi solo nelle sonorità miste di “Remembering”, appassionatamente liberatorie nel connubio emozionato fra chitarra e tastiere.
Al taglio decisamente più quotidiano, borghese e meno “engagé” del film italiano corrisponde forse non a caso la più convincente e riuscita delle tre partiture, quella di Gabriele Roberto, il raffinato e poliedrico compositore piemontese da tempo trasferitosi in Giappone (dove ha vinto nel 2007 il Japan Academy Award per la partitura di Memories of Matsuko) e di cui si erano già annotati gli scores per La vita facile (2011, di Lucio Pellegrini) e Viaggio sola (2014, anche questo di Maria Sole Tognazzi). Scremato di ogni esibizionismo erotico e relegando il pur presente appello civile nel sottofondo di un rapporto “coniugale” quasi sonnecchiante fra due donne di mezza età (Margherita Buy e Sabrina Ferilli), il film trova nella musica di Roberto una compartecipazione colloquiale, sdrammatizzante e sorridente, di preziosa ma non superficiale essenzialità. Ne è protagonista abbastanza incontrastato il pianoforte, che enuncia nel “Prologo” (e poi riprende in “Piacevoli abitudini” e oltre) un morbido, accattivante blues di affettuosa complicità. Anche questa breve partitura, come le prime due, procede quasi per frammenti, ripetendo con regolarità l’idea centrale (“In intimità”, “Sulla spiaggia”) nella prevalenza di un classico duo jazz pianoforte-contrabbasso (“Il viaggio”) al quale Roberto aggiunge un’orchestra di archi e arpa (la toccante “Abitudine”) con l’occasionale supporto delle voci, senza minimamente intaccarne l’asciuttezza e l’antiretorica. L’opzione jazzistica anzi accresce la sensazione di dimestichezza, di familiarità con le protagoniste e con la loro quotidianità, senza negarsi a venature romantiche, come nelle belle modulazioni di “Ricordo di lei”; così, il pianoforte diventa una presenza affettuosa e rassicurante, anche quando il suo ruolo appare confinato ad un semplice ostinato nell’inquieto “Per le scale (verso l’amore)”; ma è soprattutto nella ripresa finale della pagina d’apertura (”Io e lei”) che esso funge da sobrio sigillo emozionale in una versione inclusiva dell’orchestra che, nel suo decorso quietamente struggente, ricorda quasi certe pagine del grande Henry Mancini.
Varrà la pena infine di ricordare come tutti e tre i soundtrack inglobino, in misure e con funzioni diverse, e quindi connotative, anche la presenza “significante” di canzoni: massicciamente in Carol (da Billie Holiday a Jo Stafford, da Georgia Gibbs a Les Paul), a restituire direttamente il climax di un’epoca; con intenti più schiettamente nazionalpopolari in Freeheld grazie al singolo “Hands of love” di Miley Cyrus, anche se la popstar tutto può dirsi fuorché un’icona gay; e infine in Io e lei con “Splendido splendente”, vecchio (1979) cavallo di battaglia della nostra Donatella Rettore, portabandiera di un anticonformismo rock di cui la cantante veneta è stata una profetica paladina.