23 Mar2015
Montage
Bruce Broughton, Don Davis, Alexandre Desplat,
Michael Giacchino, Randy Newman, John Williams
Montage (2014)
Pianoforte Gloria Cheng
Harmonia Mundi HMU907635
17 brani – Durata: 70’34”
Ci si domanda spesso quale sia il rapporto tra alcuni dei maggiori compositori contemporanei del cinema e i linguaggi delle avanguardie storiche: l’atonalità, la dodecafonia, la tecnica seriale. Altrettanto spesso la risposta è negativa, tendente ad alzare una barriera tra questi artisti e la cosiddetta “modernità”. In realtà sia la generazione della Golden Age che quella formatasi negli anni ’50 e ’60 hanno ben presenti le conquiste della sperimentazione musicale, tant’è che (si pensi ad alcune pagine di Williams, cinematografiche e non, o a gran parte della poetica di Jerry Goldsmith) all’occorrenza sono in grado di appropriarsene con sorprendente disinvoltura. Vero è anche che, affrancata dai vincoli della committenza filmica, la creatività di questi maestri libera totalmente le proprie energie di ricerca e dimostra una consuetudine con i linguaggi più spigolosi e apparentemente ostici che li colloca appieno sulla scena musicale del Novecento.
A dimostrarlo giunge ora questo pregevole album dell’Harmonia Mundi (etichetta che più “classica” non si può) firmato dalla pianista di origine cinese Gloria Cheng, specialista in musica contemporanea, e dedicato a pagine pianistiche, tutte in prima registrazione assoluta, di alcuni tra i massimi numi della musica per film di oggi. Il CD, che fa seguito alle esibizioni concertistiche della Cheng ed è corredato anche da alcune interviste video ai compositori (presenti nel booklet con le proprie note), riveste la particolarità di essere dedicato a esercizi di “musica assoluta”, totalmente astratta da qualsiasi intento programmatico e ulteriormente scarnificata nella propria struttura dalla disadorna, rigorosa scrittura per pianoforte solo; è come se le idee dei musicisti venissero prosciugate e ricondotte ad un rigore francescano, ricordando in questo le creazioni pianistiche più rilevanti della Nuova Musica, da Schoenberg a Boulez, da Bartok e Stravinsky a Cage. E le sorprese non mancano.
A cominciare dai “Cinque pezzi per piano” del 2010 di Bruce Broughton, compositore tanto valoroso quanto appartato sulla scena hollywoodiana: laddove il primo e l’ultimo, rispettivamente “Fast and flowing” e “Restless; tempestuous”, affrontano tumultuosamente la tecnica dodecafonica in una scrittura aggrovigliata e ribollente, con larghe concessioni alla percussività della mano sinistra, mentre “Flowing” e “Slow 4” scivolano su movenze impressionistiche ma senza abbandonare il fermo rifiuto di armonie tonali, e l’unica oasi appare il rag spigliato e sbarazzino di “E-flat five ways”. Del 2013 è invece la “Composition 430” di Michael Giacchino, che sottolinea la vena malinconica e intimista del compositore di Lost, attraverso una serie di variazioni su un tema patetizzante e molto vintage, dalle evoluzioni rachmaninoviane. Al medesimo anno risale “Surface tension” di Don Davis, altro brano, quest’ultimo, completamente atonale e fondato su un’incertezza ritmica destabilizzante e sussultoria, di ascendenza bartokiana soprattutto nella prima e ultima parte, dove il virtuosismo di alta precisione della solista ha modo di esprimersi al meglio, mentre al centro s’illumina una parentesi di rarefatto, vitreo lirismo abbastanza imprevedibile nel fiammeggiante compositore della saga Matrix. Il neo premio Oscar Alexandre Desplat è presente con una pagina del 2012, “L’étreinte”, dai suoi “Trois études”, nella quale si affaccia un melodismo invocante e inesausto, ma ancora una volta basato sull’instabilità tonale e fortemente debitore alle sfumature e ai chiaroscuri del pianismo debussyano e raveliano.
