05 Gen2011
Far From the Madding Crowd - A fantasia of British classical and film music
AA.VV.
Far From the Madding Crowd - A fantasia of British classical and film music (2010)
City of Prague Philharmonic Orchestra
Tadlow Music TADLOW006, 2 cd
Cd 1, 17 brani – Durata: 73’17”
Cd 2, 20 brani - Durata: 78’16”
Un altro esempio geoculturale è sicuramente la Gran Bretagna, nel “secolo breve” fucina di compositori poco propensi a seguire le traiettorie delle avanguardie e della postmodernità ma d’altro canto fortemente intessuti di radici nazionali e popolari, cementate da cospicue influenze derivate dal tardo Ottocento mitteleuropeo: anche qui è difficile tracciare solchi, erigere steccati semantici precisi perché figure come Ralph Vaughan-Williams, William Walton, Gustav Holst, Edward Elgar, Benjamin Britten, e poi Patrick Doyle, John Barry, Richard Rodney Bennett, hanno travalicato i confini tra musica classica, musica popolare e musica applicata confluendo in un unicum culturale dalle caratteristiche polisemiche inconfondibili. Il doppio cd della Tadlow è significativamente intitolato al “cult” del 1967 di John Schlesinger (in italiano Via dalla pazza folla), film di snodo tra la stagione del free cinema, degli “arrabbiati”, e il nuovo cinema britannico degli anni ’70 del quale è considerato un manifesto. Un titolo che, forte della freschissima, aggressiva e mutevole suite da concerto di Bennett che da sola basterebbe a riaccendere i riflettori su un compositore forse troppo presto dimenticato, apre una “gallery” musicale straordinaria e variopinta, garantita dall’ormai polimorfica City of Prague Philharmonic, qui più che mai eclettica e scintillante sotto la guida, estremamente duttile, sensibile e ad un tempo energica e attentissima al dettaglio, della praghese Miriam Némcová. Il primo CD è una miscellanea molto “pensata”, che attraversa obliquamente mezzo secolo di musica inglese partendo dall’ultrapopolare “Fantasia su Greensleeves” di Vaughan-Williams, melodia come si dice senza frontiere, qui affidata al sidereo violino di Lucie Švehlová (in chiusura del secondo CD ne ascoltiamo una versione per flauto), per proseguire poi con un altro brano per violino e orchestra dello stesso compositore, “The lark ascending”, esempio di un lirismo postimpressionista tenacemente pacificatore e tanto più struggente in quanto composto nel pieno della Prima Guerra Mondiale, che vide lo stesso Vaughan-Williams al fronte. La “St.Paul’s suite” di Gustav Holst (in cui tra l’altro riecheggia l’onnipresente “Greensleeves”) svela un compositore completamento diverso dalla popolarissima suite – e molto “filmica”, si pensi al lavoro che ne trasse Ken Russell, e all’influenza che “Marte” ha avuto sul John Williams di Star Wars – da “I Pianeti”: svela cioè un compositore ironico e popolare, spigliato e molto attento alle proprie reminiscenze neoclassiche. L’allineamento successivo di quattro brani cinematografici conduce agevolmente in quell’humus teatrale-letterario che costituisce tanta parte del cinema inglese: dall’incantata e accorata “Elegy for Dunkirk” di Dario Marianelli per Espiazione ai lunghi, severi e incantevoli “End titles” di Rachel Portman per The Duchess: mentre con la “Passacaglia-Morte di Falstaff” e “Touch her soft lips and part” di William Walton per la versione del ’44 di Laurence Olivier dell’Enrico V si riattestano tutta la formazione accademica e contrappuntistica, rigorosissima, di questo maestro assoluto.
Sorprendente, perché di un autore sostanzialmente sconosciuto fuori patria, la “Capriol Suite” in sei movimenti di Peter Warlock (pseudonimo di Philip Heseltine, critico musicale oltre che compositore), scritta nel 1928, autentica e compiaciuta crestomazia di forme antiche attraverso una serie di danze neoclassiche, così come la “Little Suite” di Trevor Duncan, altro semisconosciuto, che apre il secondo CD, la cui caratteristica è quella di avvicinarsi cronologicamente alla seconda metà del Novecento. Musicista-manovale della Bbc, per le cui emittenti radiotelevisive ha scritto centinaia di ore di partiture, Duncan è considerato il re della cosiddetta “light music” britannica, una sorta di via di mezzo tra la musica classica vera e propria e un genere “d’intrattenimento” più leggero e rapido, fluttuante: la “Little Suite”, epitome di questo stile e concepita nel ’59, divenne celebre quando la sua “March” fu utilizzata dalla rete come sigla della serie tv Dr. Finlay’s Casebook (1962-1971), senza contare che dalla sua “library” si attinse per il celebre e oggi mitologizzato Z-movie di Ed Wood Plan 9 from Outer Space.
Tutta la luminosa grandezza di Patrick Doyle riluce nella scrittura per archi, di statura mahleriana, del “Sweets to the sweet farewell” per l’Hamlet di Kenneth Branagh, mentre un’altra bella scoperta per gli ascoltatori meno edotti è quella dei “Main Titles” di Ladies in Lavender (2004) toccante dramma sulla rivalità in amore tra due anziane sorelle interpretate da mostri sacri Maggie Smith e Judi Dench, diretto dall’attore Charles Dance, star del teatro inglese e memorabile “villain” dello schermo (The last action hero, 1993): ne è autore un altro tipico compositore “in bilico” fra classicismo, concertismo e citazionismi vari come Nigel Hess, che regala un tema di limpido, toccante lirismo.
A chiudere quasi un percorso, si torna poi a Vaughan-Williams ma soprattutto ad Edward Elgar: il primo con la “English Folk Suite”, manifesto complesso e completo di un radicamento nella musica popolare che passa rigorosamente attraverso la sua costante rielaborazione sinfonica e contrappuntistica, e poi con la “Fantasia su tema” di Thomas Tallis. Il secondo con la meravigliosa, intensa “Elegy” e con quelle intricatissime ed esemplari “Enigma-Variations” che sono considerate il biglietto da visita della musica inglese del Novecento, almeno quanto la sua “Pomp and Circumstance” (saccheggiata dal cinema) è considerata una sorta di inno nazionale “alternativo”.
Non stupisca, nei Bonus Tracks, la presenza della fiammeggiante suite sinfonica del newyorkese Stephen Sondheim da Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, l’horror-musical del 2007 diretto da Tim Burton: la complessa genesi di questo lavoro, la sua ambientazione dark e londinese, il gusto per un certo goticismo sonoro emergono infatti in questa sontuosa versione dove l’arte di concertatrice della Némcová svetta al pieno. La tavolozza dei suoni, l’accorta distribuzione delle atmosfere tra sussulti, movenze ironiche e distese melodiche, il tematismo rapido e incalzante, la ritmica continuamente alterata, le oasi liriche (“Johanna”, genialmente “sporcato” da inquietanti dissonanze), l’incedere sostanzialmente ottocentesco, grand-opéristico di questo lavoro risplendono, paradossalmente, proprio in una versione puramente sinfonica, al netto delle voci: è qui che il cerchio creativo della musica che in un secolo si è creata dentro la - e nei dintorni della - cultura britannica si chiude perfettamente, in un ritorno all’antico che è anche una continua, inesausta ricerca del moderno.