X-Men: The Last Stand

cover_x-men_the_last_stand.jpgJohn Powell
X-Men: The Last Stand (X-Men 3, 2006)
Varèse Sarabande VSD-6732
27 Brani – Durata: 61’40’’

 

Davvero difficile pronosticare che le musiche per il terzo franchise di X-Men avrebbero sollevato una riflessione sui massimi sistemi del film-scoring contemporaneo. Forse la scontata fiducia accordata all’outsider inglese della nuova vague musicale hollywoodiana – incapace finora di deludere - forse l’emergenza sempre più tangibile di uno svecchiamento delle omologanti retoriche stilistiche di un genere che inizia anch’esso a fare i conti con la propria sudditanza nei confronti del target fruitivo di riferimento, avevano proiettato aspettative facili e ingenue; ma certo più che giustificabili. John Powell aveva a tutti gli effetti le possibilità di smaltare con il suo tocco tonico e trascinante anche il frangente fumettistico dell’action d’oltreoceano, ormai preoccupantemente assoggettato al modulo elfmaniano - e le già diversificate cifre susseguitesi nei primi due episodi (il primo servito da una prova complessivamente troppo professionale di Michael Kamen, il secondo da un buon esito di John Ottman) lasciava fertile terreno a nuove sonorità senza particolari vincoli a citazioni tematiche o a soluzioni scaramanticamente inviolabili – un’atmosfera di emancipazione ulteriormente favorita dal passaggio del testimone registico da Bryan Singer a Brett Ratner. E non si può certo dire che in questo Powell non si sia adoperato con efficacia, approntando un fondamentale bitematismo articolato sull’immancabile tema portante d’impronta marciante per il gruppo di supereroi mutanti (“Bathroom Titles”) e un più personale motivo d’amore per la drammatica digressione sentimentale al centro di questa nuova avventura (“Whirlpool Of Love”). Ma anche archiviando il citazionismo frontale del primo nei confronti del John Williams di Superman (il telaio ritmico è praticamente ricalcato sulla fanfara del capostipite di genere) come cosciente tributo ad una lezione imprescindibile, l’appeal stilistico del compositore di The Bourne Identity non va’ molto al di là della seconda invenzione. Latitanti sono le disinvolte risorse ritmiche fondanti il suo passato repertorio, le serrate e luminose scritture violinistiche, la germinante apertura alle modalità esotiche, l’andamento danzante tipico degli estratti più sostenuti. In definitiva tutto l’intelligente glamour a cui l’inglese ci aveva abituati senza sacrificare la cura timbrica, la densità armonica e il sagace atteggiamento orchestrale. Stilemi, questi ultimi, che pur balenando a tratti (“Angel’s Cure”, “Dark Phoenix’s Tragedy”, punta di diamante dello score) risultano stavolta inaspettatamente soffocati da un’architettura sinfonica di collaudata funzionalità blockbusteriana davvero difficilmente riscontrabile nella pregressa filmografia dell’artista. E’ il problema principale del lavoro, che ne rivela un altro di valenza più generale: perché piuttosto che dichiarare una maturazione orchestrale (o piuttosto, letta in questi termini, un’omologazione) la scrittura accomandante (e, nel caso di Powell, retrograda) svela un vizio a priori comune all’intera filiera hollywoodiana, una volontà produttiva incerta e insicura sempre più solita al riparo nei modelli comprovati a suffragio di gradimento popolare. E i riferimenti espliciti si affacciano sovente a ribadire quanto il compositore sia stato imbrigliato e indirizzato verso le battenti pagine del Van Helsing di Silvestri (“Fight In The Woods”) e le mastodontiche costruzioni à la Don Davis (“Attack On Alcatraz”); il tutto fasciato in un’esoscheletro elfmaniano che sviliscono la brillante grafia powelliana in favore di uno scolastico manierismo. Il compositore che più di altri ha dettato mode e imposto i trend sonori del post-modernismo cine-musicale paga anche lui pegno alla standardizzazione del mainstream vigente.
Ecco allora la difficoltà di valutazione che chiama in causa l’eterno dilemma funzionalità-originalità della partitura, che calza benissimo allo score di The Last Stand, composizione di indubbia efficienza sulle immagini (nonostante tutto la migliore finora originata dalla saga Marvel) ma di dubbia valenza in prospettiva al cammino autoriale di Powell. Simile ambivalenza anche all’esame disgiunto: ineccepibile sinfonismo corale (un elemento comunque da non sottovalutare considerando che il musicista è alla sua prima, vera e propria esperienza in tal senso), che per ricchezza garantirà numerosi motivi di soddisfazione agli appassionati, ma anche poca longevità per un disco che infastidirà la crescente schiera di estimatori powelliani a causa del costipante allineamento formale. Una prova di servizio che, con molta probabilità e sentito auspicio, il compositore non tarderà a riscattare. Sistema-Hollywood permettendo.

 

 

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