Stupefacenti, per chi non le conoscesse, le quattro “Conversations” williamsiane composte fra il 2012 e il 2013 dall’ultraottantenne compositore attualmente super impegnato con il settimo capitolo di Star Wars. Quasi venti minuti di pianismo algidamente contemporaneo, costruito su immaginari dialoghi che sono in realtà soliloqui della memoria, direttamente collegati con la temerarietà linguistica del Concerto per flauto, ossia immemori di qualsiasi concessione all’”easy listening”: “Phileas and Mumbett” è costruito su una sorta di recitativi in serie, bruschi e troncati, dalla fisionomia prokofieviana; “Claude and Monk” si muove lungo acque agitatissime dal registro grave a quello sovracuto in un ondeggiare perpetuo di scale turbolente e accordi spezzati; “Chet and Miles”, evidente omaggio a Baker e Davis, è un adagio catafratto e sospeso nel vuoto, dove la frantumazione dei baricentri tonali si dissolve in sonorità misteriose e immobili, con la mano destra a trafiggere il tessuto compositivo in note acute e disperate; infine “Strays, Duke… and Blind Tom” accenna ancora a movimenti jazzistici ma bloccati da una costruzione obbligata, ferrea, che sembra voler allacciare reminiscenze barocche a implacabili dissoluzioni disarmoniche.
Il “Family Album: Hommage to Alfred, Emil and Lionel Newman” del rampollo Randy, cugino di David e Thomas, è qualcosa di più di quel che declina autobiograficamente: scritta nel 2013 e di impianto decisamente tradizionale, l’ampia suite spazia attraverso stilemi diversi, quasi ostentando espressioni e fraseggi diversificati da brano a brano. “The Follies: young and beautiful” mostra il tipico stile pianistico del compositore di Toy Story, conversevole e melodioso, non meno del successivo “Emil teaches Sonja Henie how to skate”, dedicato alla celebre pattinatrice e attrice norvegese, dove la delicatezza del tocco e del fraseggio ricordano qualcosa dell’Alan Silvestri di Forrest Gump; ancora un rag, energico e solare, si fa largo in “Carmen Miranda: ‘How many times do I have to tell you I’m not Mexican!’”, che evoca spiritosamente il fantasma della pittoresca cantante e attrice brasiliana; un umorismo affettuoso caratterizza anche “Lionel teaches Marilyn Monroe how to sing”, mentre “Outdoors but not the Red River valley” è una ballata western intrisa di languori nostalgici e crepuscolari.
Se è vero, come si legge nelle note, che «il pianoforte è il più fedele rivelatore dell’autentica voce di un compositore», l’interpretazione di Gloria Cheng ci aiuta ad esplorare senz’altro alcuni lati nascosti delle personalità di questi maestri, valorizzando nell’essenzialità della scrittura e nella libertà d’invenzione non solo il loro legame con la contemporaneità ma l’ampiezza di talenti capaci di parlare ai pubblici più diversi.
Michael Giacchino, Randy Newman, John Williams
Montage (2014)
Pianoforte Gloria Cheng
Harmonia Mundi HMU907635
17 brani – Durata: 70’34”
Ci si domanda spesso quale sia il rapporto tra alcuni dei maggiori compositori contemporanei del cinema e i linguaggi delle avanguardie storiche: l’atonalità, la dodecafonia, la tecnica seriale. Altrettanto spesso la risposta è negativa, tendente ad alzare una barriera tra questi artisti e la cosiddetta “modernità”. In realtà sia la generazione della Golden Age che quella formatasi negli anni ’50 e ’60 hanno ben presenti le conquiste della sperimentazione musicale, tant’è che (si pensi ad alcune pagine di Williams, cinematografiche e non, o a gran parte della poetica di Jerry Goldsmith) all’occorrenza sono in grado di appropriarsene con sorprendente disinvoltura. Vero è anche che, affrancata dai vincoli della committenza filmica, la creatività di questi maestri libera totalmente le proprie energie di ricerca e dimostra una consuetudine con i linguaggi più spigolosi e apparentemente ostici che li colloca appieno sulla scena musicale del Novecento.
A dimostrarlo giunge ora questo pregevole album dell’Harmonia Mundi (etichetta che più “classica” non si può) firmato dalla pianista di origine cinese Gloria Cheng, specialista in musica contemporanea, e dedicato a pagine pianistiche, tutte in prima registrazione assoluta, di alcuni tra i massimi numi della musica per film di oggi. Il CD, che fa seguito alle esibizioni concertistiche della Cheng ed è corredato anche da alcune interviste video ai compositori (presenti nel booklet con le proprie note), riveste la particolarità di essere dedicato a esercizi di “musica assoluta”, totalmente astratta da qualsiasi intento programmatico e ulteriormente scarnificata nella propria struttura dalla disadorna, rigorosa scrittura per pianoforte solo; è come se le idee dei musicisti venissero prosciugate e ricondotte ad un rigore francescano, ricordando in questo le creazioni pianistiche più rilevanti della Nuova Musica, da Schoenberg a Boulez, da Bartok e Stravinsky a Cage. E le sorprese non mancano.
