Darkest Hour & Churchill

Dario Marianelli
L’ora più buia (Darkest Hour, 2017)
Deutsche Grammophon B002776702
19 brani – Durata: 51’58”



Lorne Balfe
Churchill (Id., 2017)
Filmtrax B07895ZWWX
14 brani – Durata: 48’33”

Il ruolo di protagonista assoluto nella storia del XX° secolo, soprattutto nella strenua resistenza alla barbarie nazifascista, giustifica ampiamente il mito di Sir Winston Churchill e la frequenza con cui la sua personalità è stata visitata dal cinema, dagli anni giovanili a quelli cruciali della sua permanenza al 10 di Downing Street: offrendo così a numerosi grandi attori il destro per esibirsi tra cinema e tv in interpretazioni differenziate, ma tutte maiuscole, del personaggio.
 Solo negli anni più recenti e senza contare le apparizioni di contorno (come Timothy Spall in Il discorso del re) vanno ricordati almeno il dittico televisivo Guerra imminente e Into the Storm-La guerra di Churchill (2002 e 2009), con protagonisti rispettivamente Albert Finney e Brendan Gleeson (musiche di Howard Goodall), il John Baddeley di Churchill (doc del 2003, musiche di Chris Elliott), sempre per la tv Michael Gambon in Churchill's Secret (2006, musiche di Adrian Johnston), John Lithgow nella miniserie The Crown (2016, musiche della premiata ditta Zimmer-Rupert Gregson Williams-Balfe) e ora, appunto, Gary Oldman in L'ora più buia e Brian Cox in Churchill.

