Curiosità musicali e riflessioni dalla Berlinale 2015

Curiosità musicali e riflessioni dalla Berlinale 2015

Con l’assegnazione dell’Orso d’Oro al film Taxi del regista iraniano Jafar Panahi il 14 febbraio è calato il sipario sulla Berlinale 2015 in un’edizione numero 65 assolutamente prestigiosa che si era aperta il 5 dello stesso mese con Nadie quiere la noche della regista catalana Isabel Coixet musicato dal compositore spagnolo Lucas Vidal.  
Erano molti i film di alto livello artistico chiamati a contendersi i vari premi previsti dalla rassegna. In particolare sono tre i titoli che a nostro avviso hanno particolarmente onorato questa edizione del festival: The Knight of Cups di Terence Malick, inspiegabilmente uscito a mani vuote, Body di Malgorzata Smukowska (Orso d’argento per la migliore regia) e Under Electric Clouds (Orso d’argento per speciali meriti artistici: fotografia) di Aleksej German Jr..
Proprio al complesso, profondo e affascinante lavoro del grande regista russo, a nostro avviso, sarebbe dovuto andare anche l’Orso d’Argento del Gran Premio della Giuria assegnato invece al comunque interessante El Club del cileno Pablo Larrain.

berllinale_2015_malick.jpgL’Italia è stata rappresentata da Vergine Giurata di Laura Bispuri al debutto nel lungometraggio e con Alba Rohrwacher grande protagonista.
Dal punto di vista musicale i grandi climax erano soprattutto due.
Innanzitutto il film muto Varieté realizzato nel 1925 dal regista André Ewald Dupont e riproposto in edizione restaurata con una nuova partitura eseguita dalla band The Tiger Lillies e di cui abbiamo già riferito nel nostro reportage.
L’altro atteso appuntamento era quello del nuovo film di Wim Wenders, Everything Will Be Fine, presentato fuori concorso e caratterizzato dalla nuova collaborazione artistica fra il regista tedesco e il compositore francese Alexandre Desplat.
Come spesso avviene nelle grandi attese il risultato è apparso nell’insieme deludente. Il film di profondi contenuti che ruotano intorno al tema del tempo e del perdono presenta un cast eccelso che include James Franco, Charlotte Gainsburg e Rachel McAdams. Sicuramente di buon livello artistico, il lavoro presenta una sceneggiatura a tratti debole che evidenzia cali di tensione espressiva e narrativa e  rimane quindi a nostro avviso lontano dalle  grandi precedenti realizzazioni come Alice nella città, Il cielo sopra Berlino, The Million Dollar Hotel o Palermo Shooting, che hanno caratterizzato il percorso artistico del regista tedesco cui la Berlinale ha Conferito  l’Orso d’Oro alla carriera e dedicato un’ampia retrospettiva dei suoi lavori.
Per me è importante che l’immagine del mondo abbia degli spazi vuoti che si possano riempire e nel cinema la musica  è per me proprio il vento che soffia fra gli spazi vuoti che lascio fra le immagini….(1)
Dopo esperienze musicali eterogenee con esisti quanto mai suggestivi (citiamo fra gli altri la band tedesca Can, Juergen Knieper, Ry Cooder, Bono e Brian Eno) Wenders questa volta opta per uno dei compositori più apprezzati e premiati nell’universo dell’ottava arte creando una giustificata attesa e curiosità.
La scrittura di Desplat presenta uno spiccato taglio sinfonico con un’architettura che poggia su lunghe linee armoniche e denso spessore sonoro che evoca suggestive atmosfere nordiche, con richiami a Grieg e Sibelius ma anche agli estoni Arvo Paert e Lepo Sumera. Come un bel vestito male tagliato per la figura che lo indossa, la musica di Desplat  trasmette l’impressione di una certa fatica a rapportarsi con le immagini, risulta a tratti invadente e lontana dalla dialettica introspettiva dei personaggi e, anche per via di un montaggio non ideale, finisce nell’assolvere un ruolo prevalentemente esornativo.
In generale l’edizione 2015 della rassegna berlinese ha in qualche modo confermato una certa  tendenza alla rinuncia o al contenimento del commento musicale per scelta registica o motivi di budget.
