Utopia & Utopia² & Humans & Humans, Season 2 & 3

Cristobal Tapia de Veer
Utopia (Id., 2013)
Silva Screen Records SILCD 1437
28 brani – Durata: 75'24”

Cristobal Tapia de Veer
Utopia² (Id., 2014)
Silva Screen Records SILCD1463
CD 1, 7 brani – Durata: 38'17”
CD 2, 10 brani – Durata: 45'20”

Cristobal Tapia de Veer
Humans (Id., 2015)
Silva Screen Records SILCD1498
CD 1, 12 brani – Durata: 45'16”
CD 2, 10 brani – Durata: 37'52”

Sarah Warne, Cristobal Tapia de Veer
Humans, Season 2 & 3 (Id., 2016-2018)
Silva Screen Records SILCD 1577
34 brani – Durata: 63'49”

Con l'aria che tira in giro per il mondo, Gran Bretagna compresa, nessuna sorpresa che si moltiplichino film e serie TV formulanti preoccupate ipoteche sul nostro futuro, prefigurato in scenari che saranno anche distopici ma sembrano sempre meno inverosimili. A queste inquietudini gli inglesi allegano il loro proverbiale sense of humour ma anche una visione radicalmente pessimistica e la predilezione per un realismo a volte brutale, mai esornativo, che rende i loro excursus nel fanta-thriller-horror diametralmente opposti, per stile e significato, alla consimile produzione americana.

