Money Monster

cover money monsterDominic Lewis
Money Monster – L'altra faccia del denaro (Money Monster, 2016)
Sony Classical 88644587630
13 brani – Durata: 37'09”

Tra gli ultimi usciti dal cilindro senza fondo della Remote Control di Zimmer, l'inglese Dominic Lewis sembra tuttavia condividere ben poco dell'atteggiamento “bombastic” tante volte imputato al capostipite, e ai suoi numerosi imitatori. Anche perché in questo thriller economico grottesco e parossistico, interpretato da George Clooney e Julia Roberts, nonché quinta regia di Jodie Foster, la regista aveva espresso con molta chiarezza i propri desiderata: nessun sound hollywoodiano classico, sinfonico, bensì una partitura elettronica ossessiva, ironica, pungente ma lieve. Un sound, insomma, asettico e distaccato, ma penetrante e ipnotizzante.

Una sfida che Lewis, sotto la supervisione di Henry Jackman (altro luogotenente del Generale Hans), sembra aver raccolto con entusiasmo: “Opening bell” per esempio è esattamente la summa di quanto richiesto: un inciso fisso, un garbuglio di percussioni costruito per accumulo, effetti da discoteca, un sapiente dosaggio di altri ingressi timbrici che si intrecciano in un crescendo ben dosato e stroncato al momento giusto. Pura tavolozza techno, certo, ma pertinente e senza ambizioni sbagliate. Il giovane Lewis, del resto, si è già fatto le ossa con molta televisione mentre per quanto riguarda al cinema è un tipico prodotto dello Zeitgeist, dello spirito del tempo, dove tra Kung Fu Panda e Dragon Trainer tempo per riflettere a fondo su ciò che si scrive non ne rimane molto.
Ma il talento, quando c'è, non è acqua. E che Lewis ne abbia è fuor di dubbio, come si evince dalla sua capacità di sottrarsi ad un eccesso di stereotipi trasformando quel che potrebbe essere un armamentario prevedibile in acuta evocazione di atmosfere inquietanti. Così è per “Bear market” e soprattutto per “Triple buy”, ancora una volta pensato per stratificazioni successive di suoni, con un parco di percussioni continuamente in movimento e cangianti contrapposto ad accordi pacati e malinconicamente minori. Addirittura funereo, spettrale è poi “Molly”, forse la pagina che più di ogni altra somiglia ad un tentativo di costruire un meccanismo di psicologia musicale tradizionale, con l'insistenza sul registro grave dei suoni a suggerire un senso di crescente minaccia: senso che incombe anche su “Human error” e che progressivamente si dilata all'intero lavoro, non disdegnando effetti horror (“Outside world”).
In realtà è proprio la musica di Lewis a conferire al film quell'alone quasi astratto, simbolico, iper-realistico (e quindi surreale) che era negli intenti della Foster; un compito che prevede anche l'improvviso immobilizzarsi in lunghi pedali elettronici punzecchiati da note acute del piano o da effetti puramente rumoristici (“High frequency fraud”), ma in ogni caso rifuggendo dalla magniloquenza digitale in cui spesso molti compositori (specie di quell'area produttiva) sembrano rifugiarsi. Lewis sembra invece guardare quasi alla vecchia, “pauperistica” lezione di John Carpenter, con idee ficcanti, brevi ma appuntite (“Rallying market”) e alcune rare ma proprio perciò suggestive aperture liriche; con un indubbio culmine espressivo nel lacerante, bellissimo “Market crash”, che è una sorta di nenia funebre costruita su una penetrante melodia iniziale e poi su una successione di accordi pianistici sospesi nel nulla, quasi respiri nel vuoto che li circonda. Un'atmosfera più apparentemente liberatoria, o quantomeno distesa, si avverte in “Closing bell”, le cui sonorità sembrano irraggiarsi di un calore sino a quel momento sconosciuto, mentre il gioco a rimpiattino delle percussioni si fa scherzoso più che minaccioso; e la conclusione di “Global players”, con una serie di arpeggi mossi e un crescendo ottimistico ben calibrato, conferma che anche nella routine di un electronic score si possono conseguire risultati più che dignitosi, a patto di non lasciarsi prendere la mano dall'arroganza non meno che dai software.

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