Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile

cover giorgio gaslini rivelazioni squadra mobileGiorgio Gaslini
Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile (1972)
AMS/Cinevox/BTF OST030
20 brani – Durata: 37’33”

Chiamare Giorgio Gaslini (1929-2014) “musicista del cinema” è improprio. Non perché ebbe al suo attivo quarantatré film come da lui stesso quantificato (1) e non i tre-quattrocento titoli di illustri colleghi specialisti. Piuttosto, perché il cinema fu uno dei tanti settori del suo operare in musica, una parentesi compresa tra il 1958 e il 1984. Prima, durante e dopo fece molto altro. Di formazione jazzistica, conseguì i diplomi in composizione, direzione d’orchestra, pianoforte, strumentazione per banda, canto corale e polifonia vocale. Fu autore di lavori sinfonici, opere, balletti, musiche di scena e per molti Caroselli (la canzone della Mucca Carolina), convinto che la musica dovesse essere “totale”, ovvero aperta a tutti i linguaggi, alti e bassi, europei e non, senza dogmatismi stilistici, “atto libero di creazione espressiva” come ebbe a scrivere nel “Manifesto della musica totale” stilato nel 1964 e ripreso ed ampliato nel 1975 (Musica totale: intuizioni, vita ed esperienze musicali nello spirito del ’68, Feltrinelli). Tra le sue opere, “Salmo XIII” per baritono e pianoforte (1951), “Logarithmos” per archi, xilofono e campane (1954), “Tempo e relazione” (1956, tentativo di fondere jazz e scrittura dodecafonica), “Totale 1” e “Totale 2” per orchestra (1965-67), “Chorus per flauto solo” (1965), “Segnali per oboe solo” (1966), “Mister O” (1996, prima opera jazz italiana, rivisitazione moderna di Otello). Organizzò eventi musicali, tenne la titolarità dei corsi di jazz presso i Conservatori di Santa Cecilia in Roma (1972-73) e “G. Verdi” di Milano (1979-80). Molte le tournée: U.S.A., Messico, Sud America, Africa, Asia, Europa, Russia. Nella sua visione globale il cinema rientrava come ulteriore occasione per sperimentare nuovi linguaggi, fonte di opportunità non meno che di rischi connessi con l’aspetto sussidiario della prassi cinemusicale, per cui “spesso il musicista […] è un bravissimo artigiano, cioè una persona che sa adattarsi bene alle esigenze del regista e del film, e quindi a cambiare, di volta in volta, atmosfere e stile” (2). L’incontro con la settima arte avvenne “quasi per caso. Avevo regalato un mio disco a Marcello Mastroianni senza sapere che sarebbe stato l’interprete del film di Antonioni [La notte, 1960], e Marcello fece sentire il mio LP al regista. Subito Antonioni mi chiamò e mi scritturò per un mese” (3); e condusse a collaborazioni prestigiose: oltre al regista ferrarese (Nastro d’Argento per la musica), Miklós Jancsó (La pacifista, 1970), Nelo Risi (La colonna infame, 1972), Carlo Lizzani (Kleinhoff Hotel, 1977), Dario Argento con Le cinque giornate, La porta sul buio, Profondo rosso (qui subentrarono, come noto, i Goblin che conferirono ai nostri thriller un flavour alternativo e imitatissimo). Nella sua concisa filmografia ci fu un canto anche per il cinema di genere, vedi il decamerotico Quando le donne si chiamavano madonne, Incontro d’amore a Bali, La notte dei diavoli; e alcuni thriller: Un omicidio perfetto a termini di legge, 5 donne per l’assassino (partitura di grande interesse, molto sperimentale, ben oltre lo standard), e appunto Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile.