Segnaliamo comunque le musiche composte da Bruno Coulais per la sconcertante trasposizione filmica del romanzo di Octave Mirbeau, Journal d’une femme de chambre, firmato da Benoit Jacquot e da Klaus Badelt per Queen of the Desert di Werner Herzog con Nicole Kidman protagonista nel ruolo della scrittrice e storica inglese Gertrude Bell con il suo coinvolgimento negli avvenimenti storici del Medio Oriente agli inizi del ventesimo secolo.
Nel geniale Taxi di Jafar Panahi, insignito con l’Orso d’Oro, così come nel bellissimo Body di Malgorzata Szumowska, Orso d’Argento per la migliore regia,  la musica risulta praticamente assente.
tax_berlinale_2015.jpgInterrotta da anni la collaborazione con Michael Nyman, il nuovo film di Peter Greenaway Eisenstein in Guanajuato, sulla sfortunata trasferta compiuta in Messico nel 1931 dal famoso regista sovietico Sergej Eisenstein, non presenta un’aspetto musicale di particolare interesse.
45 Years di Andrew Haigh con la sempre eccelsa Charlotte Rampling si limita ad alcune citazioni tratte dal “Concerto in la minore” per piano di Grieg , alla “Romanza in re bemolle maggiore”  per piano di Sibelius e alle hits “Smoke gets in your eyes” nella celebre versione dei The Platters (1958) e “Young Girl”  interpretata da Gary Pukett and The Union Gap (1968).
Le dure e crude immagini del coinvolgente dramma giovanile di Andreas Dresen Als wir traeumten (Quando sognavamo), trasposizione filmica dell’omonimo romanzo di Clemens Meyers ambientato nei giorni della caduta della DDR, sono principalmente percorse da un’adeguatamente aggressiva techno music ben associata allo spirito della sceneggiatura.
Un film che ci ha profondamente colpito è Under Electric Clouds (Pod electricheskimi oblakami) di Aleksej German Jr, Orso d’Argento per meriti artistici speciali (Fotografia).  La musica scritta da Andrey Surotdinov rimane in introspettivo sottofondo e si limita a brevi interventi affidati alla voce di un flauto, immergendosi in modo superbo nella carica metafisica dell’apocalittica ‘endzeitstimmung’ che avvolge un palcoscenico incompiuto posto in un ambito naturale incantato, ora abbandonato alla rovina umana e in un contesto storico a noi vicino, in radicale cambiamento e in angosciante instabilità dove ogni riferimento e certezza appaiono irrimediabilmente smarriti. Qui si muovono, arrivano, partono, si cercano, si incrociano, si scontrano, si uniscono e riuniscono varie figure alla ricerca della propria identità e della propria anima.
Il palcoscenico incompiuto evoca in un certo modo l’idea della zona tarkovskiana e si allaccia idealmente e assurdamente al pianeta Arkanor immerso nella devastante bestialità dei suoi abitanti tratteggiato con dirompente crudezza nel film Hard to be a God (Trudno byt bogom, 2013) ispirato all’omonimo romanzo dei fratelli Strugatzki e realizzato in dodici anni di riprese dal padre Aleksey Jurevich German (1938 - 2013), scomoda figura dell’universo cinematografico sovietico.  
Dalla lacerante e straziante crudeltà sanguinaria del pianeta ideato dalla geniale fantasia dei Fratelli Arkadi e Boris Strugatzki il concetto di zona si trasforma in maniera netta nella trasfigurazione poetica di uno scenario surreale avvolto nella nebbia e nella neve, punteggiato da statue spettrali e dominato da uno sconfinato lago ghiacciato. Mentre il pianeta Arkanor dei fratelli Strugatzki e di Aleksey Jurevich German rimandava al disfacimento morale, intellettuale e spirituale di un’Unione Sovietica allo sbando, il figlio  Aleksey Alekseyevich concepisce la sua zona come luogo dell’anima che impone all’essere umano una riflessione esistenziale in rapporto a un futuro quanto mai arduo e incerto che può essere affrontato solo con la forza della fede, della speranza e della solidarietà.
Non ha bisogno di musica questa superba realizzazione filmica in quanto le sue immagini la trasmettono da sole allo spettatore nella propria immanenza e nella sua grandiosa concezione teatrale in forma di una suggestiva pièce di tanztheater in sette movimenti che affascina e colpisce nel profondo.
