Flatliners

cover flatlinersNathan Barr
Flatliners: linea mortale (Flatliners, 2017)
Sony Masterworks 7336-2
22 brani – Durata: 42’36”

Chi ha buona memoria ricorderà, nel lontano 1990, Linea mortale (Flatliners) di Joel Schumacher, dramma fantascientifico su un gruppo di studenti di medicina che decidono di avventurarsi nei pericolosi territori situati al confine tra la vita e la morte. Fu un film che ebbe tra l’altro il merito di lanciare con decisione nello star system una pattuglia di giovani e promettenti attori tra cui Kiefer Sutherland, Julia Roberts e Kevin Bacon; si trattò anche di una delle prime, e rare, partiture di James Newton Howard orientate sul versante fanta-horror, un terreno che il compositore non frequenta spesso ma sempre con esiti notevoli.

 Il sequel di Niels Arden Oplev, dove riappare come testimonial Kiefer Sutherland, non può ovviamente ambire a suscitare il medesimo effetto di quasi trent’anni fa, dove il terrore per “l’empietà” dell’impresa si mescolava a non banali considerazioni filosofiche. Il regista danese è molto più attratto dall’aspetto puramente fantastico e visionario della storia, e la scelta di Nathan Barr come compositore asseconda questa opzione. Il compositore statunitense, noto soprattutto per la score del primo Hostel e della serie True Blood, è infatti per formazione e vocazione uno straordinario e spregiudicato manipolatore di suoni e di fonti, un miscelatore astuto ed efficacissimo di effetti e soluzioni elettronico-strumentali, il tutto arricchito da un tocco particolarmente felice nell’alleggerire le atmosfere con improvvise oasi liriche e melodiche, per quanto ottenute quasi sempre con metodi anticonvenzionali.
 Così il suo Flatliners si apre sotto le insegne di un tematismo etereo, siderale (“Crash”), appena disturbato da un effetto di pulsazione cardiaca piuttosto scontato che popolerà tutto il lavoro, mentre i successivi “Main title” si agitano in una sorta di danza convulsiva e informe di natura eminentemente percussiva. Ma nuovamente “Library” si distende nelle volute degli archi, così come “Enough suffering” (tutte tracce molto brevi, si noti), caratterizzato da una estatica delicatezza e dall’ingresso del pianoforte. Tuttavia anche nei momenti più tesi, come “Backup hospital” o “Stop my heart”, Barr tiene i toni e il volume molto sotto controllo, intervenendo sulle strisce sonore con effetti di riverbero o di raddoppio, e trapuntando il tessuto musicale di picchettature e  minuscole stilettate che mantengono l’atmosfera tesa e allarmante.
 C’è spazio però anche per ampie distensioni orchestrali e fluenti aperture neoromantiche, come in “Courtney’s flatline” o “Lightstorm”, dove l’elemento di pura paura dell’ignoto si salda con il suo inevitabile contraltare, ovvero la fascinazione per le inesplorate regioni della psiche e della coscienza. Un’ambivalenza che risalta bene in pagine come “Courtney’s brain” e ancor più in “Mario’s flatline”, che ripropone la situazione di “Courtney’s flatline” ma deprivata di qualunque ottimismo luminoso e viceversa circondata da cupi echi, sinistri cigolii e fantasmi sonori per nulla rassicuranti, quantunque dominati da una specie di motivetto ricorrente dal sapore beffardo.
 Ma se il lato inquietante”, oscuro” della storia è affrontato da Barr con tocco quasi subliminale e rarissime concessioni all’armamentario più in uso (l’effetto “archi impazziti” di “Shower curtain” e l’agghiacciante “Morgue”), prediligendo invece tonalità malinconiche e riflessive, non va sottovalutata la componente di vera e propria “love music” che domina alcune tracce; ad esempio “What do you see on me?” e soprattutto la conclusiva “Forgiveness”, dove la morbidezza del pianoforte, il caldo suono di un violoncello e un’evocazione corale svelano una tenerezza sentimentale ed “umana” che sembrano le armi e lo scudo più efficaci con cui addentrarsi in zone così rischiosamente ubicate ai confini della realtà.

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