A cominciare dai “Cinque pezzi per piano” del 2010 di Bruce Broughton, compositore tanto valoroso quanto appartato sulla scena hollywoodiana: laddove il primo e l’ultimo, rispettivamente “Fast and flowing” e “Restless; tempestuous”, affrontano tumultuosamente la tecnica dodecafonica in una scrittura aggrovigliata e ribollente, con larghe concessioni alla percussività della mano sinistra, mentre “Flowing” e “Slow 4” scivolano su movenze impressionistiche ma senza abbandonare il fermo rifiuto di armonie tonali, e l’unica oasi appare il rag spigliato e sbarazzino di “E-flat five ways”. Del 2013 è invece la “Composition 430” di Michael Giacchino, che sottolinea la vena malinconica e intimista del compositore di Lost, attraverso una serie di variazioni su un tema patetizzante e molto vintage, dalle evoluzioni rachmaninoviane. Al medesimo anno risale “Surface tension” di Don Davis, altro brano, quest’ultimo, completamente atonale e fondato su un’incertezza ritmica destabilizzante e sussultoria, di ascendenza bartokiana soprattutto nella prima e ultima parte, dove il virtuosismo di alta precisione della solista ha modo di esprimersi al meglio, mentre al centro s’illumina una parentesi di rarefatto, vitreo lirismo abbastanza imprevedibile nel fiammeggiante compositore della saga Matrix. Il neo premio Oscar Alexandre Desplat è presente con una pagina del 2012, “L’étreinte”, dai suoi “Trois études”, nella quale si affaccia un melodismo invocante e inesausto, ma ancora una volta basato sull’instabilità tonale e fortemente debitore alle sfumature e ai chiaroscuri del pianismo debussyano e raveliano.
Stupefacenti, per chi non le conoscesse, le quattro “Conversations” williamsiane composte fra il 2012 e il 2013 dall’ultraottantenne compositore attualmente super impegnato con il settimo capitolo di Star Wars. Quasi venti minuti di pianismo algidamente contemporaneo, costruito su immaginari dialoghi che sono in realtà soliloqui della memoria, direttamente collegati con la temerarietà linguistica del Concerto per flauto, ossia immemori di qualsiasi concessione all’”easy listening”: “Phileas and Mumbett” è costruito su una sorta di recitativi in serie, bruschi e troncati, dalla fisionomia prokofieviana; “Claude and Monk” si muove lungo acque agitatissime dal registro grave a quello sovracuto in un ondeggiare perpetuo di scale turbolente e accordi spezzati; “Chet and Miles”, evidente omaggio a Baker e Davis, è un adagio catafratto e sospeso nel vuoto, dove la frantumazione dei baricentri tonali si dissolve in sonorità misteriose e immobili, con la mano destra a trafiggere il tessuto compositivo in note acute e disperate; infine “Strays, Duke… and Blind Tom” accenna ancora a movimenti jazzistici ma bloccati da una costruzione obbligata, ferrea, che sembra voler allacciare reminiscenze barocche a implacabili dissoluzioni disarmoniche.
Il “Family Album: Hommage to Alfred, Emil and Lionel Newman” del rampollo Randy, cugino di David e Thomas, è qualcosa di più di quel che declina autobiograficamente: scritta nel 2013 e di impianto decisamente tradizionale, l’ampia suite spazia attraverso stilemi diversi, quasi ostentando espressioni e fraseggi diversificati da brano a brano. “The Follies: young and beautiful” mostra il tipico stile pianistico del compositore di Toy Story, conversevole e melodioso, non meno del successivo “Emil teaches Sonja Henie how to skate”, dedicato alla celebre pattinatrice e attrice norvegese, dove la delicatezza del tocco e del fraseggio ricordano qualcosa dell’Alan Silvestri di Forrest Gump; ancora un rag, energico e solare, si fa largo in “Carmen Miranda: ‘How many times do I have to tell you I’m not Mexican!’”, che evoca spiritosamente il fantasma della pittoresca cantante e attrice brasiliana; un umorismo affettuoso caratterizza anche “Lionel teaches Marilyn Monroe how to sing”, mentre “Outdoors but not the Red River valley” è una ballata western intrisa di languori nostalgici e crepuscolari.
Se è vero, come si legge nelle note, che «il pianoforte è il più fedele rivelatore dell’autentica voce di un compositore», l’interpretazione di Gloria Cheng ci aiuta ad esplorare senz’altro alcuni lati nascosti delle personalità di questi maestri, valorizzando nell’essenzialità della scrittura e nella libertà d’invenzione non solo il loro legame con la contemporaneità ma l’ampiezza di talenti capaci di parlare ai pubblici più diversi.