07 Apr2013
Friday the 13th
Harry Manfredini
Venerdì 13 (Friday the 13th, 1980)
La-La Land Records LLLCD 1228
16 brani + 1 bonus cue – Durata: 45’54”
A cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80 l’horror cinematografico americano si arricchì di tre saghe, di produzione indipendente, popolate da altrettanti protagonisti che sarebbero stati destinati ad affollare gli incubi dei fan per oltre un trentennio.
L’andamento ciclico di queste serie scavalcò immediatamente ogni velleità autoriale di partenza, cosicchè i ”creatori” iniziali si trovarono ben presto a detenere null’altro che il copyright di tre “characters” infernali (due dei quali verranno addirittura fatti incontrare tra loro!), passando di mano in mano e di capitolo in capitolo, con esiti qualitativi altalenanti e spesso infimi, ma nondimeno ponendosi con ruolo centrale nell’immaginario fantastico e orrorifico delle generazioni successive. Le tre saghe in questione sono, nell’ordine, Halloween – La notte delle streghe (1978) di John Carpenter, protagonista lo psicopatico serial killer Michael Myers con maschera bianca – si dice – ispirata ai lineamenti del capitano Kirk/William Shatner di Star Trek, che ebbe sette sequel sino al 2002 più un “reboot” nel 2007 e un sequel dello stesso nel 2009, entrambi a firma di Rob Zombie; Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham, “star” un altro psicopatico praticamente immortale, Jason Voorhees, con maschera da hockey e machete, terrore degli incauti vacanzieri di Crystal Lake, con nove seguiti sino al 2002, oltre a un “cross-over”, Freddy vs. Jason (2003, regia Ronnie Yu) e un “reboot” nel 2009 a firma di Marcus Nispel; infine Nightmare on Elm Street (Nightmare dal profondo della notte), varato nel 1984 da Wes Craven, di cui è indiscusso “eroe” Freddy Kruger, il killer di bambini butterato e rasoiante che penetra nei sogni delle sue vittime, foriero di sei sequel sino al 1994 (l’anno di Nightmare - Nuovo incubo, geniale “metacapolavoro” che vide Craven tornare al personaggio per la seconda e ultima volta), più il già citato Freddy vs. Jason e il “reboot” Nightmare (2010) di Samuel Bayer.
Pressoché superfluo annotare che il ruolo della musica, e in particolare l’invenzione – per ciascuno dei tre cicli e personaggi – di un tema, di un’”idea” fortemente caratterizzante, svolse una funzione fondamentale nel successo dei medesimi e nella loro collocazione collettiva. Ad Halloween provvedette lo stesso Carpenter, supportato da Alan Howarth, con quel celebre, ossessivo, implacabilmente bachiano tema per synt desunto da un esercizio per flauto insegnatogli dal padre durante i propri studi autodidattici musicali; Nightmare si basa, oltre che sulla agghiacciante filastrocca infantile “Uno due tre, Freddy stanotte viene per te”, su un inconfondibile, penetrante tema malato, lamentoso e armonicamente instabile, notturno e insinuante, creato da Charles Bernstein, classe 1943, rinomato jazzista e compositore televisivo. Entrambe le serie, di capitolo in capitolo, cambiarono spesso musicista portandosi tuttavia dietro quale garanzia di continuità, anche nei remake, i diritti del tema originario (soprattutto Nightmare).
Venerdì 13 è il ciclo che ha mantenuto più stabilmente di tutti il compositore iniziale, magari in qualche caso affiancato da “additional music”, in ben nove capitoli su dieci (l’eccezione è il capitolo VIII, Jason Takes Manhattan dell’89, che ebbe musica di Fred Mollin), addirittura sino al Jason X del 2002, che seguiva di quasi un decennio il precedente Jason Goes to Hell: the Final Friday. Il musicista in questione è Harry Manfredini, chicagoano di origini italiane, coetaneo di Bernstein e come lui proveniente dal jazz, musicista con una spiccata predilezione per la sperimentazione timbrica, l’avanguardia e – all’interno di queste – per il genere horror (notevoli anche alcune sue collaborazioni con Wes Craven), interpretato come terreno di elezione per score laboratoriali e anticonvenzionali.
