11 Mag2015
Otello & I bitva Stalingradskaya
Aram Chačaturjan
Otello il Moro di Venezia (Otello, 1955)
I bitva Stalingradskaya (1949)
Naxos 8573389
16 brani – Durata: 62’48”
L'immenso continente rappresentato dalla musica cinematografica sovietica (pur limitatamente al trentennio 1930-1960, coincidente con l'apogeo e l'immediata transizione del potere staliniano) è noto in Occidente soprattutto, se non esclusivamente, attraverso le punte dei due iceberg costituiti dai nomi di Sergej Prokofiev e Dimitri Shostakovich. Figure decisive nel panorama musicale del Novecento, essi sono stati anche protagonisti di aspri conflitti con l'ideologia dominante del realismo socialista, i cui canoni imponevano alle arti un pensiero unico, un linguaggio immediato e popolare, accessibile, alieno da sperimentalismi ed ermetismi, estraneo a quell'ansia di ricerca e insofferenza per la tradizione che aveva invece alimentato le avanguardie storiche nei primi anni della rivoluzione bolscevica, ma che sotto il tallone del dittatore si trasformava nell'accusa terribile di “formalismo”, a volte sufficiente da sola a stroncare vite e carriere.
Tanto Prokofiev che Shostakovich vissero sulla propria pelle la minaccia dello stalinismo, ed entrambi riuscirono ad aggirarne le insidie anche e soprattutto applicandosi alla musica cinematografica; Prokofiev ad esempio si riconciliò col regime proprio attraverso la creazione dell'Alexander Nevskji (1938, Sergej Ejzenstein), mentre Shostakovich si garantì attraverso le zelanti partiture per innumerevoli film di propaganda agiografica quella libertà d'azione che gli consentiva, in parallelo, di proseguire il proprio cammino artistico in altri generi.
Figure tormentate, dunque, prismatiche e contraddittorie, e proprio per questo particolarmente esaltanti. Ad esse se ne contrapposero in quel periodo altre, decisamente meno possedute dal dèmone dell'innovazione e da rovelli di coscienza, più ossequiose ai dettami del Capo, fedeli ad una tradizione e ad un linguaggio privi di sbalzi e di deviazioni, che rappresentarono l'ala più conservatrice della musica sovietica ricoprendo in tal senso anche incarichi ufficiali negli organismi di partito (come la potentissima Unione dei Compositori Sovietici) e non di rado incaricandosi di svolgere il compito odioso di guardiani dell'ortodossia contro le pulsioni troppo eccentriche dei propri colleghi: di questa pattuglia, che pure annoverava musicisti di valore come Tichon Chrennikov o Dimitri Kabalevskji, l'armeno Aram Il'ič Chačaturjan è senz'altro la figura più nota.
Nato a Tbilisi in Georgia nel 1903 e scomparso a Mosca nel '78, Chačaturjan fu in un certo senso l'”anti-Shostakovich”: anch'egli pianista provetto, fiero sostenitore di un linguaggio ancorato al folklore russo e alla tradizione, ottimisticamente devoto alla tonalità e ad un'estetica smagliante, orchestratore brillante e appariscente, egli rappresentava la quintessenza del compositore sovietico “ufficiale” (ruolo in cui si calò con scrupolo, collezionando innumerevoli onorificenze), ed in tal veste raccolse un'enorme popolarità, attraverso opere come il Concerto per pianoforte e orchestra e soprattutto le musiche per balletto, come “Gayaneh” (che contiene la celeberrima Danza delle spade, finita persino nella pubblicità dei detersivi) e “Spartacus”, la cui scena d'amore è stata utilizzata al cinema più volte, da Mayerling (1968) a Mister Hula Hoop sino a L'era glaciale.
Ma al cinema, formidabile arma di propaganda per lo stalinismo, Chačaturjan fu attivo in proprio sin dal 1935, imponendovi il proprio stile immediato e focoso, il proprio sinfonismo torrenziale e variopinto, particolarmente adatto ad accompagnare la descrizione della magnifiche sorti e progressive del socialismo. Il compositore si applicò in eguale misura a film bellici come a opere storico-letterarie o di finzione drammaturgica, e questa preziosa uscita discografica della Naxos (che ristampa a distanza di oltre un ventennio un'edizione della Marco Polo) sembra volerne testimoniare entrambe le componenti. Essa raccoglie infatti un'ampia suite dalla partitura per il kolossal in due parti La battaglia di Stalingrado, girato nel '49 da Vladimir Petrov e dedicato alla ricostruzione dei duri combattimenti svoltisi durante la seconda guerra mondiale che, tra l'estate del 1942 e il febbraio del '43, opposero i soldati dell'Armata Rossa alle forze congiunte tedesche, italiane, rumene ed ungheresi per il controllo della regione strategica tra il Don e il Volga e dell'importante centro politico ed economico di Stalingrado (oggi Volgograd) sul fronte orientale. Accanto a questo, figura la partitura pressochè integrale per la versione dell'Otello shakespeariano firmata nel '55 da Sergej Yutkevich, protagonista l'attore e regista Sergej Bondarchuk, premiata per la miglior regia al Festival di Cannes e celebre per essere la prima trasposizione cinematografica a colori della celebre tragedia.
