Harry Potter and the Sorcerer’s Stone & Harry Potter and the Chamber of Secrets & Harry Potter and the Prisoner of Azkaban
John Williams
Harry Potter e la pietra filosofale (Harry Potter and the Sorcerer’s Stone, 2001)
La-La Land Records LLLCD 1476
CD 1: 24 brani - durata: 65’25”
CD 2: 21 brani – durata: 69’05”
CD 3: 18 brani – durata: 37’37”
John Williams
Harry Potter e la camera dei segreti (Harry Potter and the Chamber of Secrets, 2002)
La-La Land Records LLLCD 1476
CD 1: 29 brani - durata: 76’11”
CD 2: 31 brani – durata: 76’53”
John Williams
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (Harry Potter and the Prisoner of Azkaban, 2004)
La-La Land Records LLLCD 1476
CD 1: 33 brani - durata: 76’46”
CD 2: 28 brani – durata: 75’20”
Musica di maniera? Riferirsi in questi termini alle partiture di John Williams per la saga di Harry Potter può sembrare oggi quasi una blasfemia, specialmente agli occhi dei più accaniti fan della musica da film. Ma vi assicuriamo che al momento dell’uscita del primo capitolo (Harry Potter e la pietra filosofale, 2001) i termini erano esattamente questi, se non peggiori: a titolo esemplificativo citeremo soltanto Paolo Mereghetti, che considerò “mediocre la colonna sonora di John Williams” nel suo celebre Dizionario dei film.
Col tempo, come spesso accade con le opere destinate principalmente a un pubblico di ragazzi, la musica di Harry Potter ha assunto la statura di cult, congiuntamente alle pellicole di destinazione. Tuttavia, la tiepida accoglienza che la musica di Williams ha ricevuto al suo esordio resta oggi comprensibile e in parte condivisibile. Chi conosce la produzione del compositore newyorkese, anche solo relativamente al filone del “film per ragazzi”, non potrà infatti non considerare lo score del primo Harry Potter “di maniera” nel senso che palesa in ogni sua battuta un autore in modalità di pilota automatico: tale è la sensazione di totale continuità con colonne sonore come Hook – Capitan uncino e quelle per i due Mamma, ho perso l’aereo.
Nonostante ciò, ci sono anche forti motivi per considerare l’operazione di Williams più una summa che una stanca ripetizione di stereotipi. Lo dimostrerebbe solo il fatto che il musicista dei film di Spielberg e Guerre Stellari cambierà sensibilmente dal 2002 in poi, certamente in corrispondenza di un progressivo incupirsi della filmografia blockbuster hollywoodiana dal fatidico 11 settembre in poi, ma anche in relazione a un fisiologico mutamento di scrittura – da ricondurre dunque a un personalissimo percorso d’autore – di cui si dirà più avanti. In più, c’è l’evidenza quasi programmatica con cui tutti i suoi tòpoi compositivi per il genere convergono e si cristallizzano in una specie di classico da tramandare: non a torto, nel booklet interno a questa onnicomprensiva edizione discografica delle tre colonne sonore, si considera la suite dal primo film quasi come un moderno successore della “Young Person’s Guide to the Orchestra” di Benjamin Britten, celeberrimo brano didattico per il riconoscimento dei timbri orchestrali.
L’ostentata cantabilità dei temi è solo uno dei suddetti luoghi comuni, ma è tale da meritare una trattazione a parte. Analizzati con cura nel già menzionato libretto, i leitmotiv sono parecchi e tutti riusciti, malleabili al dipanarsi della storia e dell’azione come in tutti i lavori di Williams. I più noti compaiono nel primo episodio, e sono dedicati alle principali figure del best-seller di J. K. Rowling: il popolarissimo “Hedwig’s Theme”, che porta il nome della civetta regalata al maghetto protagonista, ma che può facilmente essere considerato come il tema principale dell’intera serie, è memorabile esattamente come ci aspettava da Williams in un frangente simile; una melodia in mi minore dal vago sapore di inno, intonata inizialmente dalla celesta e poi dai corni, e che si dipana attraverso toni minori lontani.
Composto quando le riprese del film non erano state ancora ultimate, e in cui è evidente la passione di Williams – già avido lettore dei romanzi della saga – per il soggetto di partenza, esso ottiene, grazie alla mescolanza di timbri tintinnanti e spericolati svolazzi orchestrali, un clima da feérie mendelssohniana totalmente appropriato per il concept. Non stupisce allora che il regista Chris Columbus si dichiarò immediatamente soddisfatto dell’approccio (si veda ancora il booklet).