E qui nacque quella che, dell’intera trilogia, è senz’altro l’idea più geniale, semplice e rivoluzionaria: un tema che non è un tema, una musica senza note, senza forma, senza melodia. Narrano le cronache che l’idea di base di Cunningham fosse quella di circoscrivere gli interventi del soundtrack solo alle sequenze in cui il killer fosse in scena e all’opera: allargando successivamente gli spazi dello score si pensò all’utilizzo di un coro fonetizzante, che pronunciasse sillabe indistinguibili, sul modello di alcune pagine del maestro polacco Krzysztof Penderecki (per inciso: incredibile esempio di nume tutelare della musica contemporanea, marxista e cattolico, detestato dalle post-avanguardie e utilizzatissimo dal cinema dell’orrore, a cominciare dal kubrickiano Shining, almeno quanto l’altro maestro europeo, l’ungherese György Ligeti, lo è dalla fantascienza: 2001 odissea nello spazio, sempre di Kubrick…). Ma il film esigeva un bassissimo budget e così il coro fu ridimensionato ad un effetto-voce straordinario, spoglio e terrificante: due sillabe scandite ritmicamente vicinissimo al microfono e poi riverberate, che secondo due scuole di pensiero suonano come “ki-ki-ki, ma-ma-ma” oppure come “ch-ch-ch, ha-ha-ha”. Nel primo caso l’interpretazione deriverebbe dalle prime sillabe di una battuta finale del film, “Kill her, mommy!”.
Ma prendiamo per buona invece la seconda opzione, che all’ascolto si rivela più precisa: dunque una consonante palatale sorda e una vocale aspirata, staccate e fatte riecheggiare, divennero il marchio di fabbrica sonoro ed evocatore delle spaventose gesta del “mostro”, nonché i mattoni costitutivi di una delle più efficaci “scary music” mai immaginate. Un tema, appunto, senza tema.
Va da sé che, nei film seguenti, Manfredini elaborò intorno a quest’idea altri temi e molto altro materiale, potendo disporre di risorse e di strumenti più ampi. Ma l’ossuta, spettrale e urticante efficacia, nonché le continue tensioni d’avanguardia di questo score rimasero insuperate, e bene ha fatto l’inesauribile La-La Land a isolarne e pubblicarne ora la versione integrale, peraltro a pochi mesi di distanza dall’uscita in edizione limitata – sempre per l’etichetta di Burbank - di un megacofanetto di 6 cd contenente i soundtrack di tutti i primi 6 capitoli della serie, e ad ormai un trentennio dalla comparsa di un vinile (oggi oggetto da collezione) Gramavision ristampato da Milan, con tre suites dai primi tre film.
