Morricone, la musica, il cinema

cover libro morricone la musica il cinema miceliSergio Miceli
Morricone, la musica, il cinema (2022)
Nuova edizione a cura di Maurizio Corbella
Milano, Casa Ricordi-LIM Editrice
pp. 575, € 35,00

Lasciamo pure che altri si esaltino in ammirazioni esagerate che danno alla testa e risentono di una leggera ebbrezza: non conosco piacere più divino di un’ammirazione netta, chiara e sentita (SAINTE-BEUVE, Essai de critique naturelle)

Ogni vero libro di critica può essere letto come uno dei testi di cui tratta, come un tessuto di metafore poetiche (ITALO CALVINO) (1)

La centralità della musica, il compositore in primo piano, il cinema come sfondo neutro, necessario ma non sufficiente: sin dal titolo Morricone, la musica, il cinema esibisce una geometria rigorosa, un intersecarsi di punti d’attrazione da e verso la pratica della scrittura su pentagramma. Quando nel 1994 apparve la monografia di Sergio Miceli, fu non un punto di svolta negli studi sull’opera del musicista romano – ché tali non possono dirsi gli scritti, per lo più ingenuamente apologetici, dei tanti “generosi ammiratori” (come li classificava con obiettiva bonarietà il professore) di allora (e di oggi) -, quanto un copernicano cambio di prospettiva. Per la prima volta uno storico della musica prendeva di petto il «fenomeno Morricone», lo sviscerava e nella prioritaria componente musicale e negli aspetti «sociali» e di costume come paradigma della figura – della condizione - del musicista nel nostro tempo.

Avvalendosi di un approccio il più possibile multidisciplinare e trasversale (musica ma anche cinema e media vari, tecnologie di riproduzione, case discografiche e mercato, modalità fruitive) e ponendosi da una prospettiva “critico-valutativa” (Corbella) ovvero aliena da gerarchie – la medesima acribia nell’analizzare un arrangiamento, una canzone, una partitura cinematografica, un brano di musica assoluta, nell’individuazione di principi comuni - e null’affatto encomiastica, l’Autore delineava un ritratto umano ed artistico partito da una sofferta “doppia estetica” e approdato ad una persuasiva “sintesi stilistica”.
A distanza di quasi trent’anni la ristampa del perspicace saggio miceliano appare davvero opportuna. Più che una ristampa tout court, abbiamo una “nuova edizione” con parecchie aggiunte, affidata alla supervisione meticolosa di Maurizio Corbella. Il curatore offre il profilo di garanzia ineccepibile di professore associato presso l’Università degli Studi di Milano dove insegna Storia della musica nel cinema e negli audiovisivi e Culture e pratiche musicali nell’età dei mass media, è autore di varie pubblicazioni sull’argomento, traduttore in inglese di Inseguendo quel suono nel 2019, ed anche uno dei rarissimi indagatori del binomio Morricone/Nicolai (2): dunque il più titolato per affrontare un caso “sospeso tra aree diverse” (così Miceli nella “Premessa”) (3) come la figura di Ennio Morricone, esempio probante di una trasversalità che investe ormai – piaccia o meno - il nostro presente «culturale» in tutte le sue manifestazioni e, nella fattispecie in quelle musicali, generatore di un melting pot che suscita curiosità, interesse e insieme qualche riserva. Ma allora, tra i Sessanta e gli Ottanta (gli anni più arditi, più ricchi di invenzioni, contaminazioni, slittamenti tra livelli) la figura di un compositore che “ha toccato tutti i settori musicali – in senso «verticale» e «orizzontale» -, negli aspetti creativi e produttivi” (4) rappresentava un evento, se non unico, assai raro. Oggetto di ammirato stupore per chi, legato alle distinzioni alto/basso, scopriva la possibilità di coesistenze impensabili prima e pregevoli; per quanti, inappagati dal prevedibile (e spesso triviale, per citare Adorno) (5) della musica leggera cosiddetta, intercettavano opportunità fruitive fuori del comune e intuivano la chance di una convivenza tra «facilità» (apparente) e inventiva antitetica ai canoni scaduti a routine; per coloro i quali, disorientati dalla osticità di tanta musica nata dalla rivoluzione dodecafonica, coglievano nelle composizioni “assolute” (come in seguito il compositore le avrebbe denominate) appigli timbrici e strutturali per un ascolto più cerebrale ma non privo di suggestioni. Vittima per contro di indifferenza e/o incomprensione da parte degli ambienti accademici e dei cultori della «classica», gli uni e gli altri propensi al massimo a concedere a Morricone il contentino del «buon artigiano», beninteso sempre in ottica cinematografica.
Rispetto alla prima stampa, un elemento di novità è l’integrazione del testo originale con aggiunte ricavate da successivi interventi dell’Autore – come avviene per il quinto capitolo dedicato al “binomio Leone-Morricone”, rimpolpato con ulteriori riflessioni contenute in un saggio pubblicato presso la Cambridge University nel 2016 (6) - e con l’aggiornamento delle note a pié di pagina. Anche la cronologia delle attività con Nuova Consonanza è stata ampliata e riorganizzata “sulla base delle più recenti acquisizioni”. Inoltre troviamo, nell’ordine: una corposa prefazione del curatore; due “colloqui”; scritti dell’Autore su “Morricone e il cinema muto”; note sulla musica “assoluta”; note di sala a concerti di musica per film. Ovviamente i dati biografici, il catalogo ragionato delle opere e la filmografia sono stati aggiornati. Pertanto il libro assolve la duplice funzione di database morriconiano e di saggio interpretativo. Con il valore aggiunto – ma la forma è qui più che mai sostanza - di un linguaggio critico di prim’ordine, accademico senza pedanterie, colto e preciso senza eccedere in tecnicismi, questi ultimi impiegati solo quando necessari ovvero nelle accuratissime disamine delle partiture. Si prenda, per sineddoche, la pagina dedicata al "Presto" dal Sestetto per flauto, oboe, fagotto, violino, viola e violoncello (1953):     