Si è già detto della conoscenza di Williams dei romanzi della Rowling, al tempo ancora soltanto tre; ebbene, l’incupirsi progressivo del racconto della scrittrice inglese impose inizialmente un problema drammaturgico a compositore e regista: gettare fin dal primo episodio i semi di un’inquietudine e di una minaccia che si riveleranno sempre più concrete, pur nell’economia di un film i cui protagonisti tendono a vedere anche il più grande pericolo come un eccitante gioco.
Nascono così non soltanto i temi per Voldemort (“Harry Gets His Wand”, “Hagrid’s Flashback”), nemico numero uno della saga, e per la pietra filosofale (“Diagon Alley and The Gringotts Vault”), ma anche le sonorità liquide e sinistre che compaiono fin dal principio (“Visit to the Zoo”), in cui si palesa l’insostituibile esperienza di Williams nel genere avventuroso carico di suspense (la serie di Indiana Jones valga per tutte).
Il compositore è comunque attento, in questo primo capitolo, a stemperare la tensione con commenti che virano sempre verso il grottesco, affidati ai timbri più scuri dei fiati (si veda ancora “Visit To The Zoo” e “Don’t Burn My Letter”), mentre i legni sono quasi sempre adibiti a fantasmagoriche coloriture (insieme all’immancabile celesta) o a climi di insinuante mistero (la prima parte di “The Mirror Of Erised” and A “Change Of Season”).
Altre indimenticabili identità tematiche sono quelle dedicate a Harry, per il gioco del Quiddich e per il castello di Hogwartz, sede – come si sa – dell’istituto per giovani maghi ideato dalla Rowling. Per apprezzarli, si ascolti la pirotecnica “The Quiddich Match”, cavalcata orchestrale degna del Prokofiev più frenetico, dove si affaccia anche uno dei temi di Voldemort e l’“Edwige’s Theme”; nell’estrema – e un po’ di maniera, appunto – sontuosità orchestrale, sono i momenti di improvvisa sospensione e concitazione esasperata dove Williams sa restituire la magia e la tensione appropriate.
Altra pagina fondamentale è “The Face Of Voldemort”: qui i temi più sinistri – della pietra filosofale, di Voldemort – si riuniscono, talvolta persino si sovrappongono, contro il “Family Theme” e l’“Edwige’s Theme”, che stentano a mantenere il loro carattere positivo.
Con “Love, Harry”, “Gryffindor Wins The House Cup” e “Leaving Hogwarts” si ristabilisce un clima di vittoria e serenità, memore delle più trionfali pagine di Incontri ravvicinati del terzo tipo e Jurassic Park.
Oltre a questa sintesi onnicomprensiva e in qualche modo autocelebrativa, la sensazione della volontà di creare un “classico” sembra riscontrarsi anche nella presenza di veri e propri esercizi di stile, spesso in concomitanza con necessità di musica diegetica (o quasi): non tanto la medievaleggiante prima parte di “Diagon Alley and The Gringotts Vault”, quanto “Fluffy’s Harp Lullaby” – dolce e un po’ misterioso studio per arpa solista – e specialmente “Hogwarts Forever”, brano presente nella suite (al termine della presentazione di questa prima partitura), per ensemble di ottoni come da consolidata tradizione anglosassone, che nella seconda parte si scioglie in irresistibili accordi.
Per quanto riguarda l’aspetto horror delle avventure del maghetto inglese, la già citata “The Face of Voldemort” è sicuramente un apice, ma “The Dark Forest” è ancora più agghiacciante: qui i temi di Voldemort vengono immersi in tenebrosi glissandi e flautandi dei violini, e gli archi delineano una sinistra melodia terminante con quattro note discendenti; ma anche qui la sensazione è che Williams non volesse andare fino in fondo in termini di tensione e paura.
Lo stesso non può dirsi dei capitoli successivi, e in particolare del terzo.
Anche in questo caso, al risultato sembrano compartecipare necessità di committenza e presa di posizione autoriale: l’approdo stilistico de Il prigioniero di Azkaban è talmente brillante e ultimativo da far sorgere pochi dubbi al riguardo.
Come già è stato per Jerry Goldsmith e come sarà per Danny Elfman, i compositori con un’attenzione maniacale al timbro e alla sovra-complicazione orchestrale tendono con la maturazione a scarnificare la propria scrittura e a minimizzare gli sforzi per il massimo risultato.
