Paris brûle-t-il?

cover parigi bruciaMaurice Jarre
Parigi brucia? (Paris brûle-t-il?, 1966)
Estratti da La notte dei generali, Il treno, Weekend Zuydcoote, La caduta degli dei
City of Prague Philharmonic diretta da Nic Raine
Tadlow Music TADLOW023
Cd 1, 23 brani – Durata: 68’53”
Cd 2, 17 brani – Durata: 73’13”

In sede di premessa è doverosa una confessione. Non siamo mai riusciti – personalmente – ad amare la musica di Maurice Jarre (Lione, 1924 – Malibu, 2009): e ciò malgrado appaia chiarissimo il ruolo importante che il compositore francese ha ricoperto nella storia della musica per film europea e non solo, anche e soprattutto grazie alla longevità della propria carriera e al fatto di essersi saputo aprire, nell’ultima parte di essa, alle più stimolanti e innovative esperienze sperimentali. Celebri, in tal senso, partiture come quella per Mad Max - Oltre la sfera del tuono (1985, George Miller e George Ogilvie) dove, grazie alla collaborazione con la musicista inglese Cynthia Millar, Jarre riportò alla luce le gloriose Onde Martenot, strumento antesignano di tutti i synt, inventate da Maurice Martenot nel 1928, quasi contemporaneamente allo strumento confratello del russo Lev Theremin, tanto amato da Miklós Rózsa.

Malgrado tutto questo, qualcosa nello stile, nel linguaggio, nelle scelte melodiche, nell’architettura complessiva degli score di Jarre non riesce a catturarci; ne trapela una sensazione di irrisolutezza, di sbrigativa approssimazione, di incertezza contrappuntistica non sempre compensata da efficaci procedure di “mickeymousing”. Jarre non possiede l’estro lirico, il polistilismo travolgente di un Legrand, ma nemmeno l’amore per la forma e la felicità melodica di un Delerue. Eppure, soprattutto negli anni ’60, questo maestro è stato tra i nomi più richiesti sulla scena internazionale, anche grazie al successo mondiale e squillante delle sue partiture per i kolossal di David Lean come Lawrence d’Arabia, La figlia di Ryan, Passaggio in India e soprattutto Il dottor Zivago. Dinanzi a queste smisurate fatiche sinfoniche, però, sembra pur sempre che le qualità di Jarre non risiedano tanto in una visione unitaria, “architettonica”, quanto in una continua frammentazione del discorso musicale, all’interno del quale però – è indubbio – emergono alcune idee portanti di forte impatto: più che al celeberrimo Tema di Lara per Zivago, che onestamente abbiamo sempre trovato insopportabilmente banale, si pensi all’ariosità epica ed evocativa del tema di Lawrence, o allo sviluppo di alcune idee relative al background etnomusicale (rispettivamente irlandese e indiano) delle partiture per La figlia di Ryan e Passaggio in India.
Specularmente a queste sensazioni acquistano invece maggior rilievo alcuni score di Jarre legati a film forse meno famosi e meno celebrati al botteghino: dal quale il musicista, va detto, grazie al proprio eclettico internazionalismo, è sempre stato molto gratificato, da Ghost a L’attimo fuggente, da L’uomo dei sette capestri a Witness il testimone eccetera. Jarre è stato infatti il compositore prediletto da un certo cinema “mainstream”, grandiosamente all-cast e dalle tonalità epiche, con speciale riferimento a film ambientati durante la seconda guerra mondiale vissuta da parte francese: genere nel quale, negli anni ’60, ha lavorato a Il giorno più lungo (1962, Aa.Vv.) e Parigi brucia? (1966, René Clement), ma anche La notte dei generali (1967, Anatole Litvak), Il treno (1964, John Frankenheimer), La caduta degli dei (1969, Luchino Visconti), Weekend a Zuydcoote (1964, Henri Verneuil).
Tutti titoli (eccezion fatta per il primo) che confluiscono ora in questo prestigioso doppio CD monografico che la Tadlow dedica ai parigini caduti per la liberazione dal nazismo nel 1944 ma idealmente anche alle vittime che la Ville Lumière ha dovuto registrare nel 2015 a causa del terrorismo jihadista.
Come ci ricorda nel ricco booklet di accompagnamento Frank K. DeWald, gli ultimi anni di conflitto videro in Jarre un testimone oculare allorché, ventenne, decise contro la volontà del padre, regista radiofonico, di abbandonare gli studi di ingegneria alla Sorbona e di iscriversi al Conservatorio di Parigi per studiarvi armonia e percussione. Proprio in quel ’44 Hitler, appena scampato all’attentato del 20 luglio a Rastenburg organizzato dal colonnello Von Stauffenberg e immortalato, tra gli altri, in Operazione Valchiria (2008, Bryan Singer, musiche di John Ottman), dava ordine di radere al suolo Parigi piuttosto che lasciarla in balìa dell’avanzata alleata. La vicenda, una ventina di anni più tardi, fu ricostruita nel bestseller dei giornalisti Larry Collins e Dominique Lapierre, sulla base di fonti dirette e testimonianze militari, assumendo come titolo appunto quel “Parigi brucia?” che era la domanda isterica con cui Hitler tempestava al telefono i propri ufficiali per sapere se il suo ordine era stato eseguito.