 

[…] Di ben altra tenuta [in rapporto al resto della composizione] è il "Presto", una pagina nitida e felicissima per la complessità e al tempo stesso la scioltezza dell’impianto ritmico (molto interessante è la travagliata mescolanza di 4/4-3/4-5/4-6/4-2/4-8/4, che col procedere verso la conclusione tende a una regolarità di danza senza raggiungerla); per il modo del tutto naturale in cui emergono e poi scompaiono i brevi canoni, riassorbiti nel tessuto contrappuntistico; per la spontaneità con la quale nascono e poi si distendono le aumentazioni di quelle ch’erano state geometrie più contratte – già definite permutazioni -, fattesi ora articolate frasi cantabili. Ne è un esempio la bella gittata dell’oboe dal n. 51, sull’incalzare per terzine di violino e viola. (7)      

Anche il lettore più digiuno di competenze specifiche non potrà sottrarsi al fascino di questa ed altre consimili pagine specialistiche ma non aride, avvivate da un metaforismo suggestivo non meno che funzionale (scioltezza dell’impianto ritmico, travagliata mescolanza, regolarità di danza senza raggiungerla, geometrie contratte, frasi cantabili, bella gittata, incalzare per terzine), esplicitazioni di bellezza provata: compito del critico non è affermare una generica «bellezza», ma aiutare a comprenderne i perché.

In ogni caso, una prosa distante sempre dal parlar comune, dal monolinguismo massmediatico, dall’approssimazione lessicale-concettuale: insomma da quella “peste del linguaggio” già stigmatizzata da Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane dedicata – non a caso - all’esattezza (8) verso la metà degli anni Ottanta e oggi divenuta la cifra non/mal-comunicativa del nostro tempo. Quello del musicologo fiorentino è dunque un libro «ben scritto» (ma non estetizzante) che mette in pratica l’idea a lui cara della “semantizzazione dei valori formali e formalizzazione dei valori semantici”, lo splendido chiasmo applicato nell’indagine dell’opera morriconiana.

La Prefazione del curatore è tale solo nel significato etimologico del vocabolo. Si tratta invero di un testo con tutti i crismi saggistici, dall’estensione (17 pagine) all’amplissimo apparato di note (ben 91) alla volontà di inquadramento storico come ben si ricava dal titolo Giano allo specchio: il caso Morricone-Miceli in prospettiva storiografica. Titolare uno scritto, proprio o altrui, è sempre operazione ardua. Qui, non v’è termine che non rinvii ad uno specifico ambito semantico e non si carichi di allusioni e sottintesi che tanto più saranno colti quanto più si sia addentro nell’argomento. Giano richiama il primo intervento d’insieme di Miceli su Morricone (9), ove lo studioso ricorreva alla figura mitologica come metafora del bifrontismo (o multifrontismo) morriconiano. Lo “specchio” è l’interscambio tra il compositore e il suo esegeta. Miceli scriveva di un musicista vivente, studiato sul campo, con il quale si confrontò spesso (anche in seguito nei corsi alla Chigiana) e che si «riflesse» nella di lui analisi; per contro, attraverso la sua indagine il professore fornì a Morricone “i presupposti teorici e le categorie ermeneutiche su cui egli avrebbe poi edificato la propria auto-rappresentazione nei due decenni successivi” (10). Il “caso” è l’incontro di due figure atipiche: un compositore plurimo d’area indefinita (almeno secondo la tassonomia vulgata) e un “outsider della musicologia italiana” (11) (occorre ricordare che, ancora nei primi Novanta, occuparsi a livello non amatoriale di musica per il cinema, musica e media, nonché di una figura nota e «popolare» quanto per lo più ignorata/respinta quale era allora Morricone, significava contrapporsi alla miope ottica di un’accademia erede di un anacronistico ideale di «purezza» artistica di ascendenza crociana?). Di qui l’esigenza di storicizzare, collocare quello studio entro il suo sfavorevole contesto - tant’è che fu oggetto di due sole recensioni e uscì in fretta di catalogo anche a motivo di concomitanti passaggi editoriali che impedirono promozione e distribuzione adeguate, e rimase reperibile solo presso biblioteche specializzate come la Bibliomediateca “Mario Gromo” di Torino -. E poi, appunto, i tempi non erano maturi per una ricezione più aperta. Anche se, come il curatore evidenzia, la geografia musicale e culturale in Italia stava mutando. Corbella annota i fattori principali di transizione/trasformazione: “il tramonto delle neoavanguardie, il ritorno della tonalità nella musica «seria», la canzone d’autore e “altre manifestazioni della popular music internazionale come nuovi canoni della cultura di massa postmoderna” (12), il venire meno della funzione divulgativa della radiotelevisione di Stato e il corrispettivo dilagare delle emittenti commerciali, lo sviluppo dell’industria discografica. Occorreva in tale scenario un approccio di più ampia veduta, proprio quello attuato da Miceli nell’occuparsi e di musica del cinema in generale e di Ennio Morricone nel particolare: di un compositore di formazione petrassiana e insieme “compromesso” con i nuovi fenomeni di cui supra e alle prese con le esigenze della popular music e dunque “uno dei pochi traits d’union tra presente e passato, capace di fungere da tessuto connettivo di esperienze e ambiti socioculturali altrimenti sfilacciati” (13). Da tale punto di vista, una “operazione editoriale strategica e al passo con i tempi” (14) (ma allora pochi se ne resero conto): tanto più che, proprio nei primi Novanta, Morricone cominciava a suscitare interesse anche come compositore “assoluto” (o «serio» o «d’arte» o «colto»; e però l’attributo scelto dal musicista per designare i lavori scritti al di fuori del cinema ci sembra quello più corretto nella sua neutralità connotativa) da parte di istituzioni quali la IUC di Roma, e in parallelo si offriva all’attenzione di platee vaste ed eterogenee e non solo nazionali dirigendo dal vivo le sue partiture cinematografiche. Il saggio di Miceli si incunea dunque entro il graduale processo di sdoganamento di una figura sino a qualche anno prima ghettizzata – beninteso con onore - nel recinto della musica per il cinema.
     
