The Lost World: Jurassic Park

Michael Giacchino
The Lost World: Jurassic Park (Id., 1997)
SIR Digital
19 brani – Durata: 56’ 15’’

Correva l’anno 1997 quando in concomitanza con l’uscita dell’omonimo film di Steven Spielberg – sequel di Jurassic Park – veniva lanciato il primo videogioco con colonna sonora interamente orchestrale. Il primato si deve allo stesso regista che, impressionato dai demo di un giovane Michael Giacchino, ordinò che la score per il videogame tratto dal film fosse eseguita da strumenti “dal vivo” e non da programmi synt come inizialmente stabilito. Non c’è da biasimarlo: il risultato è sorprendente per come in esso viene rielaborata la lezione williamsiana – in una sintesi da provetta ai limiti della caricatura – ma oggi è interessante soprattutto perché preannuncia alcune caratteristiche del Giacchino “cinematografico”.

Sono già qui l’immediatezza del materiale tematico, il sound vivido in cui spiccano di frequente i registri alti, la particolareggiata scrittura per percussioni, le improvvise esplosioni avanguardistiche, la tendenza alla demistificazione parodica. Certo, non ci si deve aspettare la carica eversiva e insieme la compattezza di partiture come quella per Star Trek Beyond o per la sua seconda committenza “giurassica”, Jurassic World (2015): la struttura a quadri, propria del videogioco, deve aver limitato non poco il compositore; ma non deve parimenti sfuggire la freschezza del lavoro, la cui riuscita – insieme al rapporto, iniziato nel segno della stima, con Spielberg – ha probabilmente causato il decisivo ingresso di Giacchino nel mondo del cinema.
La fanfara iniziale agli ottoni (“Into The Trees”), solcata da ostinati ed abbellita da virtuosismi di archi e legni, risalta già per semplicità e immediatezza; altri motivi sono introdotti nella successiva “The Forest Explodes”, tra cui quello forse più memorabile dell’opera, intonato dai contrabbassi nelle prime battute – e che tornerà, citato brevemente, nella score per Jurassic World – mentre “Base Camp Rampage” incupisce significativamente i toni, attraverso aggressive figurazioni di archi e ottoni – nervose come nel miglior Giacchino – e la presentazione di un tema di discreta carica tensiva. “The Canyon Brigade” parte all’insegna della suggestione fantastica, con i disegni acuti degli archi, ma poi regala un motivo per ottoni e archi (preannunciato dai legni) che sembra una parodia della marzialità oscura di Patton, generale d’acciaio. Fin qui la musica ricorda più Elfman e Goldsmith che non John Williams, e dunque chi ha visto nel Giacchino degli esordi soltanto un fedele emulo del maestro newyorkese deve essere incorso in un abbaglio tremendo, in un errore critico che ha impedito oltretutto di cogliere la tensione di base che agitava già queste prime prove, ovvero quella tra un’anima retrò, ravvisabile nell’orchestrazione lussureggiante e nel tematismo fluente, e una spiccatamente modernista, incarnata dalla stringatezza meccanica, si direbbe quasi burattinesca, dei motivi e in generale del discorso musicale; è un’ambivalenza evidente non solo nel rutilare avventuroso, decisamente predominante, ma anche nei frangenti più tetri, come in “The Sulfur Fields”, dove il ricorso agli stereotipi della fantasy-music (i cori elfmaniani, le maestose modulazioni armoniche) tradisce una malcelata vena dissacrante, o in “Laboratory Hunt”, in cui la scrittura si complica parossisticamente (glissandi di violini, pianismo d’avaguardia); ancora echi goldsmithiani nella scansione degli ottoni di “Climbing the Tower”, che poi presenta un altro tema; la ricca inventiva del compositore deflagra anche nella successiva “Aisle of Giants”, con un motivo di brillante orecchiabilità. Arrivano inattesi i vertici dissonanti di “Dinosaur Graveyard” (e poi il ritorno del tema di “The Forest Explodes”, su uno sfondo sonoro davvero inquietante), e sullo stesso climax si innesta “Welcome Mr. T-Rex”, dominata da trilli, rapidi arpeggi, staccati gravi del piano e in generale da una scrittura molto densa e concitata; veloci ribattuti di ottoni introducono “Break for Freedom”, che deraglia in un magma di glissandi e pizzicati per poi tornare ad atmosfere di tensione più convenzionali. Queste ultime dominano il resto della partitura (“San Diego”; “The King’s Lair”, con coro e glissandi; il tema e le modulazioni di “Raptor Wasteland”), ma chi ha pazienza di arrivare fino in fondo verrà ripagato da “Enter Carefully”, con un inciso per archi e ottoni e un uso di strumenti a percussione che precorrono il suo lavoro per Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie, e da “Primordial Forest” che, dopo la ripresa del tema di “Aisle of Giants”, si estende in una crestomazia di ritmi tribali e conclude con un’ironica marcetta.
Sarà meglio non lasciarsi sfuggire questo capitolo della carriera di Giacchino, se si vuole studiare la “preistoria” di uno stile unico cui già agli inizi l’etichetta di “nostalgico” andava decisamente stretta.

Stampa