Già nel ’66 il libro era divenuto una sceneggiatura a moltissime mani, dove spiccano quelle di Gore Vidal e di un giovane Francis F.Coppola e la cui struttura è smisuratamente corale, comprendendo quasi 100 personaggi e uno stuolo di star americane ed europee da capogiro. Il produttore Paul Graetz chiamò a governare la materia il regista René Clément, che nel ’51 era assurto a fama internazionale con Giochi proibiti, e si impegnò particolarmente affinché le locations fossero quanto più possibili quelle dove si erano svolti i fatti reali, ossia Parigi: protagonista e sfondo, eroina e vittima di una delle pagine più terribili e luminose della lotta per la libertà.
La scelta di Jarre fu quasi obbligata, stante la fama che il compositore aveva ottenuto con Il dottor Zivago e Lawrence d’Arabia (entrambi gli erano valsi l’Oscar), ma per il maestro si trasformò subito in un fatto personale, in un’occasione memorialistica: «un modo – dichiarò – per sdebitarmi con tutti quei miei amici e quelle persone che hanno dato la vita perché oggi Parigi possa essere una città libera». Scritta di getto, in meno di un mese, la partitura ha goduto di un’immediata fortuna discografica (sin da un lontano LP CBS del ’66 contenente due ampie suites), come ben illustra il produttore di questa ristampa James Fitzpatrick, anche per la presenza di una canzone divenuta una sorta di secondo inno nazionale: quella “Paris en colère” che, su testo di Maurice Vidalin (“Que l’on touche à la liberté/Et Paris se met en colère”) e grazie all’imperiosa voce di Mireille Mathieu, l’erede di Edith Piaf, domina tematicamente l’intero score, per lo più in versione “musette” ossia affidata alla fisarmonica in uno scanzonato e ammiccante tempo di valzer. Il tutto è stato affidato alle cure della City of Prague Philharmonic sotto la bacchetta, rigorosa e attentissima nel gestire la vasta materia, di Nic Raine (già amico e collaboratore di Jarre), protagonisti sette anni fa di una memorabile riedizione di Lawrence d’Arabia.
L’organico prevede uno stuolo di percussioni e un’armata di pianoforti (dodici! In questa versione ottenuti moltiplicandone una coppia per tot volte): due sezioni dedicate soprattutto alla presenza dell’invasore nazista, caratterizzato anche da un tritono aumentato di altri intervalli, ed oggetto (”Ouverture” e “Prelude/Main title”) di una marcia brutale e schiacciante, squadrata nel rimpallo antifonale dei timpani ma sovrastata dall’esposizione, quasi pettegola, di “Paris en colère”… Alla Resistenza spettano invece ben tre marce (“Aux barricades/A plea for Paris/Fighting in the streets”), diversamente ripartite e strutturate e dominate da un tema principale un po’ spaccone e trionfalistico. Sembra quasi che Jarre riservi il meglio, in termini musicali, al nemico, se non altro in termini di ricchezza strutturale e inventiva timbrica (“Warsaw newsreel”), lasciandosi andare altrove a quel pompierismo un po’ mordi e fuggi che è uno dei limiti principali della sua vena creativa (si ascolti anche l’”Entr’acte”). Per converso, l’abilità nell’incorporare materiali preesistenti ed eterogenei, come i cenni alla Marsigliese ma anche a “Yankee Doodle Dandy” e “The star spangled banner”, è fuori discussione: così come, nelle pagine più drammatiche (“Plans for destruction of Paris”, con morbidi accordi di archi stesi sul rullo di tamburi) e spiccatamente belliche spunta persino una reminiscenza dal celebre, grandioso e opprimente primo movimento della Settima Sinfonia di Shostakovich, dedicata alla resistenza russa di Leningrado. Particolarmente efficace – anche se prevedibile - Jarre si dimostra poi nella netta divaricazione timbrica fra i tedeschi, dipinti a suon di clangori percussivi e dissonanze pianistiche, e i parigini resistenti, accarezzati da dolci melodie da Rive Gauche che evocano brasseries con tovaglie a quadretti e bancarelle di libri usati sul LungoSenna (“Finale – Paris liberated”).
Probabilmente anche per la maggiore rarità dal punto di vista editoriale, il secondo CD Tadlow riserva un interesse più spiccato. Per quanto riguarda il film di Clément esso contiene infatti la riesecuzione della struttura in due suites più Ouverture e Paris Waltz cui accennavamo sopra: una sintesi che sembra quasi giovare all’unitarietà della partitura. A ciò si aggiungono due versioni di “Paris en colère”, una affidata alla voce di Mélinda Million, che certo non è la Mathieu ma si appropria pur sempre della canzone con sufficiente autorevolezza, l’altra al coro praghese diretto da Miriam Nemcova.
