09 Nov2011
The Fall of the Roman Empire
Dimitri Tiomkin
La caduta dell’Impero Romano (The Fall of the Roman Empire, 1964)
Prometheus XLCD 170
Cd 1, 18 brani – durata: 67’54”
Cd 2, 19 brani – durata: 70’23”
Il cosiddetto “peplum”, inteso alla lettera come genere cinematografico storico di ambientazione rigorosamente antica (greco-romana o mitologica) e prevalentemente a sfondo cristiano, ha conosciuto nella storia di Hollywood il proprio massimo periodo di fulgore a cavallo tra gli anni ’50 e i primi ’60. Il compositore aureo di questa fase, con le sue partiture michelangiolesche, scultoree, inesauribilmente rigogliose di sinfonismo ottocentesco e febbricitante, è stato, com’è noto, l’ungherese naturalizzato americano Miklós Rózsa (Quo Vadis, Ben Hur, Il Re dei re). Ma dentro questo filone vi furono dei casi anomali, ossia film che assumevano le connotazioni del genere peplum per articolarvi riflessioni più “laiche” sulla libertà, sulla dignità della persona umana, sugli orrori dell’imperialismo romano e sul suo inevitabile, fragoroso e tormentato declino. E questi film portarono con sé compositori, e partiture, altrettanto anomale rispetto ai trionfalismi e alle fanfare kolossalistiche cui si era abituati: si pensi alla modernità scabra e spigolosa di Alex North per lo Spartacus di Kubrick, o alle sperimentazioni tecniche e alle manipolazioni del suono di un precursore come Mario Nascimbene per Barabba di Fleischer.
In questo contesto si ritrovò anche nel 1964 un compositore che ben poco aveva a che fare con questo mondo, provenendo piuttosto dagli sterminati paesaggi del western (da Mezzogiorno di fuoco a Duello al sole, da Il grande cielo a Sfida all’OK Corral) e del film d’avventura (non senza excursus nel thriller hitchcockiano e nella fantascienza), ossia il pietroburghese, anch’egli americanizzato, Dimitri Tiomkin (1899-1979). E l’incontro avvenne con un film, La caduta dell’Impero Romano, girato da un regista che non a caso aveva molto lavorato anche nella fase più critica e crepuscolare del western anni ’60 come Anthony Mann; film arricchito da una sceneggiatura complessa, molto psicologica e redatta a più mani, e prodotto per la Paramount da un tycoon illuminato e libertario come Samuel Bronston.
La sfida non era da poco, e lo stesso Tiomkin la ammetteva, in una illuminante nota di copertina datata Londra, 14 febbraio 1964, a corredo dell’ormai leggendario vinile CBS stampato all’epoca, con il compositore alla guida della London Symphony Orchestra per una crestomazia di 16 brani tratti dalla sterminata partitura. «Molti dei miei amici e collaboratori – scrive il compositore – mi chiedevano come avrei fatto a scrivere una musica del Secondo Secolo dopo Cristo: avrei forse creato una partitura “finta”, alla maniera di?...; all’epoca ciò era molto in voga. Ma io – prosegue Tiomkin – decisi invece che era mio dovere di compositore seguire la mia ispirazione. Dovevo abbandonare qualsiasi idea di scrivere una musica di stile documentaristico. Il mio unico obiettivo sarebbe stato raggiungere spontaneamente quegli elementi drammatici che avevo gradatamente iniziato a scorgere vedendo il film. Iniziai ad isolare importanti passaggi drammatici e lirici e con mia grande sorpresa scoprii che essi non avevano a che fare con personaggi di diciotto secoli prima bensì con personaggi i cui problemi erano visibilmente simili ai nostri e in pratica coincidenti con qualsiasi dramma umano».
Dichiarazione d’intenti che più esplicita non si potrebbe, e cui il lavoro di Tiomkin segue con ferrea coerenza. L’integrale della partitura, 140 minuti di musica meticolosamente recuperati e restaurati da Pat Russ, in prima registrazione mondiale in un doppio cd dalla Prometheus prodotto da James Fitzpatrick (ricchissimo il booklet con note di Frank K. DeWald e un’introduzione di Olivia Tiomkin Douglas, vedova del musicista) e affidati alle cure dell’ormai grandissima Filarmonica della Città di Praga sotto la direzione preziosa e analitica dello specialista Nic Raine, consente infatti di rendersi conto dell’aspetto più rilevante dello score: la sua incredibile modernità, e il suo netto rifiuto di qualunque stereotipo “antichista” o tentazione – per quanto nobile e colta – di filologia musicale.