Se incontrassimo un titolo di questo tenore nelle programmazioni cinematografiche odierne, ci coglierebbe un senso di acronia. E ben a ragione. Formule di tal fatta abbracciano un’estensione temporale precisa, compresa tra gli ultimi Sessanta e i primi Settanta. Ovvero le annate prospere del nostro cinema bis, plurigenere fantasioso iperrealista, snobbato dalla critica, amato da un pubblico non solo “popolare” ma di intellettuali e cinefili, liberi pensatori senza etichettature politiche (non di destra né di sinistra è il cinema, che cosa direbbe Giorgio Gaber?); oggetto di un successivo revisionismo in seguito alla riscoperta di Tarantino che finì col contagiare anche i più schifiltosi detrattori originando un processo rivalutativo talvolta non meno avventato delle denigrazioni precedenti. Ci furono l’ottimo e il pessimo, e una quantità di prodotti medi dei quali oggi cogliamo i limiti, anche grossi, mescolati a isolati immensi guizzi d’inventiva: misture di povertà e ricchezza, autorialità e dilettantismo, sincera voglia di cinema e cinismo produttivo. Una cinematografia minore? Rispetto a quegli anni, siamo già posterità, e l’ardua sentenza è assolutoria. Quanta parte occupa in tutto ciò la nostalgia, la voglia di invertire la rotta del tempo, la mitologizzazione del passato? A ciascuno la sua risposta. Ma, oggettivamente, un cinema pieno di personalità, di grana grossa spesso e per ciò vero; iconico nelle scelte di regia, nelle maschere, nelle situazioni, nelle atmosfere, nei dialoghi sapidi, nelle battutacce. Un sublime inferiore che rubava la scena a quello superiore dei grandi nomi, dei quali male non potevi dire e nemmeno sarebbe stato giusto; anche se poi in interiore homine inclinavamo verso l’altra parte, e un Joe D’Amato o anche un Sergio Bergonzelli ci parevano preferibili (orrore) a un Rossellini, un Antonioni, un Visconti, e camminavamo tra gli uomini con il nostro segreto ignobile. Chi quel cinema conobbe e predilesse nelle prime esperienze spettatoriali, se lo porterà sempre dietro, e lo amerà anche quando “brutto”, come si ama un figlio disgraziato. L’attuale cinema italiano mainstream piatto più di una sogliola, “attuale”, “sociale”, buonista, sempre sotto le righe, uguale a un pancotto, non regge in blocco il confronto col più trash dei decamerotici, col più squinternato dei western, col più modesto dei thriller, con le più dozzinali commedie sexy.
Rivelazioni… di Roberto Bianchi Montero ha retto bene all’usura del tempo, rivisto oggi ancora tiene; riserve si possono avanzare, tuttavia è l’insieme che conta e il sapore che lascia a visione conclusa, e nel ricordo. Probabilmente una delle pellicole migliori di un regista prolifico e tuttofare, dai polpettoni strappalacrime degli anni Cinquanta ai sexy movie tanto in voga nel successivo decennio, dallo spy al western, dalla commedia scollacciata al bellico, sino a questo thriller argentiano (ma con una componente erotica spiccata). C’è un assassino scannadonne, vestito di nero, con cappello e il volto oscurato da una calza (ovvero, Argento più Bava), posseduto da un moralismo giustizialista che lo induce a straziare solo femmine sposate e fedifraghe. Indaga il commissario Capuana che lo individua e lo arresta, non prima tuttavia di essersene servito per liquidare una faccenda personale. Riuscite le sequenze omicidiali, Femi Benussi inseguita e massacrata in un arenile deserto in una luce tardocrepuscolare, il killer riflesso nello specchio semiappannato della stanza da bagno e che si svela progressivamente alla vittima inseguita per le scale di casa, raggiunta e finita (espediente non nuovo e ripreso anche in seguito, vedi La casa con la scala nel buio di Bava junior, e sempre efficace). Bene il cast con Farley Granger nel ruolo del commissario, Silvano Tranquilli e Chris Avram. Ma sono le donne a tenere banco e ad alzare la temperatura, e qui bastano i nomi: Sylva Koscina, Femi Benussi, Annabella Incontrera, Susan Scott (Nieves Navarro Garcia), Krista Nell, riprese mentre si spogliano, mostrano il seno e anche di più: quanta grazia di Dio ridotta a carne da macello, ma è la regola (nel giallo italico le donne sono assiduamente corteggiate dalla morte in un riuscito binomio che associa sangue ed eros attizzando la scopofilia dello spettatore). La critica dell’epoca non ne parlò bene, come d’abitudine. Mereghetti, succube di un aprioristico furore iconoclasta, lo massacra, “girato con due lire e con una banalità sciatta”, e non risparmia le musiche “deludenti”. Le “Segnalazioni cinematografiche” della Conferenza Episcopale Italiana parlano di film “di modestissimo artigianato […] ricco […] di nudità, situazioni scabrose oltre che irregolari, congiungimenti carnali di sfacciata e disgustosa evidenza, sadiche uccisioni” (4): un linguaggio connotato e datato del quale oggi avvertiamo la mancanza, pur senza acconsentire. M. J. Davinotti jr. lo reputa “confuso, confezionato senza molta cura”, come dimostra il fatto che “a ogni coltellata non corrispondano nella vittima squarci nel punto in cui viene colpita: appaiono sempre laddove al regista faceva più comodo mostrarli!” (5). E’ pur vero, aggiungiamo, che la suggestione fa a meno della verosimiglianza. Il film si guadagna la scheda in The Gorehound’s. Guide to Splatter Films of the 1960s and 1970s di Scott Aaron Stine (McFarland 2001), dove apprendiamo che venne distribuito negli U.S.A. due anni più tardi con titolo Penetration e l’aggiunta di sequenze hard interpretate da “porn luminaries” (6).
