Sinhue l'egiziano (Edizione Estesa)
Bernard Herrmann, Alfred Newman
Sinuhe l’egiziano (The Egyptian, 1954)
La-La Land Records LLLCD 1346 – Edizione limitata 1500 copie
CD 1, 29 brani – Durata: 58’25”
CD 2, 19 brani + 6 bonus track – Durata: 59’25”
La composizione a quattro mani, nella musica cinematografica, è prassi abbastanza rara anche ai nostri giorni. Essa era tuttavia unica, più che rara, nell’era dei grandi studios, dei loro compositori e musical directors. Appariva infatti estremamente arduo, per non dire impossibile, mettere d’accordo fra loro personalità dalle spiccatissime caratteristiche individuali, dai metodi assai diversificati, dagli stili molto personali e riconoscibili, quindi difficilmente omologabili lungo quel binario necessariamente obbligato e unitario sul quale deve correre una partitura cinematografica. Tutto questo, oltre sessant’anni fa, rese ancor più eccezionale l’operazione di Sinuhe l’egiziano, non tanto uno dei numerosi kolossal in costume (o “pepla”) quanto piuttosto un dramma storico e psicologico ambientato nell’antico Egitto ai tempi della XVIII dinastia (1500 a.C. circa), ricavato dal romanzo dello scrittore finlandese Mika Waltari e incentrato sulle travagliate vicissitudini del trovatello Sinuhe, divenuto medico alla corte del faraone Akhenaton.
Fortemente voluto dal produttore Darryl F. Zanuck e affidato alla regia piuttosto inadeguata di Michael Curtiz (Casablanca), il film subì in lavorazione una serie di peripezie, soprattutto di casting, che non contribuirono certo al suo (scarso) successo: tra queste, la defezione dal ruolo del protagonista prima di Dirk Bogarde poi di Marlon Brando (la parte fu poi affidata al mediocre Edmund Purdom) e l’esclusione di Marilyn Monroe da quello della cortigiana Nefer, sostituita da Bella Darvi, all’epoca fidanzata di Zanuck. Fu così che una serie di ritardi e contrattempi ridussero ancor più i già proverbialmente ristretti tempi a disposizione del compositore, ossia Alfred Newman, nume tutelare della 20th Century Fox, fondatore del suo dipartimento musicale e autore del suo ancor oggi celeberrimo logo. Newman chiese quindi un supporto per completare l’impegnativa opera, e sorprendentemente a venirgli in soccorso fu proprio Bernard Herrmann, che conosceva Newman da oltre un quindicennio e con il quale aveva sempre intrattenuto ottimi rapporti: cosa piuttosto singolare, visto il proverbiale carattere di Herrmann, ignaro di compromessi e naturalmente incline all’irascibilità e all’individualismo.
Nacque così la singolare creatura che è lo score di Sinuhe l’egiziano, basato su una rigorosa divisione del lavoro fra i due maestri, una dicotomia stilistica suggerita dallo stesso Herrmann, alla quale avrebbe però sovrainteso uno stretto contatto reciproco per conferire quanto più possibile al risultato finale una coerenza stilistica. Semplificando, si può dire che Herrmann si assunse il compito di comporre i passaggi più “dark”, più cupi e sinistri della vicenda, in particolare l’ossessione rovinosa di Sinuhe per Nefer, mentre a Newman furono affidate le parti riguardanti la storia d’amore fra Sinuhe e Merit (Jean Simmons) e la figura di Akhenaton (Michael Wilding), impegnato soprattutto a diffondere il monoteismo nella società egiziana del tempo. Questa divisione del lavoro fu applicata rigidamente anche nella direzione dell’orchestra, la meravigliosa compagine dello Studio Fox, cui i due compositori si alternarono ciascuno per i propri brani, ma non impedì che comunque a Herrmann toccasse la parte del leone, sia per quantità di musica che per la sua rilevanza narrativa; tuttavia l’immediata riconoscibilità dei due stilemi, il netto profilo della loro strumentazione (legni e percussioni per Herrmann, archi per Newman), e l’inconfondibile sapore delle rispettive idee melodiche rendono la partitura una creazione assolutamente unica ed eccezionale anche a distanza di decenni.
Decenni nei quali la discografia di questo titolo ha conosciuto numerosi capitoli, a partire dal leggendario vinile Brunswick degli anni ’50, passando per la ristampa – sempre in LP – della MCA nel ’72, l’edizione Film Score Monthly nel 2001 e giungere sino al restauro di Frank Morgan per la riesecuzione, prestigiosa e appassionata, di William Stromberg sul podio della Moscow Symphony nel ’99 (etichetta Marco Polo). Ora, come da par suo, La-La Land Records mette un punto fermo a questa lunga storia con la riproposta filologicamente originale e integrale dell’intero score, restaurato e rimasterizzato dall’infallibile Mike Matessino, e corredato nel booklet da una minuziosa e preziosa guida all’ascolto firmata da Jeff Bond.