Si affronta anche “la questione del popular”, verso il quale l’Autore dimostra aperture solo parziali perché “sospettoso delle derive kitsch a cui potenzialmente si prestano” i fenomeni di popolarizzazione (15), e ricorda “la via angloamericana agli studi su Morricone” (16) che inserisce la figura e l’opera del compositore all’interno della popular culture, senza sdoppiamenti: approcci diversi e complementari che lasciano ipotizzare “un nuovo inizio” per “la riflessione su Morricone e sul suo portato culturale nel XXI secolo” (17).
     
Si aggiornano, come ricordato, biografia e catalogo delle opere con aggiunte non solo quantitative (ad esempio, si distingue tra l’anno di composizione di una score e quello di effettiva uscita del film nelle sale). Notevole l’indice analitico che riporta i nomi di persone e cose (titoli di film e di composizioni) citati nel testo con vari rimandi incrociati e con la suddivisione in sottovoci per una consultazione facile, comoda e rapida. A dire poco splendido il “Catalogo ragionato delle opere” che raccoglie tutte le composizioni “assolute” integrando l’elenco stilato dall’Autore (fermo al 1993) e completando (in parentesi quadra) i dati già folti reperiti a suo tempo. Vasto e molteplice l’inventario delle fonti consultate che spaziano dal catalogo Suvini Zerboni 2021 all’Archivio Opere della SIAE, dal Fondo Miceli della fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia ai palinsesti della televisione riportati sul “Radiocorriere TV”, per citarne solo alcune. 131 titoli (a riprova di un eclettismo allergico a qualsivoglia tentativo di incasellamento entro categorie comode quanto superficiali e riduttive), dalla Sonata per ottoni, timpani e pianoforte del 1953 a "Varianti per Ballista Antonio e Canino Bruno" del 2017, più 8 “composizioni giovanili” non inserite in catalogo dal 1946 al 1953 (18). Ogni voce è iperdettagliata: organico, dediche, prima esecuzione, altre esecuzioni notevoli, eventuali registrazioni (dirette radiotelevisive, videoregistrazioni, audioregistrazioni in vinile o CD).
Venendo alla filmografia, stupisce l’assenza dei lavori per la televisione (alcuni peraltro ricordati sparsamente nel testo). Già nella prima edizione veniva precisato che “L’elenco non comprende i cortometraggi e i documentari, i film, gli sceneggiati e i serial televisivi che non siano entrati nei circuiti di distribuzione cinematografica” (19) e tale “scelta dell’Autore” è stata mantenuta. Corbella, interpellato in proposito da chi scrive, così si è espresso: […] a mio modo di vedere la ragione della scelta fu dettata a suo tempo dalla difficoltà nel districarsi in quelle produzioni televisive o documentaristiche che, pur ospitando musica di Morricone, non si potevano univocamente attribuire all’attività di quest’ultimo: produzioni, cioè, che riutilizzavano musica pre-esistente di Morricone o musica di Morricone proveniente da repertori di librerie musicali. Le faccio per esempio il caso di Nessuno deve sapere (1972, r. Mario Landi), serie televisiva per cui è probabile che Morricone non fosse stato coinvolto in prima persona. Un lavoro serio di studio di quel mare magnum non si era ancora fatto (e per certi versi è ancora da farsi) e Miceli avrebbe dunque optato per un criterio di economia, limitandosi ai lungometraggi cinematografici, in cui è più semplice stabilire l’attribuzione a Morricone. Almeno questa è la mia interpretazione. Certo, questo criterio ha degli svantaggi, portando a non includere anche lavori importanti nella produzione di Morricone come I promessi sposi, La piovra, Marco Polo, Mosé, Il segreto del Sahara, ecc.
In questa edizione ho deciso per il mantenimento di questo criterio per ragioni soprattutto di spazio (il volume era già lievitato molto con l’aggiornamento del catalogo delle opere e con le altre appendici), ma anche perché nel frattempo sono uscite pubblicazioni facilmente consultabili, come Inseguendo quel suono, che contengono invece liste di titoli comprensivi anche di quelli non riportati da Miceli. (e-mail inviata in data 05/09/2022) (20)

