The Crown Season 1 & 2

Rupert Gregson-Williams, Hans Zimmer
The Crown (Id., 2016, Season 1)
Sony Classical 88985383572 
19 brani – Durata: 66’20”


     
Rupert Gregson-Williams, Lorne Balfe
The Crown (Id., 2017, Season 2)
Sony Classical 8719262005907
18 brani – Durata: 58’59”     


     
Non si capisce davvero a fondo cosa rappresenti la monarchia per la Gran Bretagna finché non si fa un salto da quelle parti, magari in Scozia, e si vedono in tutti i negozi di Edimburgo – solo pochi giorni dopo le nozze di Harry e Meghan – centinaia di scatole di biscotti con la coppia reale effigiata sui coperchi. L’affezione dei britannici per questa istituzione è passata indenne tra guerre, scandali, rivoluzioni e mutamenti epocali e si è particolarmente radicata nei 66 anni di regno di Elisabetta II Windsor, detentrice del record di monarca vivente più longeva (ma rimarreste sorpresi apprendendo che nella classifica dei regni più duraturi di sempre la sovrana si piazza solo trentanovesima!).

In termini storici 66 anni sono poca cosa ma con la percezione del tempo e della società che abbiamo oggi equivalgono a secoli: e quindi approcciare la sua figura in termini biografici sia privati che pubblici è un’impresa pressoché titanica. Sin qui non si son contate le caricature (memorabili quelle di Una pallottola spuntata o, in versione animata, dei Minions), o i ritratti acutamente introspettivi (The Queen di Stephen Frears), o gli sguardi sulla sua infanzia e giovinezza (Il discorso del re, Una notte con la regina); senza contare il cameo di Sua Maestà medesima accanto a 007-Daniel Craig nel corto di Danny Boyle per l’apertura della trentesima Olimpiade di Londra nel 2012.
Ma il posto che Elisabetta occupa nell’immaginario collettivo ormai planetario e non solo inglese è assai più ampio: e la megaserie tv ideata per Netflix dal drammaturgo londinese Peter Morgan si propone appunto di esplorare questo spazio. Progettata in sei stagioni di dieci episodi ciascuna (sinora sono andate in onda le prime due), con il cast principale cambiato ogni biennio (sinora nei panni della regina sino alla metà degli anni ’60 si è vista la giovane Claire Foy), la serie intende ricostruire la vita della protagonista a partire dal suo matrimonio con il Principe Filippo di Edimburgo, nel 1947, per giungere ai giorni nostri. Settant’anni di storia non solo inglese, ovviamente, ma europea e mondiale, attraverso la moltitudine di eventi che hanno caratterizzato e orientato la vita della casa Reale. L’operazione si annuncia sontuosa, e prevedibilmente ripartita tra descrizioni storiche di alto profilo (indimenticabile, nel florilegio di interpretazioni recenti di questo personaggio, il Winston Churchill di John Lithgow) e intrighi familiari, rancori, gossip e scandali romanzati, che d’altronde hanno sempre costituito una specie di scenografia aggiunta ai fasti di Buckingham Palace. Anche su questo secondo aspetto tuttavia l’impianto rimane quello di una drammatizzazione “alta”, austera, dove tutto si amplifica e anche il pettegolezzo assume i contorni da tragedia greca.
Si spiega così la scelta di rivolgersi per la parte musicale a compositori in linea con questa “grandeur”, trasformati quasi in musicisti “di corte”. E chi meglio di Hans Zimmer e di una sua pattuglia poteva garantire tale risultato?
Se il caposcuola tiene per sé, nella prima stagione, un tema principale dei “Main title” di solennissima, imponente semplicità costruito secondo il consueto schema di una progressione schiacciante troncata bruscamente in un pianissimo, ad alcuni dei suoi più fidi e talentuosi adepti è delegato il resto (oltre a Gregson-Williams jr. e Lorne Balfe si registra anche il concorso di Guy Farley e di altri quattro compositori addizionali, tutti sotto l’esperta direzione di Johannes Vogel), che tuttavia si muove scrupolosamente all’interno dell’orbita prefissata. Con risultati peraltro altalenanti.