La scelta operata dal direttore d'orchestra svizzero Adriano, stella fissa dell'etichetta tedesco-hongkonghese con le sue incisioni di gloriose scores filmiche del passato, alla guida dell'Orchestra della Radio Slovacca di Bratislava, non poteva in tal senso essere più esemplificativa dello stile di Chačaturjan. La partitura per il film di guerra, infatti, trasuda di tutta la retorica enfatica e torrenziale che era tipica non solo del compositore ma di questo genere di soundtrack nel periodo storico in questione: vi si agitano i fantasmi di Mussorgskji e Ciaikovski, intesi come testimoni del nazionalismo musicale da un lato e del cosmopolitismo sinfonico dall'altro, entrambe anime dominanti nel maestro armeno. Così, alla fanfara altisonante di “A city on the Volga -The invasion” seguono le più meditative e dolenti “Stalingrad in flames” e soprattutto “The enemy is doomed”, illuminanti esempi di estroversa eloquenza e appassionata comunicatività, mentre “For out motherland; to the attack! - Eternal glory of the heroes” squaderna tutta l'abilità strumentale di Chačaturjan in un maremoto sonoro rutilante interrotto da funebri interventi degli archi in forma di epicedio accorato, sulle linee di un romanticismo esasperato, che negli squilli e ritmi di marcia di “To victory – There is a cliff on the Volga” lascia nuovamente il posto ad un esondante e assertivo trionfalismo.
La partitura shakespeariana vibra invece di un lirismo notturno e sentimentale, reso esplicito sin dal “Prologue and introduction”, dove la linea melodica del violino solo sull'accompagnamento impressionistico e palpitante degli archi ricorda molto da vicino proprio l'adagio della celebre scena d'amore fra Spartaco e Frigia nel già citato balletto. L'inquietudine armonica non travalica mai i canoni di un melodismo fluente e cromaticamente ricchissimo, al quale si aggiunge, in “Desdemona's arioso”, il vocalizzo di un soprano in chiave quasi didascalica. Tuttavia a Chačaturjan rimangono estranee le influenze dell'operismo italiano (Verdi e Rossini, nel caso in ispecie), mentre si avvertono piuttosto echi del sinfonismo magiaro di Dvorăk; il tessuto sonoro è a tratti trasparente sino all'evaporazione, come nell'impiego degli archi di “Vineyards” o nel lirico, struggente tema dell'oboe in “Venice (Nocturne)”, che si arricchisce via via di abbellimenti e fioriture sempre costruiti su un'orchestrazione di liquida evanescenza. Accenni di dissonanze, in direzione eminentemente psicologica e funzionale, affiorano in “Nocturnal murder (Rodrigo's death)”, caratterizzato da un cupo dialogo fra clarinetto basso e fagotto, mentre i toni si surriscaldano in “Othello's despair”, che sottotraccia ripropone il materiale melodico del Prologo, sino all'esplosione di “A fit of jealousy” con i guizzi violenti dei legni e le martellanti raffiche delle trombe. La drammaturgia sonora del compositore appare semplice ma immediata, priva di retropensieri e sempre accessibile; non mancano momenti di enfasi orchestrale irrisolta (l'incipit di “Othello's arrival”), com'è nello stile di Chačaturjan e dei compositori sovietici più tradizionalisti, ma l'accento è posto di preferenza sull'alternanza di tonalità drammatiche con altre squisitamente liriche; sino ad approdare all'epitaffio corale del sommesso e sobrio “Finale”, che riassume l'epilogo della tragedia con una compostezza luttuosa di cui si sarebbe ricordato anche Bernard Herrmann, un ventennio più tardi, nelle pagine corali di Complesso di colpa.
Due partiture-simbolo, dunque, non solo del loro autore ma di un intero periodo storico che, proprio per i suoi contorni drammatici e conflittuali, ha prodotto nel cinema partiture di entusiasmante e ancora inesplorata complessità.