Ragioni più che plausibili, e pratiche e di rispetto della volontà dell’Autore. Strano tuttavia. Nel 1994 molti lavori per il piccolo schermo avevano una paternità sicura: a parte gli sceneggiati «storici» già ricordati, pensiamo a Drammi gotici (1977), Noi lazzaroni ((1978), Scarlatto e nero (1983), Il principe del deserto (1989) ed altri, tutti con contributi «originali». Il nuovo millennio vede poi un’intensa attività nel settore, una ventina di titoli: con opere che, male che vada, sono splendide conferme e con grandi affreschi politematici e pluritimbrici (Nostromo, 1996; Musashi, 2003; Il teatro di Eduardo, 2010-12; L’isola, 2012), punte di lirismo esuberante ed estroverso (I guardiani del cielo, 1998; Il papa buono, 2003; Lucia, 2005); e picchi arditi che sfumano i confini tra musica applicata ed “assoluta” come si evince da pezzi quali “Sette raccordi” e “Solo voci” da Padre Pio tra cielo e terra (2000) (21), “Cinque in canone” da Un difetto di famiglia (2002) (22), “Per tre” da L’ultimo dei Corleonesi (2007) (23).

Soffermiamoci adesso sulla sezione “Scritti e colloqui”, aggiunta dal curatore e che include interventi posteriori al 1994 e due importanti “colloqui”. Partendo da questi ultimi, non appare inutile richiamare la distinzione operata in seguito dall’Autore tra “intervista” e “colloquio”, che non sono sinonimi e la differenza non è marginale. Le interviste le fanno i giornalisti, che oggi pongono delle domande a un calciatore, domani a un regista, dopodomani a un politico. […] un colloquio o una conversazione, invece, contengono anche delle domande, ma si tratta di uno scambio alla pari tra due specialisti, ciascuno dei quali opera a titolo diverso nello stesso settore. Perciò, oltre alle garanzie di consapevolezza implicite in questo genere di rapporto, viene meno [il] carattere di «attualità» […] [i colloqui] sono contributi di storiografia musicale, non sono cronaca. (24). Il primo “colloquio” risale al 1979, il secondo è del 1990 (25), entrambi significativi documenti del Morricone pensiero e del suo (parziale) trasformarsi negli anni; oltre che prime forme di quella auto-narrazione/rappresentazione che culminerà nelle successive “conversazioni” (26) e, in forma diversa, nei concerti di sue musiche da lui stesso diretti. Il “colloquio” del 1979 resta, dopo oltre quarant’anni, la base per ogni approccio all’argomento. Morricone si metteva a nudo con inusitata sincerità e come musicista e come uomo e forniva un esaustivo documento della condizione di chi compone per il cinema. Emergevano amarezze, frustrazioni; ma anche tanta voglia di “riscatto” proprio all’interno dei condizionamenti, una positiva volontà di rimanere fedele ai propri principi – etici, estetici - ad onta delle coartazioni. Senza entrare nel dettaglio – cosa che il lettore farà da sé ricavandone motivi di alta soddisfazione -, preme qui cogliere i prodromi dello slittare verso un atteggiamento più sereno, maturato nel corso degli anni Ottanta dopo la grande crisi di metà decennio, tra C’era una volta in America e Mission. Certo, lì si delineava il profilo di un musicista forzatamente prestato al cinema e fatalmente inchiodato al ruolo: Io non mi sono avvicinato al cinema per vocazione […] il mio rapporto col cinema è venuto per caso, perché non ho avuto la possibilità di fare altro. Naturalmente penso sempre di recuperare il tempo perduto, ma non ci credo proprio; io sono il musicista del cinema e nessuno crede in me come altro musicista […] (27), seppure orientato a sperimentare o almeno ad innovare il repertorio delle forme consunte dall’uso: di qui la “forma ciclica” del tema, oppure “l’unico accordo immobile all’interno del quale ci si muove” (il principio cardine della “immobilità dinamica”), o addirittura l’eliminazione del tema. Riguardo all’eventualità di portare la sua musica cinematografica in concerto, Sono stato invitato in tutto il mondo a fare dei concerti di mie musiche, e ho sempre rifiutato perché quando me li offrivano sapevo benissimo che avrei dovuto portare le mie musiche più «facili». Non me l’hanno chiesto espressamente, ma si aspettavano questo da me, non si aspettavano certo la musica di Un uomo a metà oppure “Suoni per Dino”. Ho rifiutato perché non potevo tradire le aspettative. […] Voglio che la musica stia in piedi da sé. Certo, si tratta di una soddisfazione limitata al cinema, e non può essere portata in una sala da concerto. (28)     