Se il film si salva, la score è (quasi) ottima, mostra una consistenza musicale alta con interventi che stupiscono per il loro carattere avanzato, l’orchestrazione ricca e talora insolita (la folta presenza dei clarinetti), certe soluzioni colte. Sul versante melodico, momenti di elevata concentrazione lirica ed altri piacevoli nella loro tenuta minore. Il tema portante (“Ciò che è scritto nel vento”) si impone per suggestione melica e sapienza d’arrangiamento, le note si sdipanano in movenze seducenti, la voce di Edda – obbligatoria - conferisce la giusta dose di soft mortuario (uno dei titoli del film all’estero era So Sweet so Dead). La Divina plana sugli accordi in modo minore della chitarra acustica, poi cede momentaneamente all’orchestra, riecheggia qua e là, ricompare nel finale quasi sola: a ricordarci che la primadonna è lei, con quella voce di ampia proiezione, con quella naturale predisposizione al fraseggio che le permette di sapere come e dove respirare, con quello stile belcantistico pulito e naturale. Non solo bel canto tuttavia. In “Voce senza scampo” sibila nel vuoto, sola domina lo spazio acustico con una vocalità adesso sorda ed inconclusa ridotta a pochissime note senza seguito e con brevi aperture sul registro acuto: angoscia rappresa nella gola, grido murato nella strozza. L’effetto è spettrale. Multiforme Edda. E pensare che quelle soluzioni le inventava al momento, vedeva lo spartito in sala d’incisione venti minuti prima e subito lo viveva con intuito certo e prodigioso camaleontismo (“Prima di registrare non sapevo nulla della musica che sarei andata a cantare, quindi arrivavano con lo spartito ed io iniziavo a provare […] Mentre leggevo, al contempo interpretavo, e non mi abbisognava un’ora per farlo, ma accadeva subito. Il fonico faceva una sola prova di registrazione di battute e poi si partiva subito con quella reale. I compositori si divertivano a scrivere qualsiasi cosa per me, perché non dovevano impazzire a fare prove al pianoforte. Mi mettevano la musica davanti ed io subito la interpretavo nel modo giusto! […] mentre leggevo lo spartito cantavo nello stesso tempo”) (7). Tornando al tema, all’introitus vocale segue lo sviluppo con archi e clarinetti rafforzato dalla batteria. Si colgono sfumature morriconiane ma è solo un accenno, forse anzi erano quel tipo di cinema, quei volti femminili a “chiamare” certe armonie. La breve sezione centrale infrange il flusso melodico grazie ad un astrattismo sonoro occupato dai fraseggi asettici del clarinetto e della voce. Segue ripresa con pianoforte ed archi. Le versioni II e IV ripropongono senza l’interludio immateriale, III è in forma ballabile con flauto, basso e batteria, in “Finale” abbiamo una breve introduzione sospensiva.