La partitura si sviluppa su un gruppo sostanziale di cinque leitmotifs: tra questi ne svetta uno, intensissimo e addolorato, profondamente introspettivo, che udiamo esposto in modo imponente prima dall’organo da chiesa poi dagli archi nel “Prelude”. Il rigoglio dell’orchestrazione tiomkiniana era una delle caratteristiche precipue del compositore, uno sfavillare di colori e un assemblaggio di famiglie strumentali a volte persino sconcertante (puntualmente restituito da Raine e dall’orchestra praghese, alle prese con una partitura di inaudita complessità) ma di cui Tiomkin si serviva con estrema libertà associativa e interiore: si sente, in ogni più piccolo passaggio, la vena di un compositore contemporaneo che applica tecniche moderne a situazioni narrative o drammaturgiche apparentemente lontane. Sono soprattutto gli archi, nella loro continua mobilità contrappuntistica (“Lucilla and Livius”), a farsene carico non solo riproponendo il tema principale – che diviene ben presto love theme (o tema di Lucilla, il personaggio interpretato da Sofia Loren) nell’economia della partitura – ma interloquendo inquietamente con le altre sezioni, soprattutto i legni, e optando per scelte armoniche cangianti e cromatismi ben poco modali. L’inevitabile tributo ai momenti scenografici di massa, alle parate romane, al sapore guerreggiante e militaresco che ha reso celebre tante “marce romane” rózsiane, è risolto da Tiomkin con una fanfara acuminata (le “Fanfares” iniziali) e ritmicamente irta, nervosa, quasi sostakovichiana (“Pax Romana”) o con sospensioni di tremoli degli archi, rapidi disegni dei clarinetti sullo scandire lontano e minaccioso del tamburo (“The execution (The conspiracy”)), o ancora con un poderoso, bachiano fugato a quattro voci (“Preparation for battle/The signal to March”) per celli, sostenuto dal suono anomalo, onnipresente e volutamente anacronistico della spinetta, e sviluppato con una crescente progressione contrappuntistica. Le pagine più intimiste – e sono numerosissime – come ad esempio “Lucilla’s sacrifice”, vivono di un’orchestrazione impressionistica e notturna (vibrafono, spinetta, archi e flauti nell’incantatoria “The mysterious forest”), capace di semplificarsi in soluzioni cameristiche (legni e un’arpa) o disperate perorazioni della massa d’archi in fraseggi dall’ampiezza sconfinata (“The dawn of love”), che confluiscono in un duetto per violino solo e flauto (“Lucilla’s sorrow”); e va da sé che Tiomkin non esita a ricorrere ad ardite dissonanze (come fece North per Spartacus) e ottoni con una sinistra sordina per evocare i momenti di maggior tensione (“Apple of death”). Anche il topos della processione/marcia funebre è risolto da Tiomkin in “Profondo”, con una scrittura densa e aggressiva, sordine “sporche” agli ottoni, trilli di archi, scampanii, ritmo pesante e strascicato: pagina del tutto moderna, convulsa e ancora una volta fuori dai canoni è anche “The undoubted Caesar” così come “The Roman Forum/Coronation/Triumph and end of Act I”, che chiude il primo cd, ripropone l’aspetto scenografico-trionfalistico dello score sempre nella chiave tiomkiniana di un climax sonoro aspro, dinamicamente imprevedibile, ritmicamente nervoso e timbricamente eterodosso (si faccia caso allo stupefacente intervento, in pieno fortissimo, dei mandolini!).