Nell’«incontro» del 1990 troviamo una disponibilità diversa, quasi una riconciliazione con se stesso. Morricone (sintetizziamo) accetta anche la sua musica del cinema, perché       Se un compositore ha qualcosa da dire interiormente, ha la possibilità di farlo anche nel cinema. Non è vero che la musica del cinema è soltanto una musica di consumo: lo è di consumo soltanto se il compositore non mette dentro questa sua opera qualcosa di più, che lo riguarda personalmente, che lo coinvolge e lo compromette personalmente. […] io non ritengo che l’esperienza di musicista cinematografico sia così negativa […]. (29)     

Ribadisce poi il rifiuto del tema “tonale”, “orecchiabile”, espressione di una concezione “abbastanza esaurita”; dovendolo usare (se non altro, per farsi capire), lavora sulla riduzione dei materiali portandolo a tre o anche a due suoni (“parametri della musica di oggi, […] un salvataggio per evitare la banalità e la banalizzazione della musica cinematografica”); utilizza i procedimenti della musica contemporanea quali la serializzazione integrale (“però ristretta a sette suoni”) (30).

E non disdegna la prassi concertistica:     
Ecco: convinto che la musica debba avere una sua autonomia per servire meglio il film, mi sono domandato il perché non avrei dovuto dirigere un mio pezzo o alcuni pezzi miei tratti dalla musica cinematografica, quelli magari che mi piaceva più dirigere. (31)     

Noi si è sempre pensato che l’intensa, compulsiva persino attività concertistica, cifra caratterizzante il Morricone del nuovo millennio, abbia rappresentato l’estremo “riscatto” del compositore, resosi conto che proprio quella musica – vincolata dalle immagini, soggetta alle richieste più strane di registi e produttori, condizionata da prospettive commerciali - era l’approdo di una ricerca perseguita con tenacia e attuata in forme criptiche, non percepibili dall’ascoltatore profano ma ben presenti e motivanti. Ed anche il raggiungimento di una nuova autorialità tramite la riorchestrazione del già scritto, che – senza perdere la propria identità primaria - si colora di inediti cromatismi, timbriche alternative, ritmica rinnovata in un processo di costante autoesegesi.     

Se si parte dalla prima composizione giovanile ed extracatalogo ("Il mattino" per pianoforte e voce, su testo di Fukuko) datata 1946, lo studio di Miceli abbraccia quasi cinquant’anni di attività del maestro romano: amplissimo lasso che consentiva di raccontare la «storia di Morricone» e di individuarne i cardini compositivi, giunti negli anni Novanta a piena maturazione. Come noto, la vita artistica del Nostro è proseguita per altri vent’anni e passa (32). Che cosa è avvenuto in tutto questo tempo? Come si è evoluta, trasformata, la sua musica? Ci sono cifre stilistiche nuove? Oppure aveva già fatto, detto tutto, e l’ultima fase non offre significative acquisizioni, piuttosto vigorose conferme? (Ma, citando ancora Calvino, “ripetersi è il sistema migliore per riuscire a capire bene quello che si è fatto”, e “sapere bene quello che si è fatto è l’unico modo per sapere bene quello che si vuol fare”) (33). Sono domande alle quali può rispondere non l’ammiratore, il cultore, per quanto animati da sincera buona volontà; bensì l’addetto ai lavori, il competente di musica, lo studioso dell’argomento. Avevamo auspicato un capitolo aggiuntivo che coprisse, appunto, i successivi cinque lustri. L’Autore non lo ha mai scritto. In mancanza di una trattazione capillare, dobbiamo basarci su alcune riflessioni sparse posteriori al 1993 e poste dal curatore in appendice al volume. In primo luogo, le note di sala di due concerti di musica per film (34) dalle quali estrapoliamo i giudizi, assai positivi, su Sostiene Pereira (’95) e Vatel (2000): “[…] “A brisa do coração” da Sostiene Pereira [è] un esempio notevolissimo di fusione musica-testo e di vitale articolazione melodica, mostra quale sintesi tra solennità e modernità, fra spirito colto e spirito popolare sappia raggiungere l’autore” (35); di Vatel si apprezza l’armonizzazione, “con la consueta maestria”, di tre esigenze “sulla carta contrastanti”: rispetto del proprio linguaggio, di quello dell’epoca e delle richieste registiche; in concreto, “la tipica impronta morriconiana del tematismo d’ampio respiro, la “«seduzione» seicentesca» che tuttavia esclude il rifacimento à la manière de”, “conferma e continuità” delle aspettative del regista (36).
     
Viene di seguito riportato il saggio Forme visive e forme sonore. Le musiche di Ennio Morricone per The life and death of Richard III (1912) (37). Dopo avere puntualizzato le difficoltà dello scrivere per il film muto, che obbliga ad una presenza musicale coincidente con la durata della pellicola, Miceli analizza la “macroscansione in cinque parti” e le relative microscansioni: smentendo una volta ancora il pregiudizio che la musica non possa né debba essere descritta: purché a farlo sia gente in possesso del necessario retroterra. Emerge una narrazione affascinante, precisa e plastica: “sonorità dense e secche”, “oasi di purezza cameristica”, “pulsazioni parossistiche, ossessive, malefiche”, respiro “severo” dell’orchestra, ostinati come “commento esterno alla vicenda”. L’opera è collocata tra quelle destinate a trascendere l’occasione di partenza: “[…] credo si possa affermare senza ombra di smentita, anche futura, che con The life and death of Richard III Morricone ha scritto una partitura fra le più intense, destinata dunque a rimanere – con questa pellicola ed oltre questa pellicola - accanto alla sua produzione strumentale più rappresentativa” (38).