Ecco poi il “Tema del maniaco”, sorta di swing malato tendente al grottesco con legni vari, basso, percussioni, fiati e ancora Edda che abbozza aggressiva tra il lamento e l’urlo. La parte statica è affidata ai clarinetti con qualche moderato effetto elettronico. Grande pagina che si apre la strada entro il maremagno della “musica negativa”, e che richiama le atmosfere dei romanzi gialli di Augusto De Angelis, le indagini del commissario De Vincenzi nella Milano degli anni Trenta (intrepretate benissimo da Bruno Nicolai nello sceneggiato tratto dalle opere dello scrittore romano). Il “Tema del maniaco” apre al versante connesso ai delitti e relative investigazioni. Oltre al ricordato “Voce senza scampo” abbiamo “Frammenti”, “Colori”, “Lamento”. Il primo è una singolare ripresa tematica con clarinetti acuti e taglienti e Edda che lo inizia e sospende, il tutto spezzato da percussioni ed effetti astratti, privo di linearità come da titolo. “Lamento” offre percussioni sorde, note disarticolate del clarinetto (vero protagonista della score, ex aequo con la voce), flauti cupi su contrabbassi altrettanto scuri. “Colori” è una proposta di allettante negatività in antitesi al titolo (ma non dimentichiamo “tutti i colori del buio”). Per tre quarti udiamo concise percussioni sdrucciolevoli con minime variazioni ritmiche, effetti “passi” (“passi di morte perduti nel buio”?), scricchiolii e raschiamenti, rumori indefiniti, pause, udibilità al minimo e aumentazioni del volume (la minaccia va e viene); il vuoto orchestrale enfatizza una claustrofobia ossessiva ed allarmata, siamo in un cul-de-sac. Poi ci si apre alle note distorte e disperse di clarinetto, piano e vibrafono e si sfocia nel caos. Pagina variata con destrezza, Gaslini si accosta alle “tenebre” del nostro cinema con un personale bagaglio di risorse e le sue score si possono confrontare senza timore con le soluzioni stilistiche dei vari Nicolai, Morricone, Ortolani…
La parte più valida finisce qui; e tuttavia non sarebbe corretto tacere del resto, la componente easy mirata ad una gradevolezza d’occasione come “Sorridendo” (samba con flauto in fioritura, chitarra, marimba e buoni interventi pianistici), “Lievemente” (d’intrattenimento, per complessino), “Ricordando” (atmosfera soft, con marimba), “Domani forse” (pezzo beat con Hammond e batteria scatenata): esempi di più che valido mestiere (in questo ambito anche gli illustri scrissero talvolta cose ignobili). Di più alta tenuta “Teneramente”, un piano night virtuoso con echi di jazz morbido: raffinato, magnetico, troppo breve.
La score è (ri)proposta dalla Cinevox in un elegante yellow vynil con venti tracce, che fa seguito alle due precedenti edizioni e in vinile e in compact, il 33 giri Cinevox uscito in contemporanea al film (15 brani) e l’edizione estesa Fin de Siècle Media del 2007 con 32 tracce. Ristampare è davvero l’unica salvezza per una musica – quella del cinema - a continuo rischio di estinzione.

(1)    Colloquio con Paolo Fazzini in Id., Visioni sonore. Viaggio tra i compositori italiani per il cinema, Roma, unmondoaparte, 2006, p. 158.
(2)    Ivi, p. 159.
(3)    Ivi, p. 157.
(4)    https://www.cinematografo.it/film/rivelazioni-di-un-maniaco-sessuale-al-capo-della-squadra-mobile-f1hs01jf (ultimo accesso: settembre 2023).
(5)    https://www.davinotti.com/film/rivelazioni-di-un-maniaco-sessuale-al-capo-della-squadra-mobile/1063 (ultimo accesso: settembre 2023).
(6)    https://www.google.it/books/edition/The_Gorehound_s_Guide_to_Splatter_Films/A8z-CgAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&dq=%22Rivelazioni+di+un+maniaco+sessuale%22&pg=PA220&printsec=frontcover (ultimo accesso: settembre 2023).
(7)    http://www.colonnesonore.net/contenuti-speciali/interviste/762-intervista-esclusiva-a-edda-e-giacomo-dellorso.html.
Intervista curata da Massimo Privitera del 16 luglio 2006 (ultimo accesso: settembre 2023).

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