La legge di Lidia Poët

cover la legge di lidia poetMassimiliano Mechelli
La legge di Lidia Poët (2023)
Netflix Music
27 brani – Durata: 45’39”



Tardivamente e inspiegabilmente – chissà cosa passa per la testa a chi detiene i diritti di pubblicazione di una colonna musicale (e non sempre è il compositore dello score ad averli, sappiatelo!) – le musiche originali di Massimiliano Mechelli per la serie dal grande riscontro di pubblico e critica di e su Netflix, la prima stagione di La legge di Lidia Poët, approdano sulle piattaforme streaming, così finalmente da poter essere fruite autonomamente dalla serialità di appartenenza, narrante della prima avvocatessa nell’Italia del 1883, impersonata splendidamente dalla (sul piccolo schermo ma anche al di fuori) super avvenente, ostinata, coraggiosa e sexy oltre ogni dire Matilda De Angelis (Veloce come il vento, L’incredibile storia dell’isola delle rose, The Undoing – Le verità non dette).

Il giovane talentuoso Mechelli – che abbiamo recensito per lo sconvolgente score dell’originale e ottimo horror italico, colmo di sorprese scioccanti, A Classic Horror Story (leggi recensione) e intervistato a suo tempo (leggi qui) – costruisce una fitta rete pentagrammata di accenni tematici, vocalizzi e suoni (meglio climi sonori) assai modernamente elettronici e più dalle parti della musica concreta, quindi parecchio distanti dall’epoca di ambientazione della serie – la Torino dell’800 – con intermezzi classicheggianti nella sostanza seppur intrisi di nuance rock e pop che ad ogni modo calzano a pennello alla trama orizzontale della serie, così ridotta all’osso: una sentenza maschilista e cieca decreta illegittima l’iscrizione di Lidia Poët all’Albo professionale degli avvocati, così ostacolandola nell’esercitare la professione forense unicamente perché donna, non sapendo altresì che l’ostinata e orgogliosa avvocatessa professerà ugualmente, presso lo studio legale del fratello Enrico, inconsapevole di tale coraggioso bensì oltraggioso atto rivoluzionario (a fin di bene dei suoi clienti accusati a vario titolo) della sorella, novella Sherlock Holmes, migliore e più intuitiva, nonché sanguigna, di ogni collega, perfino del fratello stesso, nel risolvere casi su casi –.
Ascoltare in successione la track list, per chi non si è perso nemmeno un episodio di La legge di Lidia Poët (come il sottoscritto che ne scrive), è riviverne emozionalmente passo dopo passo ogni catturante, destabilizzante, cinicamente sarcastica, sensuale, dolorosa e avventurosa, per non tralasciare delittuosa o sovversiva, trama di puntata, che Mechelli ha sapientemente sorretto e intensificato con le sue musiche sempre impregnate di spunti, incisi, idee melodiche tanto piacevolmente aderenti al girato tuttavia viventi al di fuori di esso. Apre l’album digitale “L’omicidio di Adele Valery” con archi in progressione assalenti e allarmanti, vocalizzi come urletti repressi ma netti e celestiali, molto elfmaniani concettualmente parlando (vedi Alice in Wonderland). Vocalizzi femminei pronuncianti qualcosa di antico su archi sottesi e synth morbidamente arpistici che proseguono la loro svelante verità oscura in “Lui è innocente”. “Signorina Poët” per archi in levare, piano sintetico alla Thomas Newman, ritmiche pop dai tratteggi molto hip hop a simulare la persuasiva e travolgente fisicità carnale fascinosa e dall’intelligenza superiore della protagonista. “Impronte digitali” è breve dalla ritmica synth simil action thriller fine anni ’90 o inizi Duemila, investigativo alla serial CSI: Scena del crimine. Stessa sensazione in “Una cattiva notizia”. “L’inseguimento” si poggia su synth preoccupanti e tetri iniziali, molto zimmeriani, sul quale si innestano in divenire archi in crescendo, quasi stroncati da un vocalismo o vocalismi raddoppiati allucinatori e conturbanti, sorretti da un ritmo pop incalzante alla Ludwig Göransson per Creed. Un ritmo acid rock, con chitarra elettrica gracchiante e violenta, spinge verso ambienti lisergici in “Ferma, carabinieri”. “Fratelli Poët”, per archi ed effetti synth gocciolanti, presenta un tema sbeffeggiante e dall’indole pop insolente che sottintende una qual certa amabilità, perché in fin dei conti, pur scontrandosi bruscamente, fratello e sorella si vogliono molto bene. “Di nuovo a teatro” suona sospensivamente astratto tra archi sospesi o lineari nel loro sviluppo armonico e quel vocalizzo che sa essere sempre e comunque straniante ma ficcante. Ostinato sia in senso musicale che caratteriale il brano “Avvocato Lidia Poët”, nel suo andamento militaresco anni ’70 morriconiano. “La macchina della verità” si mostra tensivamente in levare, con chiosa per archi delicatamente consolatori, ma solo all’apparenza dato che vanno via via crescendo solennemente. Techno pop aggressivo “Stop the Train”, con archi sinuosi sullo sfondo, chitarra elettrica assordante ed effetti vocali e sintetici anni ’80 alla Tangerine Dream degli horror/action. “Alla ricerca della verità” suona classicheggiantemente pop all’inizio per poi tramutarsi in un rock ridondante e circolare, pericolosamente selvaggio e invitante come la canzone “Come with Me” di Puff Daddy e Jimmy Page del Godzilla di Roland Emmerich, sorta di song portante così massiccia e sontuosa, da volerla ascoltare a ripetizione perché gasante a mille. “Jacopo Barberis” propone il leitmotiv canzonatorio alla Hans Zimmer di Sherlock Holmes, con chitarra acustica dispiegante il motivetto beffardo e spaccone, contrappuntato dagli archi e qualche percussivo intervento tanghesco, per descrivere il personaggio interpretato da Eduardo Scarpetta, fratello della moglie di Enrico, giornalista della Gazzetta Piemontese che soccorrerà o aiuterà Lidia nelle sue indagini, di cui le si innamorerà, contraccambiata.
“Papà” risuona fantasmaticamente sintetico e funereo, con gli archi che cercano di addolcirne i lati oscuri, non riuscendovi. “Lidia Poët” è massivamente violento con ritmiche da serie d’azione anni 2000 Made in USA, e i vocalizzi e gli archi inneggianti l’avvocatessa sul finire del pezzo. “Un rapporto illecito” per piano sospeso, archi sottesi e synth fumosi, con il sopraggiungere dei vocalizzi aerei, è un brano misterico e instabile. Come instabilmente hard metal rock new age riecheggia il successivo “L’arma del delitto”, brano inquietante tipico degli score di quei Crime nordici o quelle traumatizzanti sequenze allucinanti del film Seven. Medesimo sensoriale e impattante loop d’ascolto perviene da “Anarchia e libertà”: Mechelli sa come far saltare dal divano di casa chi entra nel suo mondo sonoro commentativo. “Lungo il fiume” ci avvolge con la sua linea aereo-assalente degli archi e dei synth in progressivo fluire. I vocalizzi femminili provenienti quasi da un altro mondo, da un multiverso sensoriale altro, con gli archi che sottolineano l’arco narrativo con un inciso tematico che appare solenne nel suo essere etereo, sorreggono “The Courtroom”. Idem, seppur ancora più estraniante nella sostanza, il susseguente e minaccioso “A noi sembra autentica”, che nella seconda parte si siede su archi descrittivi e tesi. “La lettera” evoca con arpa campionata, vocalismi fantasiosamente ectoplasmatici nella loro fumosa inconsistenza e archi tematicamente intensi, tutti quei segreti di memorie lontane della vita della nostra avvocatessa. “Jacopo e Lidia” per synth riverberanti un amore che non si può esprimere come vorrebbe, rimanendo soffocato. “A casa di Enrico” è uno dei pochi pezzi che rasserena cotanta animosità investigativa spietatamente testarda e battagliera, con un leitmotiv pensoso e amoroso per archi, piano e synth quasi spenti. “Ho ucciso mio padre” fa perno su un vocalizzo incorporeo sincopato alla Jóhann Jóhannsson iniziale che poi viene soppresso da archi tremebondi e malevoli. L’album si chiude con “Maya Cristallo”, un tema sofferente, compresso, da incubo, che ricorda certe cellule synth dark di Angelo Badalamenti per la serie di culto Twin Peaks.          

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