Ancora, un testo tratto dal programma di sala della première di “Voci dal silenzio”, eseguita il 14 luglio 2002 al Ravenna Festival dall’Orchestra Filarmonica della Scala e relativo coro sotto la direzione di Riccardo Muti. Qui anche il professore parte da lontano, dal rapporto di Morricone con i testi da mettere in musica, colti, popolari o etnici (come in questo caso) che siano. “Il testo è per lui un pretesto”, sintetizza Miceli: ovvero, “appare a Morricone il prodotto di una «diversità» con la quale egli non sente la necessità di entrare in simbiosi, purché un solo verso sia capace di suscitargli l’emozione, o più semplicemente, la motivazione ricercata” (39). Riguardo all’etnico (epicentro della composizione sono i versi di un poeta, Richard Drive, nato a Capetown nel 1931 da padre afroamericano e madre africana: altro di lui non si conosce), l’approccio morriconiano è simbolico e non etnomusicologico, reinventa cioè i caratteri originari “in modo più o meno plausibile, più o meno «fedele» all’originale”, “pretesto” appunto. Segue l’analisi della partitura, della quale non è possibile dare qui conto dettagliato. Il critico pone in luce alcuni tipici procedimenti compositivi, vedi il “processo di accumulazione graduale e «geometrica» degli archi”, “la frammentazione ritmica e contrappuntistica […] a vantaggio di un’accordalità mobile e ambigua”, la ricomposizione del testo “per gruppi sillabici trasversali, di sezione in sezione, sempre più frammentati”, l’utilizzo di materiali preregistrati “chiamati in gioco dentro la partitura” (40).
      
A volersi spingere al di fuori del volume oggetto d’esame, e per completare il percorso, è opportuno ricordare altre occasioni nelle quali Miceli si è espresso sul Morricone del XXI secolo. Nel suo Musica per film. Storia, Estetica – Analisi, Tipologie, (2009) l’Autore dedica un’ampia scheda al maestro romano e si sofferma sulla sua collocazione nel panorama dell’attuale (per allora; ma il contesto non appare mutato a tutt’oggi) cinematografia italiana, caratterizzata da “un maggiore «pudore» espressivo con la conseguente riduzione delle esposizioni e delle funzioni drammaturgiche assegnate alla musica”: per cui la sua personalità forte e la sua musica molto presente all’interno dei singoli film potrebbero apparire “ingombranti” e “datate”; “ma il suo prestigio resta intatto nelle sacche produttive più conservatrici del cinema italiano (Tornatore, Ricky Tognazzi, Vancini) e straniero (Beatty, De Palma, Stone, Joffè)” (41). Qui «conservatore» vale «tradizionale», «della vecchia guardia». La musica di Morricone – quella del cinema - si lega ad una stagione irripetibile della cinematografia italiana e non, alta nell’autorialità, superbamente inventiva ed artigianale nei generi, e capace di osare, anche visivamente. Oggi –nell’ambito mainstream almeno; ché poi basta sfogliare un qualsiasi numero della rivista “Nocturno” per rendersi conto dello spaventoso sommerso di film scomodi, crudi, disturbanti, di registi che vanno oltre, offensivi al massimo nella rappresentazione dei comportamenti sessuali e della violenza - prevalgono l’intimismo, i temi sociali, le problematiche di genere, la rappresentazione neo-neorealistica di un mondo pieno di criticità. Un cinema a suo modo specchio del presente eppure privo di quella forza visionaria – in un Fellini o Visconti o Pasolini non meno che in Leone o Fulci o Argento -, della cattiveria dei primi Bellocchio, Faenza, Agosti, Samperi che caratterizzò le pellicole della seconda metà del trascorso secolo. Non a caso molti tra quei registi videro proprio nella musica «diversa» di Morricone la controparte delle loro fantasie allucinate.
     
L’estrema testimonianza si trova proprio nella sezione “testimonianze” contenute nell’autobiografia “conversata” Inseguendo quel suono. Colà si ribadivano le doti di “melodista straordinario […] anche gli accordi più semplici diventano in lui un’invenzione”, il “retaggio tonale” anche nei brani all’apparenza più atonali, i tre stili arcaico, pseudo-rock e pseudo-sinfonico (42); e poi, un’osservazione meritevole di approfondimento: “[…] credo che lui abbia in un certo modo smesso di sperimentare come faceva una volta, fatta eccezione per alcuni film, come Vatel e pochi altri” (43). La “testimonianza” è datata 15 giugno 2014, due anni dopo il professore concludeva il suo involontario soggiorno sulla terra. Lasciando un vuoto ed un silenzio pesanti per la musicologia, per la comprensione della musica nei media, per l’esegesi morriconiana. Con il rammarico di non poter beneficiare di ulteriori suoi contributi sulle opere ultime del Maestro. Aveva già detto tutto su di lui? Molte proficue osservazioni si potrebbero fare sull’ultimo ventennio, le ultime opere, l’attività concertistica: per capire sin dove si stava spingendo, le differenze tra un prima e un dopo. Qualcuno un giorno completerà il ritratto sulla scorta dell’interpretazione di Sergio Miceli. Se Maurizio Corbella volesse raccogliere l’invito…     