Otello il Moro di Venezia (Otello, 1955)
I bitva Stalingradskaya (1949)
Naxos 8573389
16 brani – Durata: 62’48”
L'immenso continente rappresentato dalla musica cinematografica sovietica (pur limitatamente al trentennio 1930-1960, coincidente con l'apogeo e l'immediata transizione del potere staliniano) è noto in Occidente soprattutto, se non esclusivamente, attraverso le punte dei due iceberg costituiti dai nomi di Sergej Prokofiev e Dimitri Shostakovich. Figure decisive nel panorama musicale del Novecento, essi sono stati anche protagonisti di aspri conflitti con l'ideologia dominante del realismo socialista, i cui canoni imponevano alle arti un pensiero unico, un linguaggio immediato e popolare, accessibile, alieno da sperimentalismi ed ermetismi, estraneo a quell'ansia di ricerca e insofferenza per la tradizione che aveva invece alimentato le avanguardie storiche nei primi anni della rivoluzione bolscevica, ma che sotto il tallone del dittatore si trasformava nell'accusa terribile di “formalismo”, a volte sufficiente da sola a stroncare vite e carriere.
Tanto Prokofiev che Shostakovich vissero sulla propria pelle la minaccia dello stalinismo, ed entrambi riuscirono ad aggirarne le insidie anche e soprattutto applicandosi alla musica cinematografica; Prokofiev ad esempio si riconciliò col regime proprio attraverso la creazione dell'Alexander Nevskji (1938, Sergej Ejzenstein), mentre Shostakovich si garantì attraverso le zelanti partiture per innumerevoli film di propaganda agiografica quella libertà d'azione che gli consentiva, in parallelo, di proseguire il proprio cammino artistico in altri generi.
Figure tormentate, dunque, prismatiche e contraddittorie, e proprio per questo particolarmente esaltanti. Ad esse se ne contrapposero in quel periodo altre, decisamente meno possedute dal dèmone dell'innovazione e da rovelli di coscienza, più ossequiose ai dettami del Capo, fedeli ad una tradizione e ad un linguaggio privi di sbalzi e di deviazioni, che rappresentarono l'ala più conservatrice della musica sovietica ricoprendo in tal senso anche incarichi ufficiali negli organismi di partito (come la potentissima Unione dei Compositori Sovietici) e non di rado incaricandosi di svolgere il compito odioso di guardiani dell'ortodossia contro le pulsioni troppo eccentriche dei propri colleghi: di questa pattuglia, che pure annoverava musicisti di valore come Tichon Chrennikov o Dimitri Kabalevskji, l'armeno Aram Il'ič Chačaturjan è senz'altro la figura più nota.
Nato a Tbilisi in Georgia nel 1903 e scomparso a Mosca nel '78, Chačaturjan fu in un certo senso l'”anti-Shostakovich”: anch'egli pianista provetto, fiero sostenitore di un linguaggio ancorato al folklore russo e alla tradizione, ottimisticamente devoto alla tonalità e ad un'estetica smagliante, orchestratore brillante e appariscente, egli rappresentava la quintessenza del compositore sovietico “ufficiale” (ruolo in cui si calò con scrupolo, collezionando innumerevoli onorificenze), ed in tal veste raccolse un'enorme popolarità, attraverso opere come il Concerto per pianoforte e orchestra e soprattutto le musiche per balletto, come “Gayaneh” (che contiene la celeberrima Danza delle spade, finita persino nella pubblicità dei detersivi) e “Spartacus”, la cui scena d'amore è stata utilizzata al cinema più volte, da Mayerling (1968) a Mister Hula Hoop sino a L'era glaciale.
Ma al cinema, formidabile arma di propaganda per lo stalinismo, Chačaturjan fu attivo in proprio sin dal 1935, imponendovi il proprio stile immediato e focoso, il proprio sinfonismo torrenziale e variopinto, particolarmente adatto ad accompagnare la descrizione della magnifiche sorti e progressive del socialismo. Il compositore si applicò in eguale misura a film bellici come a opere storico-letterarie o di finzione drammaturgica, e questa preziosa uscita discografica della Naxos (che ristampa a distanza di oltre un ventennio un'edizione della Marco Polo) sembra volerne testimoniare entrambe le componenti. Essa raccoglie infatti un'ampia suite dalla partitura per il kolossal in due parti La battaglia di Stalingrado, girato nel '49 da Vladimir Petrov e dedicato alla ricostruzione dei duri combattimenti svoltisi durante la seconda guerra mondiale che, tra l'estate del 1942 e il febbraio del '43, opposero i soldati dell'Armata Rossa alle forze congiunte tedesche, italiane, rumene ed ungheresi per il controllo della regione strategica tra il Don e il Volga e dell'importante centro politico ed economico di Stalingrado (oggi Volgograd) sul fronte orientale. Accanto a questo, figura la partitura pressochè integrale per la versione dell'Otello shakespeariano firmata nel '55 da Sergej Yutkevich, protagonista l'attore e regista Sergej Bondarchuk, premiata per la miglior regia al Festival di Cannes e celebre per essere la prima trasposizione cinematografica a colori della celebre tragedia.
