Vite strozzate & Canone inverso
Ennio Morricone
Vite strozzate (1996)
GDM Music/Intermezzo 4316
12 brani – Durata: 37’57”
Ennio Morricone
Canone inverso (2000)
GDM Music/Intermezzo 4306 – Edizione limitata 500 copie
21 brani – Durata: 50’02”
Nella sua lunga carriera Ennio Morricone ha allacciato diversi sodalizi “minori” (solo per quantità di titoli, s’intende) con alcuni registi, che si affiancano a quelli più celebri e titolati per Leone, Tornatore ecc.; tra queste collaborazioni spicca la quadrilogia per Ricky Tognazzi, che Morricone conosce sin da quando, bambino, papà Ugo lo portò sul set de Il federale (1961) di Luciano Salce, prima partitura cinematografica del maestro romano recentemente pubblicata in integrale da Digitmovies. Sono quattro titoli profondamente diversi tra loro: La scorta, del ’93 (Epic Records), brucia di un’urgenza drammatica quasi insostenibile, violenta e conflittuale; Il papa buono (Image Music), la miniserie tv del 2003 dedicata a Giovanni XXIII, si scioglie in un lirismo soffuso e sapiente. Il dittico composto da Vite strozzate e Canone inverso, che due diverse iniziative GDM Music/Intermezzo ora ci ripropongono in rimasterizzazione stereo, giustappone altrettanti differenti aspetti della personalità morriconiana, quasi esasperati nelle rispettive prove e per ciò stesso ancor più significativi.
I “Ritratti contrapposti dell’immoralità” con i loro oltre tredici minuti costituiscono una lunga e significativa silloge dell’intero score: sul consueto “mi” vibrante e crescente degli archi ritorna inizialmente la scansione mi-sol che crea quell’effetto di ticchettare del destino voluto dal compositore, ma a seguire il flauto disegna la seconda idea, complicata e insinuante, rivolta però a sciogliersi nei magmatici accordi acuti e dissonanti dei violini, in un colore nebbioso e intossicato. Il baricentro tonale del “mi” fa da fulcro all’incipit iniziale di marcia e alla ripresa di “Città coloniale”, sinché sul tremolo degli archi l’oboe alza un improvviso, desolato canto dal mèlos incontenibile. È un momento passeggero, prima di tornare all’orizzontalità ipnotizzante e alienante di un paesaggio sonoro incombente, spettrale, dal quale si alzano frammenti di idee (dalle tastiere, dai legni), tutti però ancorati alla fascia sottesa degli archi, gravi o acuti, nel cui flautando la pagina approda prima di spegnersi in un barbaglio di tremoli sul ponticello.
Canone inverso, tratto dall’omonimo romanzo del ’96 di Paolo Maurensig, pone, com’è evidente sin dal titolo musicologico, problemi di tutt’altra natura. Come ben spiegato nel ricco booklet illustrato di dodici pagine che accompagna questa rimasterizzazione a 13 anni dalla prima pubblicazione Virgin, qui Morricone affronta direttamente modelli classici – nella fattispecie del barocco – resi obbligatori dalla vicenda e dai personaggi: un giovane violinista boemo che ripercorre la propria infanzia travolta dal rogo del nazismo, e con essa la sua travagliata storia d’amore con una pianista ebrea. Qui lo sforzo, per meglio dire la sfida, del maestro fu di amalgamare i propri contributi con il contesto complessivo del film, con le sue numerosi fonti di musica “interna” e con le citazioni da brani classici di Paganini, Bach, Dvořák: un connubio che però, nelle intenzioni di Morricone, non doveva mai trasformarsi in semplice mimetizzazione stilistica bensì mantenere inalterato il carattere originale della sua musica, inglobando in essa forme, stilemi e contenuti dei modelli “colti”. Un invito a nozze, come si può ben immaginare, per il compositore, che predilige nella propria opera l’assunzione di “canoni” (in senso lato) desunti da varie epoche musicali, in particolare il Sei e Settecento. Di qui la struttura di molti brani del soundtrack, a cominciare da quel “Finale di un ‘Concerto romantico interrotto’ per violino, pianoforte (in canone) e orchestra” che esibisce lo schema di un