A neppure trent’anni dalla prima edizione Morricone, la musica, il cinema ha raggiunto la statura di un classico – solo i classici si ristampano, tutto il resto scade a breve termine -: degli studi morriconiani nello specifico, di quelli (cine)musicali a largo raggio. Le future investigazioni sull’ampio lascito del maestro romano dovranno giocoforza confrontarsi con la sintesi poderosa di Sergio Miceli che è punto di partenza e insieme di arrivo. Si potrà lavorare sulle sue ipotesi interpretative, estenderle, attenuare qualche giudizio tranchant (sull’utilizzo di musica contemporanea nelle situazioni cinematografiche negative, sulla prassi dei concerti misti, su contaminazioni ritenute inopportune); concentrarsi su aspetti particolari inevitabilmente passati sotto silenzio o accennati appena in una prospettiva d’insieme che non poteva darsi se non paradigmatica; individuare percorsi molteplici, rettilinei o incrociati entro un territorio polimorfo e smisurato; o, più semplicemente, abbandonarsi al gusto dello smarrimento entro un labirinto di suoni  e timbri e stili e forme inesausti. Sempre si dovrà far capo a quel titolo, che non è un libro su Morricone, ma il libro di Morricone. Pagine colme di proposte, di stimoli, di provocazioni, e messa a punto rigorosa di una materia centrifuga che solo un attento sguardo critico poteva ricondurre all’unità. Da vero toscano (basterà richiamare i nomi di Dante, Machiavelli, Montanelli?), l’Autore impiega uno stile diretto e scrive chiaro e forte, apre prospettive non convenzionali di giudizio e di approccio. Questa nuova edizione, arricchita dei nuovi materiali ricordati – e di difficile reperimento -, introdotta da una prefazione doviziosa che è un saggio critico sopra un libro di critica, rende nuovamente disponibile un testo da un pezzo fuori commercio, ed offre allo studioso un punto d’avvio sicuro, al lettore interessato e curioso un thesaurus insieme interpretativo, informativo e bibliografico sull’opera del musicista e sugli antinomici contesti entro i quali si trovò ad operare. Azzardiamo un paradosso, che è poi quello romantico di Schleiermacher: se, considerata in rapporto al suo oggetto, la monografia di Miceli ci suggerisse che l’interpretazione vale più della creazione originale? O si dovrebbe, piuttosto, parlare di una singolare osmosi, qui suggerita, di seguito attuata in quella “documentazione di scambio dialogico”, nel “volume a due voci” (44) che sarà Comporre per il cinema? Di certo, dopo attente letture e riletture la musica di Ennio Morricone apparirà nella luce della complessità costruttiva e nel processo di sviluppo di ricerca del suono e sul suono: senza perdere un’oncia di quella fascinazione che l’ha fatta amare da milioni di persone d’ogni età e ceto sociale.