La scelta operata dal direttore d'orchestra svizzero Adriano, stella fissa dell'etichetta tedesco-hongkonghese con le sue incisioni di gloriose scores filmiche del passato, alla guida dell'Orchestra della Radio Slovacca di Bratislava, non poteva in tal senso essere più esemplificativa dello stile di Chačaturjan. La partitura per il film di guerra, infatti, trasuda di tutta la retorica enfatica e torrenziale che era tipica non solo del compositore ma di questo genere di soundtrack nel periodo storico in questione: vi si agitano i fantasmi di Mussorgskji e Ciaikovski, intesi come testimoni del nazionalismo musicale da un lato e del cosmopolitismo sinfonico dall'altro, entrambe anime dominanti nel maestro armeno. Così, alla fanfara altisonante di “A city on the Volga -The invasion” seguono le più meditative e dolenti “Stalingrad in flames” e soprattutto “The enemy is doomed”, illuminanti esempi di estroversa eloquenza e appassionata comunicatività, mentre “For out motherland; to the attack! - Eternal glory of the heroes” squaderna tutta l'abilità strumentale di Chačaturjan in un maremoto sonoro rutilante interrotto da funebri interventi degli archi in forma di epicedio accorato, sulle linee di un romanticismo esasperato, che negli squilli e ritmi di marcia di “To victory – There is a cliff on the Volga” lascia nuovamente il posto ad un esondante e assertivo trionfalismo.
La partitura shakespeariana vibra invece di un lirismo notturno e sentimentale, reso esplicito sin dal “Prologue and introduction”, dove la linea melodica del violino solo sull'accompagnamento impressionistico e palpitante degli archi ricorda molto da vicino proprio l'adagio della celebre scena d'amore fra Spartaco e Frigia nel già citato balletto. L'inquietudine armonica non travalica mai i canoni di un melodismo fluente e cromaticamente ricchissimo, al quale si aggiunge, in “Desdemona's arioso”, il vocalizzo di un soprano in chiave quasi didascalica. Tuttavia a Chačaturjan rimangono estranee le influenze dell'operismo italiano (Verdi e Rossini, nel caso in ispecie), mentre si avvertono piuttosto echi del sinfonismo magiaro di Dvorăk; il tessuto sonoro è a tratti trasparente sino all'evaporazione, come nell'impiego degli archi di “Vineyards” o nel lirico, struggente tema dell'oboe in “Venice (Nocturne)”, che si arricchisce via via di abbellimenti e fioriture sempre costruiti su un'orchestrazione di liquida evanescenza. Accenni di dissonanze, in direzione eminentemente psicologica e funzionale, affiorano in “Nocturnal murder (Rodrigo's death)”, caratterizzato da un cupo dialogo fra clarinetto basso e fagotto, mentre i toni si surriscaldano in “Othello's despair”, che sottotraccia ripropone il materiale melodico del Prologo, sino all'esplosione di “A fit of jealousy” con i guizzi violenti dei legni e le martellanti raffiche delle trombe. La drammaturgia sonora del compositore appare semplice ma immediata, priva di retropensieri e sempre accessibile; non mancano momenti di enfasi orchestrale irrisolta (l'incipit di “Othello's arrival”), com'è nello stile di Chačaturjan e dei compositori sovietici più tradizionalisti, ma l'accento è posto di preferenza sull'alternanza di tonalità drammatiche con altre squisitamente liriche; sino ad approdare all'epitaffio corale del sommesso e sobrio “Finale”, che riassume l'epilogo della tragedia con una compostezza luttuosa di cui si sarebbe ricordato anche Bernard Herrmann, un ventennio più tardi, nelle pagine corali di Complesso di colpa.
Due partiture-simbolo, dunque, non solo del loro autore ma di un intero periodo storico che, proprio per i suoi contorni drammatici e conflittuali, ha prodotto nel cinema partiture di entusiasmante e ancora inesplorata complessità.