L’enunciazione del “tema di Jason”, se così possiamo chiamarlo, il cui compito come s’è visto è quello di comunicare senza equivoci allo spettatore/ascoltatore la presenza del killer (viceversa ignorata dalle sue vittime sullo schermo), si colloca sin da “Overlay of evil/Main Title” su uno sfondo temerario: violini e tastiere tessono ragnatele di accordi morti, informi, fra riverberi e tintinnìi inquietanti, i bassi disegnano un percorso a salire che torna ai violini su una nota nella quale si innescano disegni rapidi, flautandi e strappi che rimandano senza nessun infingimento allo Herrmann di Psyco, precedendo un breve “allegro” dove bruschi ottoni accennano un disegno ritmico quasi stravinskyano. Si tratta di una horror music che punta alla semplificazione secondo una procedura di prosciugamento della quantità di suono in proporzione diretta all’imprevedibilità formale. La cultura jazzistica moderna di Manfredini, compresi i suoi debiti alle tecniche di improvvisazione, appare qui saldamente connessa con la conoscenza delle avanguardie europee (a partire da quel Penderecki che era stato assunto come modello) ma anche irrorata da un eclettismo di linguaggio funzionale al film e nel contempo spavaldamente padroneggiato, come testimonia lo scatenato “Banjo Travelin’”, tipico esempio di “source music”; peraltro le ristrettezze di budget, sfociate in un organico compresso che ricorda la Kammersymphonie op. 9 di Schönberg, moltiplicano anziché ridurle le risorse creative e le inquietudini espressive del compositore. Alcuni brani, come “Ralph in the pantry”, nell’essiccare la “musica da suspence” sino al suo scheletro timbrico, ne esaltano la potenza psicologica ed evocativa, percorrendo un coraggioso sentiero in bilico tra “musica” ed effetto sonoro: lo stesso rifiuto di qualunque melodismo appare in parte contraddetto dalla formazione di strati tematici “interni” (il mesto tema delle viole che apre “Don’t smoke in bed”), che si fanno faticosamente strada fra le fissità dissonanti dei violini e gli scudisci della percussione, laddove anche il tema di Jason può subire delle variazioni in senso ritmico, venendo accelerato (così da dare l’impressione di un ansimare crescente) o rallentato.
La dialettica timbrica (suoni acuti vs. suoni gravi) è utilizzata da Manfredini quasi come unica tecnica leitmotivica (“Brenda in lights” e “The bed axe”), insieme al ripetersi armonico delle cosiddette “quinte aperte” nei violini e al continuo ricorso al riverbero sia nelle tastiere che nel tema del killer. In altri termini il musicista sostituisce qualunque tentazione tematica con una riconoscibilità quasi “fisica” del sound, lavorando su procedimenti ripetitivi ma semanticamente “forti”, come la scala ascendente di terze modificate di “Alice runs to cabin”. E la magistrale costruzione di un brano come “Mrs. V comes clean”, che ripropone scansioni e sovrapposizioni herrmanniane (anche “Alice runs to light” e “The last fight” somigliano ad un’antologia citazionistica di tòpoi del maestro newyorkese) accanto ad un continuo alternarsi di pause e accelerazioni, aggressioni dei fiati e pedali o disegni staccati dei bassi, accordi sospesi sul baratro e lacerti melodici, dimostra quale totale controllo sulla materia Manfredini possieda al di là dell’apparenza improvvisatoria o, in taluni frangenti, dell’atteggiamento quasi da “mickeymousing” della partitura.
Crestomazia di purissima e coraggiosa “musica del terrore”, creata senza mai alzare la voce o appellarsi ad effetti stratosferici (anche ne avesse avuto i mezzi, e li avrà in seguito, Manfredini non l’avrebbe sentita come una risorsa intellettualmente onesta), la partitura di Venerdì 13 si congeda con una curiosa oasi di pace lirica e ottimistica, una ballad effettata e suadente, “The Boat on the water – Closing theme 1/Jason in the lake”, destinata ovviamente ad essere interrotta e sfregiata dall’irruzione dei violini rasoianti (memori, ma non è l’unico caso, del finale di Carrie di Pino Donaggio, altro musicista che Manfredini doveva ben conoscere), prima di riprendere l’andamento di un ballabile rasserenante e naturalistico con il successivo “Closing theme”.
Al bonus cue “Sail away tiny sparrow”, un tipico brano country di nuovo appartenente all’ambito della “musica di scena” e che Manfredini ha scritto insieme a John R. Briggs (noto per alcuni suoi adattamenti musicali da Shakespeare e da Bram Stoker), mai realizzato su cd prima di questa versione, il compito di concludere uno degli score senza dubbio più moderni ed esemplari mai realizzati all’interno di un genere pur stimolante e suscitatore di ricerca come l’horror: quasi un “manifesto” di rigore, efficacia e sobrietà per due generazioni di musicisti successivi, non molti dei quali – tuttavia – sembrano averne recepita e fatta propria la lezione.