Goosebumps
Danny Elfman
Piccoli brividi (Goosebumps, 2015)
Sony Classical SK 513220
17 brani + 12 bonus tracks – Durata: 64'37"
Secondo alcuni osservatori, la carriera di Danny Elfman – iniziata ormai qualche decennio fa – avrebbe da tempo preso una china discendente, per meglio dire manieristica: il compositore di elezione di Tim Burton sarebbe divenuto prigioniero dei propri clichés (un pò come avviene per Hans Zimmer, anche a causa dei suoi mediocri imitatori) e stenterebbe a trovare occasioni adatte ad enucleare ancora il suo immenso talento visionario (se ci passate il termine paradossale quando applicato a un musicista).
A questo declino, sempre secondo i critici, contribuerebbero anche alcune scelte non proprio felicissime, tipo quella sciocchezza pseudohard di 50 sfumature di grigio, dove Elfman è andato a confondersi in una compilation da nightclub di lusso, e fors‘anche questo fantasy-horror adolescenziale che Rob Letterman ha ricavato dal ciclo di libri per ragazzi "Goosebumps" dello scrittore americano Robert Lawrence Stine, non a caso iniziale progetto poi arenatosi dello stesso Burton, e che è sostanzialmente imperniato sul carisma fisico e istrionico di Jack Black.
C‘è del vero in tutto questo, come non è men vero che il degrado qualitativo e seriale di tanta produzione "mainstream" non offre certo ai compositori particolari occasioni di creatività (si pensi alla catena di montaggio ormai insopportabile dei film "supereroici" e dei relativi soundtracks). Tuttavia, siccome la classe non è acqua, e siccome Elfman è un compositore estremamente riflessivo e attento a diversificare la propria ispirazione (basterebbe un capolavoro non recente come L‘ultima eclisse a confermarlo, su un fronte stilistico opposto a quello fantasy-horror a lui familiare), ecco che anche un filmetto da pomeriggio in parrocchia come questo trova nell‘ex Oingo Boingo un collaboratore prezioso e un alchimista di suoni sempre capace di sorprendenti stregonerie. Può darsi – anzi, è certo – che manchino a questo score la felicità leitmotivica e la sinistra, sensuale fascinazione di certi impasti delle sue partiture maggiori, ma ad esempio nella partenza in quarta di "Goosebumps", col galoppo furioso degli archi e l‘entrata garibaldina di percussioni, xilofono e vibrafono e ottoni, il tutto rinforzato dal coro misto, c‘è già tutto l‘imprinting elfmaniano dei tempi migliori, soprattutto all‘insegna di quella demistificazione dei luoghi comuni in cui egli è specialista. Perché va dato atto a Elfman il merito di non prendersi mai troppo sul serio, e di scherzare intelligentemente e sapientemente con gli stereotipi smascherandone, insieme all‘efficacia, anche tutta l‘intima innocenza. Così, "Ferris wheel" e "To the rescue" cincischiano cameristicamente e buffamente intorno al tema iniziale mentre "Camcorder" sceglie la cifra esageratamente solenne di un adagio per archi, clarinetto e pianoforte.
Va immediatamente annotato che, al solito, per lo "splendido dilettante" Elfman si rivelano fondamentali il contributo di un piccolo esercito di orchestratori capitanato dal fedele Steve Bartek, nonché la direzione fantasmagorica e precisissima di un‘orchestra molto vasta da parte del fedele Pete Anthony: questo permette di gustare le evanescenze impressioniste, le reminiscenze herrmanniane, i flautandi dei violini di "Ice rink" in tutta la loro diabolica abilità costruttiva, così come l‘energica imperiosità di "Capture" o i sarcasmi strumentali di "Lappy", dove si nota come l‘approccio elfmaniano sia molto prossimo – e con buona ragione – a quello della musica per il cinema d‘animazione.
Tuttavia l‘elemento che traspare con maggior evidenza dal variopinto e pirotecnico score è quella perfetta commistione di terrore e comicità che è poi la chiave di volta necessaria per approcciare un pubblico infantile; e quanto ad humour nero, Elfman non è secondo a nessuno. Lo strepitoso "They‘re here" tanto per dirne una, preme sul pedale di un gotico musicale con l‘organo a canne e i trilli degli ottoni e xilofoni sempre con il coro a rimbombare sullo sfondo; "Lawn gnomes" è poi un omaggio quasi spudorato al Duello degli scheletri di Herrmann (il nume tutelare di Elfman) da Il settimo viaggio di Sinbad, brano che è una pietra miliare del grottesco-fantasy in musica.
Quanto dire, insomma, che in questa partitura c‘è più Beetlejuice che Batman, o più Epic e Il grande e potente Oz che Dick Tracy: al punto che essa sembra a tratti quasi un manuale di composizione del genere, una specie di silloge di stereotipi, o di raffinatissima "library" di settore. Il tutto si compulsa ed esplode nel maestoso "Farewell", tra riproposizioni apocalittiche del tema principale nei corni e nel coro femminile, e un‘atmosfera celtica abilmente rivisitata.
Il ricco ventaglio di bonus tracks acuisce la sensazione di un‘enciclopedia semiseria del genere, tra glissandi di violini ("Break in"), rintocchi di campane tubolari ("The books"), improvvise e minacciose aperture cameristiche a legni e archi ("Werewolf") e scoppiettanti esercizi di mickemousing (strumentati genialmente, come in "Panic").
Alla fine si esce dall‘ascolto convinti che la tesi più decisa sostenuta da Elfman sia qui quella che ribadisce nell‘orchestra il motore principale, la riserva più inesauribile di colori e di mezzi atti a suscitare sensazioni forti. Un primato di metodo e di merito, per il compositore oggi sessantatreenne, nel quale viene sacrificato senza troppi rimpianti in termini di originalità quel che viene invece garantito e tramandato in termini di altissima scuola.