Il secondo cd, nonché il secondo “atto” di un film dalla concezione dichiaratamente operistico-teatrale, si apre con l’”Intermission: The fall of love”, che è la ripresa forse più struggente e sapiente del love theme (o tema di Lucilla) per archi (violino solo, celli, poi tutti i violini), in una struttura armonica che Tiomkin – tra modulazioni continue, cenni di canone e scambi di registro strumentale – mantiene costantemente in movimento. Il “Notturno” si propone una volta di più come manifesto della dialettica compositiva del maestro: iniziali e tintinnanti sonorità misteriose sul fraseggiare cupo degli archi, poi un tema orientaleggiante di acuta inquietudine, infine uno sviluppo mosso e frastagliato. Violentissimo, davvero “barbaro” nelle opzioni timbriche (timpani, xilofono, ottoni), si direbbe memore del primo Stravinsky e primo Prokofiev (Tiomkin era pur sempre russo…) è “Death March/Balomar’s Barbarian Attack”, che tuttavia concede poco ad una generica “battle music” fracassona, strutturandosi piuttosto come uno “scherzo” feroce e inesorabilmente sinfonico (agghiacciante l’uso degli strumentini nel finale); si torna con la mente a quanto scriveva Tiomkin quasi cinquant’anni fa quando avocava a sé, cioè unicamente alla figura del compositore, il diritto-dovere di tradurre drammaturgicamente in soluzioni “contemporanee” situazioni e psicologie anche lontane nel tempo, ad esempio nei contrasti dinamici di “Lucilla visits Commodus/The gates of Rome”, che fa sussurrare il love theme dal flauto, doppiato dalla spinetta, dopo averlo fatto emergere da complesse ragnatele di archi in flautando. Per “Addio”, che altro non è se non il love theme trasformato in congedo tra Lucilla e Livio, Raine sceglie la versione corale presente anche nell’edizione italiana, in luogo di quella strumentale prevista nell’originale tiomkiniano CBS (che però, per ammissione stessa del compositore, era una selezione di brani concordata con la produzione per restituire sul long-playing un “percorso” narrativo del film).
Il doppio cd insegue lo score di Tiomkin in ogni pertugio e ogni situazione, rivelando l’utilizzo profondamente psicologico della tecnica leitmotivica (notevoli le reminiscenze wagneriane in “Exile/The morning/The prophecy”) e recuperando gemme pregiate del lavoro: come quel “The court musicians” che è l’unica concessione attuata da Tiomkin nei confronti della “musica d’epoca”, peraltro con una strumentazione liquida e brillante (cetra, arpa, spinetta, mandolini, legni) e un percorso melodico ondivago e ipnotizzante. Si affacciano anche forme particolari come la tarantella di cui consta la furibonda, lunghissima “Persian Battle”: una danza mediterranea che ritroveremo anche, sempre utilizzata per il proprio surplus di mobilità ritmica, in “Roman celebration/Tarantella”, con effetto psicologico decisamente spiazzante. Per Tiomkin, come anche per Herrmann, le forme chiuse sono evidentemente contenitori, casse di risonanza nelle quali sviluppare liberamente il proprio pensiero creativo. L’adagio severo e luttuoso di “Resurrection”, contrapposto ai contrasti dinamici e alla ruvida spigolosità di “Death of Polybius”, sono ad esempio due aspetti di un medesimo climax drammatico che Tiomkin persegue con mezzi estremamente moderni e antiretorici. Ancora echi wagneriani, da “Parsifal” addirittura, in “Commodus kills his father”, che ha anche punte da horror music e ci presenta un Tiomkin fortemente tentato (non solo in questo frangente) dall’atonalità, mentre il ricapitolativo “The fall of Rome” è un brano spettrale, evocativo, frammentato in una serie di istanti preordinatamente caotici sui quali sentiamo imperiosamente elevarsi il tema d’amore, a mo’ di epicedio funebre, sullo sfondo rovente e magmatico di un’orchestrazione apocalittica: le trionfali fanfare romane si sfaldano in grottesche caricature di marce, l’organo a canne echeggia quasi luttuoso, e i suoni secchi, brutali di xilofono e ottoni in sordina incendiano ogni passaggio. L’Epilogue, che consta del Prelude in versione da concerto, è un’altisonante riproposizione a tutta orchestra più organo del tema d’amore, la cui duttilità simbolica è ormai stata in pieno svelata. E ci congeda da una partitura della cui eccentricità, per l’epoca e per il genere, pochi forse avevano sin qui consapevolezza e memoria: e che ci restituisce il ricco e articolato profilo intellettuale e culturale di un compositore della Golden Age che forse anche i suoi fan più sinceri avevano frettolosamente rinchiuso in un ambito stilistico troppo ristretto.