vero e proprio rondò conclusivo concertistico, chiamando i due solisti (Gilda Buttà al pianoforte, Gabriele Pieranunzi al violino: strumento in cui troveremo impegnati anche Franco Tamponi, Riccardo e Ettore Pellegrino) a intersecarsi in funzione concertante e adottando un linguaggio corrusco, drammatico, quasi da congedo beethoveniano, dove specialmente al violino è affidato un ruolo appassionatamente declamatorio e virtuosistico. Il “Canone inverso primo” è in realtà un canone “retrogrado”: ossia un primo violino canta una melodia dolce e rassegnata mentre il secondo gli fa da eco iniziando la medesima melodia dalla fine verso l’inizio. L’andatura contrappuntistica che ne deriva crea un clima di forte sospensione emotiva, mentre l’opzione timbrica devoluta quasi interamente agli archi con la presenza rilevante della spinetta avvolge la pagina in un’intensa aura preromantica. Ma questo vincolo strutturale non esaurisce affatto le risorse della partitura contribuendo semmai alla sua ricchezza creativa. Ecco che allora “Chiaro di luna di giorno”, parafrasato sul “Clair de lune” di Debussy, balugina di sonorità sommessamente pastorali grazie al dialogo fra i legni, il pianoforte delicatissimo della Buttà e la morbida presenza sottotraccia degli archi; mentre “Goliardi e sport” è un brano mosso e scoppiettante che guarda al barocco händeliano, “Con disperata gioia” una sorta di lunga cadenza del violino con accompagnamento e “Intermezzi” una trasparente, notturna parentesi degli archi (che la direzione di Morricone esalta nella composta severità del suono). Ciaccona di Bach e Capriccio “La caccia” di Paganini, nell’esecuzione limpida di Pieranunzi, si integrano a questo punto perfettamente nello score, così come la struggente “Když mne stará matka zpívat” (La canzone che m’insegnò mia madre), il canto popolare boemo composto nel 1880 da Dvořák. A staccarsi dal contesto seduttivo e melodico della partitura provvedono brani come “Avvolgente”, marcetta spigolosa per tromba coronata da una serie di inquietanti dissonanze degli archi che alla fine provvedono ad una pacata, raccolta coda, o “Elmetti di fuoco”, ancora un ritmo marziale trafitto da dissonanze dei legni. “Corsa” sono quaranta secondi di moto perpetuo violinistico strepitosamente virtuosistico affidati a Ettore Pellegrino mentre a contrasto, l’adagio di “Canone inverso primo/Canone inverso secondo” decanta l’idea centrale in suadenti volute per violino e pianoforte prima, archi e basso continuo poi, mentre “Piccoli studi” evoca un climax tzigano nelle acrobazie peroranti e luminose del violino. Affiora qui una certa tentazione manieristica nei moduli del comporre morriconiano, tuttavia – almeno in questo caso – funzionale al soggetto e in ogni caso culturalmente coerente con l’ambiente evocato e gli stimoli “colti” che da esso provengono; distaccandosene, Morricone trova accenti senz’altro più personali e memorabili, come il fraseggio meditabondo e interrotto da lunghe pause di “Vaghi riflessi”, che va a confluire in un enunciato struggente del flauto; o il sussurrante canto femminile a bocca chiusa che, citando il tema del Canone, apre “In bicicletta” preparandolo al cantabile spiegato e solare dei violini. Ancora venature popolaresche in “All’aperto” e quasi umoristiche in “Goliardi”, con movenze jazzistiche dixie e “stonature” programmatiche mentre il “Canone inverso” conclusivo per due violini srotola in modalità di precisione quasi accademica la struttura concettuale del brano.
Si tratta, con tutta evidenza, di uno degli impegni più articolati e coraggiosi assunti dal compositore all’alba del nuovo millennio, sia nel rapporto con le forme preesistenti che nella loro libera rielaborazione. A riprova di una capacità di concentrazione sui materiali e sulle loro metamorfosi e contaminazioni che fa di Morricone un’autorità indiscussa, non solo musicale ma strettamente musicologica, in materia.