 Malgrado questi due “biopic” si focalizzino sul medesimo periodo storico ed indaghino entrambi la figura di Churchill anche sotto il profilo privato, l'ottica dei registi, rispettivamente l'inglese Joe Wright e l'australiano Jonathan Teplitzky, appare considerevolmente diversa: molto centrata sull'aspetto più umano, quotidiano la prima, con ricorrenti venature da commedia; più corrucciata, titanica e scontrosa, con un impianto a tratti scopertamente tragico, la seconda.
 Una divaricazione che trova riscontro anche nelle rispettive partiture musicali. Quella del nostro Marianelli, ormai “adottato” dal cinema british e in particolare dalle sontuose e raffinate rivisitazioni letterarie di Wright, si muove su un versante dichiaratamente neoclassico, addirittura concertistico anche grazie alla presenza solistica del giovane e acclamato pianista islandese Víkingur Ólafsson, il cui tocco pensoso e sommesso emerge sin dall'iniziale, impressionistico “Prelude”, scolpito tra un misterioso tremolo fisso, brusche note gravi e accenni interrotti di melodia.
Ma il “Marianelli's touch” è ancora più evidente nell'agitato “Where is Winston?”, pagina introdotta dal celebre motto dei timpani ispirato alla Quinta di Beethoven che durante la guerra apriva le trasmissioni clandestine di Radio Londra, e poi molto mossa negli archi e nel ribattere degli ottoni su un ostinato del piano e solenni accordi dei corni a formare quello che tornerà come tema conduttore. Il climax dunque è piuttosto acceso, drammatico ma senza enfasi, affidato ad una ritmica sostenuta (“Full english”) e al ruolo concertante del pianoforte, che si fa largo soprattutto in pagine di grande trasparenza strumentale e afflato emotivo, come “One of them” per piano, arpa e corni. A tratti poi Marianelli assume un tono quasi da concertismo beethoveniano, come nel compassato “Winston and George”, con quel compunto accompagnamento degli archi e i trilli salottieri del piano: si tratta, come dicevamo, dell'aspetto anche umoristico che emana dal protagonista e dal taglio narrativo, soprattutto nei rapporti tra il Primo Ministro e re Giorgio VI. Tutto però è inserito nel quadro di una tensione drammatica ottenuta con parsimonia di mezzi, attraverso rapidi disegni, ricorrenti ostinati o accenni di marzialità militare (“The war rooms”, “From the air”) sovrastati da ampi e legati fraseggi di ottoni, o da accigliati fraseggi dei celli e del clarinetto (“I wouldn't trust him with my bicy”): una solennità, quella del compositore pisano, non dissimulata, come dimostra lo sviluppo teso e accorato di “Radio broadcast”, ma sempre subordinata ad una tensione più interna che esibita, psicologica prima e più ancora che spavaldamente bellicosa, e dove comunque la figura dell'”ostinato”, metafora palese del carattere del protagonista, rimane dominante: basti ascoltare la nota ribattuta di “History is listening” o l'insistente strascicamento dei bassi di “An ultimatum”.
 Alto e potente, il tema principale risuona nei corni in “Dynamo”, nome dell'operazione di salvataggio avvenuta a Dunkerque e già al centro del film di Nolan, mentre l'atmosfera si incupisce e surriscalda in “We must prepare for imminent invasion” e poi si raggruma intorno al nuovo, funebre ostinato di bassi in “The words won't come”; solo apparentemente dimenticato, il pianoforte di Ólafsson si riprende la scena riproponendo l'idea del preludio in “Just before the dawn” per poi interagire misteriosamente e fuggevolmente con gli archi in “District line, East, One stop”. Tocca ancora a lui riafferrare il filo principale nell'ampio e bellissimo finale “We shall fight” (il celebre discorso ai Comuni di Churchill), in un arabesco che lo vede dialogare fittamente con archi e arpa a costruire una progressione lenta ma inesorabile e vincente, che si chiude non a caso all'insegna di quella irrequieta mobilità ritmica che ha caratterizzato la score.
 Tutt'altra musica, in ogni senso, quella di Lorne Balfe. Fedele al pensiero estetico del suo mèntore Zimmer (di cui tuttavia è un interprete originale e talentuoso), il compositore scozzese ne assorbe soprattutto la vocazione misticheggiante, aureolante e grandiosamente metafisica, proiettando Churchill e il suo periodo storico – di cui già si era occupato nel citato The Crown – su uno scenario epico e tragico di proporzioni imponenti. A quasi parità di mezzi impiegati (anche qui c'è un pianoforte, oltre ad una vasta gamma di strumenti solisti, ma c'è anche un ampio utilizzo dell'elettronica), Balfe bandisce dalla sua score qualunque aspetto  o tentazione di alleggerimento brillante, così come tende ad escluderne vistose accensioni dinamiche o brusche accelerazioni ritmiche. Tutto qui risuona introverso, lento, sobriamente doloroso e a tratti religioso. Il lamento vocale in falsetto di Thomas Farnon in apertura (“The beach”), seguito da un adagio sconsolato per archi, suona insieme come musica sacra e struggente epicedio, al pari dell'acuto assolo di violino sul quieto moto perpetuo del piano e gli accordi degli archi in “Meeting with Monty”. Una maggiore velocizzazione e movimentazione, con i saltellanti staccati degli archi, si fa strada in “An unsociable hour”, innescando però anche le prime tracce di quel processo di monotonia che, come sappiamo, è un po' il rischio comune alle partiture di questa “factory” di compositori. Si tende cioè, una volta individuato un registro tonale, un'impalcatura armonica e una ripartizione di timbri, a ripetere serialmente le soluzioni, senza preoccuparsi troppo di differenziarle espressivamente: di qui brani nobilmente ma inevitabilmente un po' iterativi ne tediosi come “Eisenhower will listen” o “Back to London”, con gli accordi circolari del pianoforte che si spengono nella nebbia: anche se proprio nella sua semplicità e rarefatta, intensa compostezza melodica risiedono ad esempio il valore e la pregnanza espressiva di una pagina come “Meeting with the King” (la si confronti con il già citato “Winston and George” di Marianelli, che accompagna la medesima situazione).
 Inoltrandosi nella partitura tuttavia Balfe approfondisce, sulla scorta dell'esempio zimmeriano, l'esplorazione del lato più severo, meditabondo e luttuoso in una sequenza di adagi per archi e pianoforte dal notevole impatto emozionale come “Let it rain”, “The ships are gathering” e soprattutto l'intensa “We could all help”, dove il piano distilla in solitudine il pacato tema principale fondato su gruppi di tre note discendenti di francescana essenzialità. Un'intensità che trova riscontro ulteriore nel caldo fraseggio del violoncello e nell'impasto sempre più denso degli archi di “Recovery” e “Purpose”, dove il tema già citato diventa una sorta di epicedio collettivo, confermando in questo compositore una personalità molto sensibile e attenta a cogliere le sfumature più riposte di un personaggio e di un'epoca non facili da ritrarre.
 Due approcci dunque, quelli di Marianelli e di Balfe, pressoché diametralmente opposti per stile e intenzioni, ma che finiscono per comporre – insieme alle altre score “churchilliane” già citate – l'affascinante puzzle psicologico di un uomo al quale l'Occidente libero deve ancor oggi moltissimo.

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