under_electric_ clouds.jpgUn altro film di elevato spessore ci è parso The Knight of Cups di Terence Malick. Anche questo lavoro si presenta come una straordinaria parabola esistenziale dalla penetrante carica spirituale avvolta nell’incanto di immagini imponenti e poetiche che coinvolgono fortemente lo spettatore nella lacerazione interiore in un’amletica dialettica dell’apparire o dell’essere del romantico protagonista Rick (Christian Bale), star inserita negli ingranaggi del vuoto e superficiale glamour hollywoodiano dove è arrivato spesso accompagnato da contrastati rapporti con il padre e con il fratello e dove la sua vita è attraversata da varie donne, mentre tenta una via d’uscita alla ricerca di un confronto con la propria anima.
Le suggestive immagini del film di Malick sono portatrici di grandiosi contrasti fra le eleganti e avvenenti architetture di Los Angeles e le sue appendici marine come Santa Monica e Marina del Rei e l’arcaica e mistica bellezza dei paesaggi naturali californiani.
Dopo aver collaborato con Alexandre Desplat per la musica de L’albero della vita, nel successivo lavoro To the Wonder Malick si è affidato al compositore neozelandese Hanan Townshend che ritroviamo ora nel nuovo film presentato nella capitale tedesca.
Inizialmente si era anche parlato di una collaborazione con la grande compositrice greca Eleni Karaindrou che poi purtroppo non ha avuto concretizzazione.
Riteniamo che il linguaggio intenso, coinvolgente e nostalgico della Karaindrou avrebbe trovato ideale aderenza nello spirito di un film carico di rimandi a grandi maestri del cinema come Tarkovskj, Sokurov e soprattutto Anghelopoulos, con cui la compositrice greca ha a lungo lavorato.
Diciamo subito che il soundtrack nella sua complessa articolazione, pur presentando alcuni momenti di scontata banalità, colpisce nell’insieme per la sua funzionalità e capacità di rapportarsi con la forza narrativa del film e il suo perfetto montaggio in adeguata simbiosi con le immagini e in sorprendente equilibrio con i dialoghi. Dominano gli archi nel taglio sinfonico di una trama sonora volta a creare un’atmosfera rarefatta ed espressiva con accenti che spesso evocano paesaggi nordici. Accanto a due brani di Townshend si susseguono pezzi tratti da importanti lavori di  compositori appartenenti a epoche diverse, dal barocco di Corelli fino alle band Sleep Good e Biosphere. La “Canzone di  Solveig”  dal Peer Gynt di Grieg assume una funzione leitmotivica, circondata da una scelta di pezzi molto cinematografici come le “Variazioni su un tema di Thomas Tallis”  e “The Pilgrim’ s Progress”  di Ralph Vaughan Williams, il “Silouan’s Song”  per orchestra d’archi dell’amato compositore estone Arvo Paert di cui risuonano anche il “Miserere” e la “Sinfonia n. 4 ‘Los Angeles’” per archi e percussioni e “Sirenes” dai “Notturni” di Debussy. Ottima la scelta di inserire anche le avvolgenti e serene modulazioni armoniche di “Exodus” di Wojchiech Kilar, importante compositore polacco spesso al fianco di grandi registi come Polanski e Kieslowski. Non molto originale invece il ricorso alla splendida “Sinfonia n. 3  ‘Symphony of Sorrowful Songs’ “ del conterraneo Henryk Gorecki, utilizzata tra l’altro di recente anche  nella colonna sonora del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Lo stesso discorso vale per il “Miserere” di Arvo Paert, inserito nel soundtrack dal Maestro Franco Piersanti per accompagnare la sequenza finale e i titoli di coda di Habemus Papam di Nanni Moretti.
A questo punto penso sarebbe necessaria una riflessione da parte dei registi e musicisti nel valutare gli inserimenti in soundtrack basati su compilazioni di diversi autori. Sono tanti i compositori interessanti cui si potrebbe ricorrere quando mancano le condizioni per commissionare una nuova partitura originale. Pensiamo solo alla schiera dei finlandesi tra cui citiamo Aulus Sallinen, Magnus Lindberg, Esa-Pekka Salonen oppure – se vogliamo limitarci all’area baltica – anche il lettone Peteris Vasks o la lituana Raminta Serksnytè. Alcuni brani eccessivamente sfruttati nel grande schermo rischiano di perdere il loro impatto emotivo e la loro efficacia come sta forse già avvenendo con la “Sinfonia n. 9 op. 125” in re minore di Beethoven e alcuni lavori di Arvo Paert potrebbero andare incontro  allo stesso rischio.

(1) Carlo Truppi  Nei luoghi dell’anima con Wim Wenders, Edizioni della Meridiana, Firenze 2007

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