Evan Almighty

Un'impresa da DioJohn Debney
Un'impresa da Dio (Evan Almighty, 2007)
Varèse Sarabande 302 066 825 2
16 brani – Durata: 48'59"

Sequel della commedia di grande successo del 2003 con Jim Carrey, Un'impresa da Dio ricicla premessa e parte del cast del film precedente (il bravo Steve Carrell aveva un divertente ruolo di secondo piano e qui viene promosso a protagonista, mentre Morgan Freeman ritorna nel ruolo del padreterno), gonfiando ancora di più il budget e le velleitarie pretese. Il compositore americano John Debney (La Passione di Cristo) torna ad occuparsi della partitura, stavolta decisamente più improntata sulla grandeur sinfonica (che, tutto sommato, ancora tanto piace ai produttori) rispetto al capitolo precedente.

Se infatti Una settimana da Dio necessitava di un poco più che diligente esercizio di moderno comedy scoring hollywoodiano, nel caso di questo sequel Debney ha potuto perlomeno lavorare su una tavolozza orchestrale apparentemente più “muscolare” e variegata. Sulle prime battute, sembrerebbe che il compositore colga con il giusto spirito ironico la cornice “biblica” del film, mimando con simpatia la prosopopea dei commenti sinfonici dei peplum alla Cecil De Mille (“The Ark Theme”), con tanto di coro celestiale e cromatismo nella linea melodica. L'illusione dura però solo fino alla fine della prima traccia: stiamo pur sempre parlando di una moderna commedia hollywoodiana che vuole, oltre che far ridere, anche stupire con effetti speciali digitali e lasciare allo spettatore medio un po' zoticone il proverbiale “messaggio” (in questo caso in chiave pseudoecologista) come morale della favola. E dunque, Debney si trova soprattutto a dover svolgere il ruolo di commentatore onesto ma piuttosto incolore, di situazioni ed atmosfere ora sinfoniche (“Genesis 6:14”), passando per il mickeymousing da commedia (“Evan Runs from Capitol”), senza dimenticare i buoni sentimenti dal sapore un po' new age alla James Horner (“Evan's Theme”, “Evan & God”). Qua e là affiora qualche buon guizzo (come ad esempio la concitata stretta alla Danny Elfman in “I''m Noah”), ma non è tuttavia sufficiente a elevare lo score al di sopra di una pur diligente media. Quel che forse lascia maggiormente interdetti è che, salvo rare eccezioni, sembra non esserci alcuna differenza di stile (o, peggio, di intenti) con la colonna sonora di un qualunque prodotto medio da studios, tant'è vero che in molte pagine (“Take It Down”, “The Flood”) potremmo tranquillamente essere di fronte allo score dell'ultimo film action con Keanu Reeves o alla nuova partitura di un fantasy della New Line. Non ci sentiamo di imputare tutta la colpa all'anonimato stilistico di un buon artigiano come John Debney: registi e produttori con molto denaro ma poca creatività sono i primi responsabili dell'appiattimento creativo che vige nelle attuali colonne sonore hollywoodiane. Inutile sottolineare la solita impeccabile fattura tecnica della partitura, anche perchè ormai dai professionisti di Los Angeles non ci si aspetta niente di meno.

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