Ma le “chicche” stanno altrove. Per esempio nella suite da La notte dei generali, fosco thriller ambientato tra Varsavia e Parigi che aveva per protagonisti Peter O’Toole nei panni di un ufficiale nazista psicopatico e femminicida e Omar Sharif in quelli del poliziotto militare che lo bracca: partitura già oggetto nel lontano 1990 di un Intrada con la New Philharmonia sotto la direzione dell’autore. L’elemento bizzarro e innovativo del film era ovviamente quello di immaginare una caccia ad un serial killer dentro un esercito che era di per sé un immenso serial killer; Jarre colse perfettamente il lato disturbante della vicenda in un tema demenziale di cinque note, ripetuto più volte su vorticosi ostinati dei flauti e un ritmo demoniaco di valzer: più convenzionale, anche se a contrasto, appare il Love theme dedicato all’amore tra il giovane caporale Tom Courtenay e la figlia del generale Joanna Pettet; ma il tema del generale pazzo torna con pesantezza ruvida in “Lieutenant General Tanz” (ossia “danza”: grottesco nomen omen?) per affievolirsi poi in un grottesco, penetrante valzerino in “On the terrace at Versailles” e chiudersi in una “March” al solito brutale ma nella cui coda c’è ancora spazio per il ballabile da squilibrato del protagonista.
Il treno, prodotto e interpretato da Burt Lancaster negli eroici panni di un ferroviere che si batte per impedire ai nazisti di trafugare i capolavori del Louvre, è invece un prodotto decisamente più “resistenziale” e apologetico (anche qui si registra una versione “original” del 2007 edita da Film Score Monthly e accoppiata a Il ponte di Remagen, 1969, John Guillermin e musiche di Elmer Bernstein): qui Jarre lavorò soprattutto sui fiati, come nella marcia introduttiva dopo l’incipit percussivo, affidata a sax tenore, fagotto e piano nel registro grave; ed anche in “Papa Boule”, descrivente l’anziano ferroviere interpretato da Michel Simon che si sacrifica per la causa, accompagnato da un motivo beffardo e di riscossa che si allaccia idealmente alla malinconica nenia per fisarmonica di “Dénouement”. Ma è in “The hub” che, come ebbe a scrivere sul NYT Bosley Crowther (uno dei pochi grandi critici cinematografici attenti al lato musicale) e come ricorda DeWald, Jarre sembra ricordarsi di un illustre precedente in materia di treni e musica, ossia il movimento sinfonico “Pacific 231” di Arthur Honegger, composto nel 1923 in onore di una locomotiva che al compositore svizzero piaceva evidentemente molto…
Tra vicende intime e tragedie della storia si situa Weekend a Zuydcoote (noto anche come “Weekend a Dunkirk”), storia dell’impossibile amore tra un soldato francese (Jean-Paul Belmondo) e una ragazza (la non ancora ventenne Catherine Spaak) su quella spiaggia che di lì a poco, nel giugno del ’40, sarebbe stata il teatro di una delle più importanti e aspre battaglie fra tuppe naziste e anglofrancesi (sull’argomento si attende a breve il kolossal Dunkirk di Christopher Nolan): nella suite qui presentata (l’unico precedente è un vinile in formato EP dell’anno di grazia 1964!) Jarre ricorre ancora a un carezzevole tempo di valzer, violentemente interrotto dall’incursione dei timpani, in un’alternanza tra lirismo e ferocia che sembra essere il “logo” ricorrente di questo genere di sue partiture. Nessuna alternanza, invece, negli urticanti “Opening titles” de La caduta degli dei, in cui Visconti descrisse in parallelo all’ascesa del Terzo Reich le torbide, infernali vicende di una famiglia tedesca di industriali fra tentazioni incestuose, follia e pulsioni di morte: qui, a dispetto del titolo (enfatizzato nella versione inglese dal sottotitolo “Götterdämmerung”) non c’è proprio nulla di eroicamente wagneriano. Nella partitura del maestro francese (preziosa l’edizione della GDM Music nel 2007) spira un’atmosfera dark e morbosa, senza speranza: un lato oscuro in cui Jarre sembrava essere quasi più a proprio agio che in tante un po’ banali pagine melodiche. Addirittura, in questo breve, aspro movimento sinfonico, fa capolino – per stessa ammissione del compositore – una specie di parafrasi distorta, sfigurata e corrosiva del suo arcinoto Tema di Lara: un contrasto evidentemente ricercato, avente per oggetto una pagina che se da un lato aveva dato notorietà internazionale al compositore, dall’altro doveva evidentemente sembrargli troppo limitante e ossessionante.
Se ci permettete, una volta tanto, una notazione apparentemente frivola ma non troppo: suggeriremmo alle case discografiche di curare un po’ meglio e con un po’ più di senso pratico la fattura delle confezioni di CD, quando queste ne contengano due: ciò allo scopo di evitare l’ineluttabile rottura delle medesime, e le conseguenti imprecazioni da parte dell’acquirente. Grazie.

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