 Le serie televisive prodotte da Channel Four Utopia e Humans (quest'ultima a rigore si dovrebbe scrivere HUM∀NS) si collocano appunto entro questi parametri: più sul versante del thriller cospirativo la prima, ideata da Dennis Kelly, inedita da noi, cancellata dall'emittente dopo appena due stagioni per scarsa audience e dopo che si è arenato il progetto di una versione Usa diretta da David Fincher, che ruota intorno a un gruppo di possessori di una graphic novel contenente misteriose informazioni su un'arma micidiale; più dichiaratamente fantascientifica – e forse per questo più fortunata, vista anche in Italia sul servizio on demand TIMvision - la seconda, creata da Sam Vincent e Jonathan Brackley e remake di una serie svedese, imperniata sugli imprevedibili sviluppi dell'intelligenza artificiale nella quotidianità della nostra vita domestica.
L'ascolto delle quasi cinque ore complessive sulle quali sono spalmate le OST delle due serie permette di capire subito una cosa: nella musica, o meglio nell'apparato sonoro mobilitato, consiste senza ombra dubbio uno degli elementi più innovativi e destabilizzanti di queste due serie. Lo si deve a Juan Cristobal Tapia de Veer, che ama farsi chiamare più brevemente e modestamente Cristo, quarantenne compositore cileno naturalizzato canadese dopo essere fuggito dalla dittatura fascista di Pinochet: dopo gli studi al Conservatorio del Québec e una specializzazione in percussioni, de Veer ha intrapreso una proficua e variegata carriera soprattutto televisiva, segnalandosi oltre che per le score di numerose serie, anche per l'anticonvenzionale e ansiogena partitura elettronica del dramma in costume The Crimson Petal and The White (2011), cui sono seguiti altri lavori televisivi come National Treasure e negli States la serie comico-poliziesca Dirk Gentry's Holistic Detective Agency, sino – nel 2016 – al suo debutto nel cinema con La ragazza che sapeva troppo.
 Il successo internazionale però de Veer lo deve senz'altro a Utopia e Humans, che gli hanno permesso di inoltrarsi con spavalderia nei territori non solo della sperimentazione sonora ma più scopertamente in quelli della vera e propria caricatura elettronica, con effetti a tratti – non si sa quanto volutamente – esilaranti. Quel tanto di paranoico e paradossale che serpeggia nelle peripezie della serie di Kelly trova infatti nei suoi labirintici percorsi elettronici e nella dovizia di effetti dichiaratamente comici o distorsivi una perfetta corrispondenza: forte della propria specializzazione, il compositore assembla un battaglione di synth e di suoni campionati insieme a strumenti di cui forse lui solo è a conoscenza, tipo la trutruka cilena, sorta di rudimentale tromba cilena fatta col bambù e crini di animale, che produce un suono pesante e monotono.
 Ne esce quello che pare un guazzabuglio inestricabile e caotico, in cui confluiscono frammenti di dialogo, voci manipolate, borborigmi e versacci, subitanee oasi timbriche e parentesi funky, suoni industriali e reminiscenze rockettare, cori spezzettati e Dio sa quant'altro, in realtà sorvegliato da un'implacabile regia sonora. Sono procedimenti che appaiono radicalizzati nella prima stagione, in cui la score di de Veer assume colori ossessivi e inquietanti: come nella voce registrata al contrario di “Arby's Oratorio”, o nei timbri psichedelici e da dosi massicce del caro vecchio LSD in “Mr. Rabbit it is”. In altri casi è proprio la deformazione quasi plastica del suono a suscitare inquietudine viscerale, come in “Twat” o “Evil prevails”, spesso accentuata dal ricorso a ritmi di danza (il samba di “Utopia finale”) squilibrati e convulsamente asimmetrici. Domina un'atmosfera tra il surreale e il cartoon demenziale (“Conspiracy part 1”), con stramberie acustiche di ogni ordine e grado che recano come unica controindicazione, alla lunga, il rischio di un'assuefazione: per evitare la quale de Veer è obbligato a cambiare passo e registro ad ogni brano, come avviene soprattutto nella seconda e ultima stagione.
 Qui infatti si va da passaggi quasi religiosi (l'organo di “Life out of balance”) o addirittura mistici (“Lucidity gone”) a stacchi action (“Bambino criminale” che si apre con l'annuncio enfatico della morte di Aldo Moro), passando per momenti più distesamente melodici come “Over the rainbow” (ma scordatevi Judy Garland e Il mago di Oz...). In realtà tutta la partitura di questa stagione sembra cercare un linguaggio più addolcito e meno ultimativo, anche nel ruolo più ampio lasciato a strumenti tradizionali come pianoforte o chitarra. Ma le voci astrali di “The moaning Pyramid” o l'andatura da ballata malinconica di “Fascinating child” si inseriscono comunque in un contesto sempre all'insegna della ricercata bizzarria, dove vanno e vengono musiche da videogame (“8-bit trauma”), esibizioni di puro sound design (“The Monarch's Pyramid) o irruzioni squisitamente rumoristiche (“Mind spitting lab”).
Humans ha più le caratteristiche di una sci-fi-sitcom sul più volte esplorato tema della convivenza tra umani e droidi, e degli imprevisti che si verificano allorché questi ultimi sembrano essere dotati di volontà e capacità senzienti proprie (per limitarci a esempi recenti, si veda sull'argomento Ex_machina di Alex Garland con score molto più “umanistica” del duo Geoff Barrow-Ben Salisbury). Ma de Veer non sembra interessato a differenziare molto il proprio lavoro, salvo una maggior sottolineatura degli aspetti contemplativi e interiori (“Synthetic Humans: genesis”), attraverso l'utilizzo di suoni incorporei, vitrei e trasparenti. L'aspetto onirico sembra infatti prevalere qui su quello stravagante e rivolto a stupire: ne deriva uno spessore musicale più interessante e concentrato (“Meant to feel”, “Exodus/Recovery”), con qualche concessione minimalista ma più spesso un suono seccamente metallico e catafratto. Viene decisamente meno, rispetto a Utopia, l'elemento ritmico, sostituito da fasce misteriose e avviluppanti (“Creeping robots”, “I was never little”), all'interno delle quali germinano rare ma penetranti idee melodiche (“Bring her back”) provenienti da distanze impensabili. Qui de Veer raggiunge le sponde di un esoterismo dichiarato, piegando le risorse tecnologiche alla ricerca di una dimensione “umana”, appunto, che cerca di affiorare dalle nebbie sonore in cui il compositore l'ha abilmente confinata.
 Nelle due stagioni successive al compito è subentrata la compositrice britannica Sarah Warne, anch'essa molto attiva in TV (la serie Prey) nonché autrice della score per il fosco melò sociale Following Footsteps (2015): de Veer collabora peraltro alla stesura di un pugno di brani all'interno di una partitura che non sembra volersi discostare dalla traccia già segnata. Rigida rimane dunque l'intelaiatura elettronica fatta di sonorità astratte, ora meccaniche ora più ammorbidite ma sempre alla ricerca di una dimensione innaturale e a tratti metafisica. Solo che la Warne ricerca tonalità più soffici, gradevoli e meno provocatorie; le sue pagine sembrano aspirare a (o provenire da) sfere celesti (“Digging deeper”, “A new beginning”), privilegiando sonorità cristalline e tintinnanti, o addirittura inserti solistici di archi, rispetto a quelle più opache e “concrete” di de Veer. Inoltre l'autrice sembra aver a cuore un'intelaiatura complessivamente più “musicale”, tonale e persino a volte melodizzante (“One waterfall”, “Odi wakens”), approdando a paesaggi esplicitamente New Age (“Aftermath”). I brani dove ha messo le mani anche de Veer si riconoscono subito (“Flash”, “Trial”, “Seraphim”, “Set you free”) dal ricomparire di quegli effetti comico-burattineschi che gli abbiamo sentito utilizzare a piene mani nella prima stagione e nei due cicli di Utopia. Funzionano in tal modo da segnali di riconoscimento e in qualche modo di allarme all'interno di un lavoro complesso, tecnicamente e linguisticamente, che non si presta affatto ad un “easy listening” ma che nondimeno non può lasciare indifferenti.

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