Captain Underpants: The First Epic Movie

cover captain underpantsTheodore Shapiro
Capitan Mutanda – Il film (Captain Underpants: The First Epic Movie, 2017)
Capitol B002687702.2
24 brani – Durata: 56’00”

Il titolo trash (ma tant’è) cela in realtà una dispendiosa produzione Dreamworks basata sui romanzi illustrati dello scrittore americano Dav Pilkey, di cui è protagonista un improbabile supereroe dei fumetti inventato da due vivaci e fantasiosi monelli in perenne lotta contro la scuola; ma è soprattutto veicolo di una delle più strepitose, scatenate e imprevedibili partiture che si siano ascoltate in tempi recenti. Perché se è vero che la brillante carriera di Theodore Shapiro si è sinora fondata principalmente sulle commedie disinibite e sul filone parodistico (da …e alla fine arriva Polly a Palle al balzo, da Idiocracy a Zoolander 2 al remake di Ghostbusters), qui siamo dinanzi ad una specie di sublimazione dello stesso concetto di parodia in musica, attraverso l’acquisizione di un enfasi caricaturale, sovraesposta, fiammeggiante, e l’esasperazione del “mickeymousing” in una frammentazione nevrotica e ansimante del discorso musicale, dove brulicano idee, invenzioni e trabocchetti ad ogni battuta.

 Un po’ come se Shapiro volesse attraverso la sua musica rutilante, esplosiva e trascinante, conferire al protagonista quella “dignità” supereroica che evidentemente altrove gli è negata, ma nel contempo sottoponendolo alla più beffarda e bruciante satira. Non è impresa facile, quella della parodia cinemusicale, perché il rischio è sempre quello di veder scambiato per serio ciò che è invece faceto, creando score intercambiabili con le proprie gemelle altolocate. Non è così per Shapiro, che ci dà dentro come un forsennato ma con tale esagerazione da smascherare immediatamente e genialmente i propri intenti canzonatori.
 Per ottenere questo risultato non si bada a mezzi né a fonti: “Comic book opening” inizia come musichetta da videogame d’antan (presente anche altrove, come in “Anti-humor boy”) per deviare poi verso una rutilante fanfara williamsiana, che è al centro anche di “Romance origin story”, ma unita ad un futile temino pianistico. La coabitazione tra pagine sinfonico-corali di stampo apocalittico e buffe inserzioni techno-disco rimarrà una costante della score (“Annihilate the friendhsip”) mentre ogni situazione o cambio d’ambiente vengono sottolineati in partitura da elementi caratterizzanti, come l’organetto alla francese e il suo tema svagato di “Tuna casserole”, “Two blue eyes” e “Snooping”: quest’ultimo sgargiante esempio di musica cartoonistica spezzettata, vibratile, tutta cambi di passo, accelerazioni e pause, esplosioni dissonanti e squilli svettanti. Il fatto è che il compositore si produce in una continua serie di “sbalzi d’umore” a seconda delle situazioni inverosimili in cui si cacciano i protagonisti: così, “Power the hypno ring”, col suo minaccioso coro di bassi e i vocalizzi femminili da fantascienza anni ’50, è pura musica di genere, al pari della sinistra “Mad genius inventor”, che alla piena orchestra impegnata in toni orrorifici affianca un’anacronistica cetra. Si prosegue così senza un attimo di tregua, tra spigolosità strumentali prokofieviane (“Brain of a child”), palesi citazioni williamsiane, l’improvvisa, esilarante e irriverente irruzione dell’”Hallelujah” di Haendel (“Hallelujah, his name is Poopypants”) e parentesi baroccheggianti (“The Nobel Prize”): tra l’altro con un’orchestrazione superlativa, di un sinfonismo tellurico e volutamente sopra le righe, che tiene insieme violentissime perorazioni di ottoni (“Anti-humor boy”) e inserimenti country, coinvolgimenti del vecchio teremin (“A world without laughter”) e trascendenze corali da “fine-di-mondo” (“Art class liberation”).
 Naturalmente, è appena il caso di osservare che dietro tanto liberatorio anarchismo sinfonico, così apparentemente svincolato da una struttura ordinata, si nasconde in realtà una vigile visione d’insieme che tutto collega e motiva, attraverso un’accorta distribuzione dei leit-motifs e una sapiente distribuzione di ingredienti. I modelli, d’altronde, sono ben presenti a Shapiro, dal Williams di Superman (“Plip-o-rama!”, che però va a finire in un jingle alla “Super Mario Bros.”…) al Goldsmith della saga Star Trek, passando per tutto quello che c’è in mezzo e oltre. Infatti il dato saliente che emerge dalla partitura è proprio la conoscenza e la sbalorditiva padronanza dei materiali chiamati in causa, declinati con la reverente consapevolezza e nello stesso tempo l’assoluta indipendenza di un artista che proprio da quei modelli ha assorbito tecniche e suggestioni. I conclusivi “Saving the day” e “The prank for good” ne sono le spettacolari e divertenti ricapitolazioni: soprattutto il secondo, composto ed elegante nel suo riassunto tematico, ma solo fino alla coda, che viene invece lasciata deflagrare in un’ultima, abbagliante impennata.
 Dunque una score di ascolto elettrizzante ma anche molto, molto astuta, che sembra fare propria una massima: il modo migliore per non prendersi sul serio è prendersi, molto, troppo sul serio.

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