(1)    ITALO CALVINO, La letteratura come proiezione del desiderio in “Libri nuovi”, n. 5, agosto 1969; poi in ID., Saggi, Milano, Mondadori, 1995, tomo primo, p. 250.
(2)    MAURIZIO CORBELLA, Morricone/Nicolai: le dimensioni sonore di una misteriosa sinergia. Articolo contenuto nel booklet del cofanetto Ennio Morricone/Bruno Nicolai, Dimensioni sonore: musiche per l’immagine e l’immaginazione, Dialogo 2020.
(3)    SERGIO MICELI, Morricone, la musica, il cinema, nuova edizione a cura di Maurizio Corbella, Milano, Casa Ricordi-LIM Editrice, 2022, p. 39.
(4)    Ibidem.
(5)    THEODOR W. ADORNO, Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi, 1971 e 2002; in particolare, il capitolo “La musica leggera”, pp. 26-47: 34-35.
(6)    Per i dettagli, MAURIZIO CORBELLA, Prefazione a Morricone…, p. 33.
(7)    MICELI, Morricone…, p. 67.
(8)    “Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze” (ITALO CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, in Saggi a cura di Mario Barenghi, Tomo primo, Milano, Mondadori, 1995, p. 678; prima ed. Garzanti 1988)
(9)    SERGIO MICELI, I suoni di Giano. Sul comporre di Ennio Morricone, in Trento Cinema. Incontri internazionali con la musica per il cinema 1998, Trento, Provincia autonoma di Trento, 1988, pp. 70-81.
(10)    MAURIZIO CORBELLA, Prefazione a Morricone…, p. 7.
(11)    Ivi, p. 6.
(12)    Ivi, p. 9.
(13)    Ibidem.
(14)    Ivi, p. 10.
(15)    Ivi, p. 27.
(16)    Ivi, pp. 29-31: 29.
(17)    Ivi, p. 31.
(18)    Aggiungiamo, a puro titolo di relata refero, una supposta primissima composizione giovanile, “Rimembranze”, datata 1946: “Rimembranze is probably the first ever piece written by Ennio Morricone as professional composer, in 1946 (he was 18) [Miceli fa risalire i primi tentativi di composizione al 1934, a testimonianza di una predisposizione congenita: cfr. MICELI, Morricone…, p. 459]. However it was only brought to our attention thanks to a recent performance by Roberto Prosseda [https://www.youtube.com/watch?v=zq1G6XYMZt0&t=2025s; ultimo accesso: settembre 2022], who says he personally received the sheet music from the hands of Ennio’s family members” (MAESTRO – THE ENNIO MORRICONE ONLINE MAGAZINE, Issue #21, October 2021, p. 11: https://chimai.miraheze.org/wiki/File:Maestro22.pdf; ultimo accesso: settembre 2022 ).
(19)    MICELI, Morricone…, p. 527.
(20)    Proprio Corbella ha tradotto in inglese le “conversazioni” tra De Rosa e Morricone (Ennio Morricone: in his own words, translated from the Italian by Maurizio Corbella, Oxford University Press, 2019) e revisionato il catalogo «applicato»: si spera correggendo le (numerose purtroppo) inesattezze contenute nell’edizione italiana. Ci riferiamo ad alcune attribuzioni erronee (come Corri uomo corri, 1968, ascritto al Nostro invece che a Nicolai, o Viva la muerte… tua!, 1971, che è invece di Gianni Ferrio: pp. 454 e 457) e all’inclusione di pellicole contenenti contributi non originali (si intenda: musiche composte in precedenza per altri film), come Con rabbia e con amore, 1995; Inglorious Bastards, 2009; etc.). Si tratta, appunto, di un magnum mare entro il quale è facile smarrirsi, e che pone di fronte alla necessità – e difficoltà - di una corretta filologia morriconiana.
(21)    ENNIO MORRICONE, Padre Pio tra cielo e terra, Warner Bros. 0927 40386-2 (2001), tracce 11 e 12; poi Kronos Records KRONCD080 (2017).
(22)    ID., Un difetto di famiglia, ConcertOne 74321934912 (2002), traccia 9.
(23)    ID., L’ultimo dei Corleonesi, RAI Trade FRT 424 (2007), traccia 16.
(24)    ENNIO MORRICONE – SERGIO MICELI, Comporre per il cinema, a cura di Laura Gallenga, [Bianco & Nero], Marsilio, Venezia, 2001, p. 265 (corsivo dell’Autore).
(25)    Il primo, comparso in appendice a SERGIO MICELI, La musica nel film. Arte e artigianato, Fiesole, Discanto, 1982, pp. 309-330. Riproposto in ID., Musica e cinema nella cultura del Novecento, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 479 sgg.; e in ID, Morricone…, pp. 393-413. Il secondo, trascrizione dell’incontro con il compositore, moderato da Miceli, avvenuto nel corso del convegno internazionale di studi Musica & cinema (Siena, 19-22 agosto 1990).
(26)    Si considerino, almeno: ENNIO MORRICONE, Lontano dai sogni (Conversazioni con Antonio Monda), Milano, Mondadori, 2010; DONATELLA CARAMIA, La musica e oltre. Colloqui con Ennio Morricone, Brescia, Morcelliana, 2012; ENNIO MORRICONE, Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita (Conversazioni con Alessandro De Rosa), Milano, Mondadori, 2016; ID. – GIUSEPPE TORNATORE, Ennio. Un maestro, Milano, Harper Collins, 2018.
(27)    MICELI, Morricone…, sezione aggiunta Scritti e colloqui a cura di M. Corbella, pp. 393-394 (enfasi del compositore).
(28)    Id., p. 397 e 404.
(29)    Id., pp. 417-418.
(30)    Id., pp. 416-418.
(31)    Id., p. 426.
(32)    L’ultimo lavoro “assoluto”, “Varianti per Ballista Antonio e Canino Bruno”, risale al 2017; l’ultimo applicato al 2020: “Ci sono giorni che non accadono mai, pièce” (un involontario ritorno alle origini?) diretta da Sergio Castellitto su testo di Valerio Cappelli, musica eseguita dall’Orchestra Arcangelo Corelli di Ravenna diretta da Jacopo Rivani. Cfr.  https://chimai.miraheze.org/wiki/Movie_Ci_sono_giorni_che_non_accadono_mai e https://www.youtube.com/watch?v=vpyom5UH3sY (ultimi accessi: settembre 2022)
(33)    Intervista ad Alfredo Barberis, “Il Giorno”, 22 dicembre 1965.
(34)    Si tratta di due concerti di musica per film diretti dall’autore presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia il 7-10 novembre 1998 e il 25, 27 e 28 febbraio 2006.
(35)    MICELI, Morricone…, sezione aggiunta…, p. 453.
(36)    Ivi, p. 456.
(37)    Pubblicato in “Musica/Realtà” (XVIII/54), novembre 1997, pp. 185-199; ristampato nel programma di sala della prima esecuzione dal vivo sulla proiezione del film (Teatro dell’Opera di Roma, 22 novembre 1998).
(38)    MICELI, Morricone…, sezione aggiunta…, p. 442 et passim (pp. 427-442).
(39)    Ivi, p. 445.
(40)    Ivi, passim (pp. 443-448).
(41)    SERGIO MICELI, Musica per film. Storia, Estetica – Analisi, Tipologie, Milano, Ricordi-LIM, 2009, p. 368.
(42)    SERGIO MICELI, Parola di musicologo, in ENNIO MORRICONE, Inseguendo quel suono, pp. 391, 396, 400-401.
(43)    Ivi, p. 401.
(44)    MAURIZIO CORBELLA, Prefazione a Morricone…, p. 8.

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