The Girl on the Train

cover girl on the trainDanny Elfman
La ragazza del treno (The Girl on the Train, 2016)
Sony Classical 8985375612
23 brani – Durata: 51’55”

Dove collocare oggi esattamente Danny Elfman? Il 63ene compositore più autodidatta di Hollywood sembra avere da tempo esaurito la propria spinta propulsiva, che lo ha mosso a dare il meglio di sé soprattutto tra gli anni '80 e '90 e per il cinema visionario di Tim Burton. Ma non solo per lui. Esplorando molto presto una vena alternativa a quella fiammeggiante, favolistica e rutilante delle sue partiture più note, Elfman ha coltivato anche un lato più sommesso, inquieto, “minimalista”, applicandolo spesso ad un cinema indipendente, antispettacolare, intimista e psicologicamente complesso (citeremo solo i film di Gus Van Sant). Una diversificazione, questa, di cui Elfman va legittimamente fiero e che lo ha portato negli anni più recenti a risultati di spicco (Promised Land, The Next Three Days, Il lato positivo e il recentissimo The Circle).

 Su questo fronte, tuttavia, assai più che su quello fantasy, il musicista sembra avere estremo bisogno di un'ispirazione qualitativamente elevata, ossia di film – e di autori – stimolanti, che ne sollecitino e solletichino le corde più nascoste, anticonvenzionali e delicate del comporre. In assenza di questi stimoli, “l'altro Elfman” fatica non poco ad elevarsi dalla mera routine, e finisce col somigliare pericolosamente a ciò che assolutamente non è: un compositore come tanti altri.
 Ora, il thriller che Tate Taylor ha ricavato dal fortunato bestseller di Paula Hawkins, interpretato da Emily Blunt, non può certo ascriversi alla categoria del cinema “d'autore”; e anche come prodotto “di genere” mostra più di qualche limite nella costruzione narrativa e nel tratteggio dei personaggi. Limiti che Elfman ha cercato con tutta evidenza di scavalcare velando la propria partitura con un alone di mistero reso attraverso l'ampio ricorso ad un'elettronica “dolce”, trasparente, accompagnata da un'orchestrazione (dell'habitué Steve Bartek coadiuvato da Edgardo Simone e Dave Slonaker, mentre a dirigere c'è l'esperto Pete Anthony) all'insegna dell'understatement, e che a qualcuno ha ricordato non a torto certe prove di Alexandre Desplat o dell'ultimo Thomas Newman.
 L'iniziale “Riding the train”, per esempio, declina subito le generalità timbriche dello score, in una tessitura elettronica di fondo sulla quale le percussioni innestano una ritmica sotterranea ma incessante, ossessiva, mentre in “Something's not right” il suono profondo e primordiale dei bassi confligge con un pianoforte preparato, l'elettronica e le chitarre, creando quella che Jonathan Broxton ha lucidamente definito un'atmosfera “allucinatoria e disorientante”. I due temi – anche se è arduo definirli tali - femminili, “Megan” e “Rachel” si contrappongono nettamente per struttura e carattere: il primo (che tornerà in “Touch myself”) vibra di una tenerezza luminescente grazie ad un sapiente dosaggio synt, mentre il secondo, minacciosamente ritmato dagli archi, ha connotazioni decisamente più sinistre. Ed è ancora l'ossatura ritmica a costituire l'aspetto più originale di brani come “3 women” (nelle cui accalorate armonie si riaffaccia l'Elfman drammatico che ben conosciamo),  “All fucked up” (dagli effetti percussivi “alieni” e disturbanti) e “The perfect couple/Password”, di suggestiva inquietudine nello svolgimento melodico; lasciando invece a pagine come la cupa, scandita “Wasted”, la magmatica “Missing time” o l'astratta “Uncertainty” il compito di rappresentare il versante più sperimentale e ardito della partitura, fra dissonanze temerarie ed effetti elettronici molto prossimi alla musica “concreta”.
 In un percorso psicologico che segue una parabola ben precisa, lo score elfmaniano sembra riconnettersi, in dirittura d'arrivo, ad un profilo psicologico più stringente. “Memory” riprende il tema di Megan arricchendolo di nuove vibrazioni con l'utilizzo congiunto di archi acuti ed elettronica, mentre in “Really creepy” il pianoforte preparato e appositamente scordato di un quarto di tono (come fece Henry Mancini in Gli occhi della notte, anno di grazia 1967...) si riappropria gradualmente dei propri centri tonali oltrepassando una barriera apparentemente invalicabile di suoni artefatti e minacciosi. La presenza della vocalità femminile, caratteristica inalienabile di Elfman, marca “Self defense” all'insegna di un lirismo onirico, celestiale; e ai conclusivi “Resolution” e “The girl on the train – Main titles” spetta il compito di chiudere la partitura riportando – nel primo – il pianoforte alla sua più morbida veste concertante, mentre l'inserimento della voce femminile sull'arpeggiare degli archi – sottolineati ancor più nel secondo - ci restituisce quelle atmosfere di metafisica impalpabilità cui Elfman ci ha così spesso abituati.
 Dunque non un lavoro indimenticabile, nella sua fattura pur sempre di levatura sopraffina, e che soprattutto lascia insoluto il quesito iniziale. Qual è oggi il posto di Danny Elfman nella musica per film contemporanea? Esiste un cinema abbastanza “grande”, fantasioso, sognatore, capace di scatenarne e accoglierne l'enorme talento?

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