Uno degli innumerevoli problemi che si posero ai due compositori riguardava il rapporto con la musica “d’epoca”: nulla essendo pervenuto ai nostri giorni dell’antico patrimonio musicale egizio, il campo non poteva che essere occupato da pure ipotesi. Sia Herrmann che Newman avevano una dote naturale nel rievocare atmosfere ed epoche antiche: il secondo era reduce dal successo personale con lo score di La tunica (1953, regia di Henry Koster), mentre del primo era nota la padronanza assoluta di strumenti inconsueti e associazioni timbriche inedite. Ed infatti anche questo compito fu diviso in parti eguali, lasciando forse a Newman maggior spazio nella coloratura esotica di alcuni momenti (“Crocodile Inn”); ma anche Herrmann, sin dal grandioso “Prelude” per coro femminile, dalle movenze apertamente orientaleggianti, sul rintocco del sistro (lo strumento idiofono egiziano la cui origine la leggenda attribuisce alla dea delle arti Hathor), si dimostra preparatissimo su questo fronte. Il tema di Merit (“Her Name Was Merit”), per archi divisi, declina tutto il tipico lirismo newmaniano, così come le pagine luttuose e rituali di “Death of Pharaoh” e “Chant for dead Pharaoh” ne svelano la totale immedesimazione culturale, con il coro misto che alza il suo lamento su pesanti percussioni. Progressivamente Newman si appropria dei momenti più pacati e meditativi (“Akhenaton – To One Deity”) e Herrmann di quelli passionali, giungendo in “Nefer Nefer Nefer” ad un’accensione febbricitante e quasi disperata degli archi nel tema dedicatole, in un cromatismo esasperato e penetrante. Archi che poi, nelle mani di Newman, si sciolgono in un vagante e notturno ”misterioso” in “Kaptah’s Dilemma – The Garden”. Curioso come l’iniziale bipolarismo di questo lavoro sfoci, a lungo termine, in una sorta di “alternanza unitaria” (ci si passerà l’apparente ossimoro) che confluisce in un’unica temperatura drammaturgica; resta però assodato che, come da impostazione iniziale, è Herrmann a farsi carico dei passaggi più arrovellati e drammatici. Se ne ha una riprova in “The Rebuke”, dove il compositore prelude già alle sue meravigliose fatiche hitchcockiane nel lungo girovagare dei violini, nell’impronta tragica del fraseggio e nel timbro malevolo e presagio dei legni (in primis i clarinetti). Ma in “The Deed” è addirittura Herrmann stesso a riorchestrare il tema newmaniano di Merit per oboe, viola e cello, accodandogli un epilogo tormentato e oscuro; “Violence” anticipa poi di oltre un ventennio – nell’ostinato iniziale degli ottoni – Complesso di colpa, in un climax che si accentua nelle brutali scalette discendenti di ottoni e legni in “The Homecoming”, nelle pungenti dissonanze nella gestualità concitata di “The Burial”, e si raggruma invece in sonorità cupe e ancestrali di bassi e percussione in “The House of the Dead”. Di nuovo il tema languido e rassegnato di Merit domina “The Valley of Kings Part I e II”, dove Newman introduce una serie di variazioni (splendida la parentesi per violoncello) e interventi strumentali caratteristici, conferendo nuovamente al tutto quel colore esotico che è una (non la sola) delle tipicità dello score.
“Hymn to Aton” è forse la pagina più nota del lavoro, ed è quasi una pagina di source music; il coro leva un testo originale egizio tradotto in inglese (“How Beautiful Art Thou”) in una melopea sostenuta da legni, arpa e dal sistro: qui Newman punta ad una specie di impassibilità emotiva, raggelata nei timbri antichi e dalle modalità arcaicizzanti . Gli fa eco Herrmann con “Nefer Returns” e “Nefer Farewell” (il primo conteneva una parte per voce e liuto poi eliminata in registrazione), nel secondo dei quali gli archi con sordina trasmettono un senso di profondo dolore. Dopo una nuova immersione nella musica ambientale con “Sights Sounds and Smells”, Newman torna magistralmente sul tema di Merit di particolare intensità emotiva con “You’ve Been in My Prayers” e riespone sommessamente l”Hymn to Aton” in “Am I Mad?”, interpolandolo con l’improvvisa irruzione di una fanfara; nelle più profonde oscurità della partitura si torna col clarinetto basso e la funebre scansione della percussione herrmanniana di “The Tomb” mentre la “Danse Macabre”, sempre di Herrmann, esplode in un groviglio orchestrale arroventato basato su un ostinato implacabile di quattro misure e sulla prevalenza modale del tritono. “The Death of Merit” sembra quasi sfigurare l’”Hymn to Aton” in una serie di forzature corali attraversate dal suono feroce degli ottoni cui segue un’angosciata, prostrata versione per archi del tema di Merit: qui davvero la grandezza del compositore di New Haven, soprattutto nella descrizione del dolore umano, si staglia inappellabilmente. La saldatura con la presenza herrmanniana è evidente in “The Death Potion”, dove quest’ultima si esplica in una pagina di sottofondo elaboratissima e densa di inquietudine. In “Death of Akhenaton” è Newman a optare per un’atmosfera misticheggiante, mentre lo stesso sfoggia in “I’m the Pharaoh – Horemheb’s Victorious Entrance” e “The New Pharaoh” una fanfara squillante e politonale che – osserva Bond - «richiama la sua fanfara gloriosa e fascista per il folle imperatore Caligola di La tunica». Se Herrmann aveva aperto la partitura trionfalmente, ora è Newman a chiuderla con “Exile and death”, in un lussureggiante e maestoso crescendo.
Particolarmente interessanti i cinque bonus track, che propongono versioni alternative di vari brani e le voci originali delle recording sessions, tra cui una fiammeggiante riproposta della “Danse Macabre” di Herrmann senza timpani e percussioni. Dunque un nuovo caposaldo discografico, in questo 2015 che già ne ha visti molti e notevoli (ricorderemo solo, proprio di Herrmann, l’edizione estesa di Obsession pubblicata da Music Box Records), ma soprattutto la documentazione di uno straordinario sforzo creativo congiunto fra due titani dell’Ottava Arte, sforzo rimasto – anche negli esiti – assolutamente irripetibile in tutta la sua pur lunga storia.