Questa maturazione è evidente in Williams se si prendono ad esempio le partiture per la saga di Star Wars: si confrontino le ricchissime eppure lineari e cristalline score per gli ultimi tre episodi, con quelle per i primi e specialmente per quelli di mezzo – in ordine di tempo, ovvero il primo, secondo e terzo capitolo –, frastagliati e barocchi. I suoi discorsi sono diventati più ordinati e insieme stringenti, drammaturgicamente diretti e inequivocabili: valga come esempio l’insostenibile carica drammatica delle pagine action de Gli ultimi Jedi e Il risveglio della forza (“The Attack on the Jakku Village”, “The Battle of Crait”). Ciò non per togliere al melodismo del Williams dei primi capolavori – The Fury e L’impero colpisce ancora, per non fare che due esempi –, una forza e una precisione già miracolosamente presenti, semmai per sottolineare un percorso di ricerca mai sopito in più di cinquant’anni di carriera.
In miniatura, questo tragitto autoriale è presente anche nelle tre score di Harry Potter: già all’ascolto puro, infatti, non può non saltare all’orecchio lo scarto fra il sinfonismo eccessivo dei primi due episodi e lo spirito rabbrividente e scheletrico del terzo. Va detto, però, che La camera dei segreti – secondo film – rappresenta per alcuni versi un ponte fra i due approcci. L’indicazione (già sulla copertina del disco) “musica adattata e diretta da William Ross”, al posto della solita “musica composta e diretta da John Williams”, faceva presagire un lavoro meno personale. Ma se è vero che tornano tutti i temi del capitolo precedente, congiuntamente a pagine soltanto riadattate da Ross (“Quiddich, Second Year”), il florilegio di motivi non si ferma (il tema dell’elfo Dobby, quello del vanesio professore Gilderoy Lockhart, la magnifica melodia per il volo in macchina di “The Flying Car”), e le pagine di tensione sono più penetranti che in precedenza, con sostanziose irruzioni atonali e impressionanti virtuosismi orchestrali (“Whomping Willow and The Car Escapes”, “The Spiders Attack”). La scrittura si semplifica e inscurisce anche quando si tratta di riutilizzare il già inflazionato “Edwige’s Theme”, come in “Flitch’s Warning and Boys Receive Detention”.
Ma è solo con Il prigioniero di Azkaban che Williams mette a frutto un’economia di mezzi davvero esemplare: se la sua irrefrenabile invenzione tematica non è più una sorpresa – eppure sono riuscitissime le nuove melodie (“Double Trouble” e “Buckbeak’s Flight” certamente le più appariscenti) –, è nella definizione di atmosfere insinuanti e sinistre che il nostro non conosce rivali, tanto più che esse sono qui ottenute tramite una precisione e un understatement finora assenti; valga per tutte la traccia “Monster Book and discussing Black”, con una prima sezione all’insegna dell’assalto ai sensi nudo e crudo (pieno di aggressivi scossoni e fiammate dei legni), mentre tutto il resto è una cupissima elucubrazione in pianissimo fatta di incisi grotteschi degli archi e incerti disegni del clavicembalo elettrico. L’inquietudine dei capitoli precedenti diventa qui puro orrore: lo testimoniano pagine come l’atonale “Apparition on the Train” o “The Werewolf Scene”; l’azione è sempre meno ornata e più stringente (come almeno dalla traccia “Time Past, Saving Buckbeak” in poi), e la presenza di mirabolanti esercizi di stile (la rossiniana “Aunt Marge’s Waltz”, gli scherzi tipicamente williamsiani di “The Snowball Fight” e “The Whomping Willow, la cavalcata jazz di “The Knight Bus”), non toglie nulla alla sensazione generale di una partitura che lungi dall’essere un’autoreferenziale dimostrazione tecnica, traduce come meglio non si potrebbe la paura e il desiderio di maturazione che investe i giovani protagonisti in questo capitolo.
Così, la complessità un po’ dispersiva delle prime due score, certo relativa a uno stato d’infanzia in cui il sentimento di magia è imperscrutabile e avvolgente, è sostituita nella terza da un discorso impietosamente diretto, spesso violento e senza appello.
L’itinerario è certamente più evidente in questa straordinaria edizione, che moltiplica le pur generose durate dei precedenti album Warner e ci restituisce tutta l’infallibile, sensazionale arte del compositore newyorkese.