Non stupisce ad esempio che in questa concezione una scena di caccia all’anatra (“Duck shoot”) sia musicata con sonorità apocalittiche di ottoni e percussione degne del Gladiatore o di Inception (qui, è il caso di dire, Gregson-Williams si dimostra più realista del re…), mentre sorprendono piuttosto il taglio minimalista di “Government” o la minacciosa fissità di “The letter”, con il lavorìo incessante e sommesso degli archi, il brontolìo della percussione e un’alternanza tra fortissimi e pianissimi di sicuro effetto drammatico. Altra apoteosi di titanismo sinfonico-corale, dopo le dissonanze essiccate e surreali di “Edward returns”, è “In this together”, sempre edificato per accumulazioni armoniche e con andatura marziale, mentre pagine più intime e raccolte come “Margaret and Townsend” o “Margaret calls Ellizabeth” iniziano magari su tonalità morbide e concilianti, tra eterei accordi di archi e tenui disegni pianistici, ma si surriscaldano ben presto tra percussioni esagitate e fosche colorazioni e irrequietezze ritmiche, ma rimanendo spesso ad un livello abbastanza superficiale e relegando in qualche momento più severo e concentrato i passaggi più riusciti, come nel bel fraseggio, pacato e sobrio, di “The avointing”.
Fasi apertamente luttuose del racconto, come “Mary is dead” si avvalgono poi di sonorità anche elettroniche ma contenute e funzionali, sempre associate al ruolo di un’orchestra che per l’occasione sa rinunciare a sfoggi muscolari e ottenere un’atmosfera autenticamente meditativa; così come in “Mary and Edward”, il disegno strascicato di due violoncelli si muove lungo un crinale quasi ultraterreno, nel quale interviene anche sperdutamente il pianoforte. Molto bello anche il decorso di “Chasing Margaret”, nel canto asciutto e intenso dei violoncelli a contrappunto con i violini.
Sono però momenti isolati, bagliori di talento e di illuminata attenzione espressiva (doti di cui Rupert è provvisto almeno quanto, nelle occasioni migliori, il fratello maggiore Harry) all’interno di una score che procede abbastanza per stereotipi nobilitanti, a tratti di taglio sacrale, la cui diffusione indifferenziata finisce ovviamente col ridurne la portata emozionale.
Queste caratteristiche non mostrano significativi scostamenti nella partitura della seconda stagione, dove il tema di Zimmer scompare e Gregson-Williams è affiancato in prima fila dallo scozzese Balfe, che ha già affrontato con buon esito questi argomenti e periodi storici nella sua score per Churchill, e che di suo ci mette una maggior quota di apporto hi-tech ma anche probabilmente di idee melodiche, e soprattutto una spiccata sensibilità nel porre a confronto dialettico climi musicali diversi. “Bounden duty” ad esempio mescola un’imponente figurazione crescente negli archi con un vivace, leggero e ossessivo accompagnamento in sottofondo dei legni; incombe sempre, ovviamente, quella struttura per progressioni dove si ha la netta sensazione che la quantità di suono prevalga con decisione sulla qualità delle idee che la producono. Però poi magari arriva una paginetta elegante e scattante come “Dismissed”, ancora con lo staccato ostinato e saltellante degli archi a sostenere un misterioso tema delle tastiere; oppure “The downfall”, sorta di lunghissima marcia funebre dall’impeccabile architettura sinfonica, con gli archi chiamati in dirittura d’arrivo ad un tema costruito secondo un possente canone troncato in una coda in pianissimo. Lo stesso tema, variato e dissezionato, fa la sua comparsa in “Homesick”, mentre “Your Majesty” risente di un’atmosfera chiesastica e devozionale nel fluente dipanarsi di una melodia raddoppiata dai celli.
Ed è proprio quest’aura di mistero metafisico a circondare larghe parti della score, in parte sostituendosi al trionfalismo acustico della prima stagione: anche se poi basta un brano come “Future King” a far pendere nuovamente la bilancia in quella direzione, soprattutto nel ricorso continuo allo schema “introduzione soffusa-avvio ritmo di marcia lenta-idea leitmotivica-crescendo travolgente-coda semisilenziosa”: una traiettoria che lo Zimmer di Inception ha condotto alla forma del capolavoro, ma che qui è ripetuta troppe volte senza differenziazioni, quindi a rischio di stucchevolezza. Il fiabesco, trasparente “Radio speech” trova quasi il proprio rovescio nel funereo “Christmas message”, mentre “Be my portrait” si trascina faticosamente lungo una sorta di suggestiva via crucis degli archi adornati da quartine pianistiche; poche novità formali si riscontrano in “Philip’s dream”, dove si accentua la cupezza presaga e fatalistica di tonalità minori e suoni che paiono provenire da distanze incolmabili, mentre in “Princess Margaret”, vibrante ritratto musicale della “principessa triste” sorella della regina, addobbato con stranianti effetti elettronici, colpisce la differenza con le parti musicali più vivaci e ottimiste dedicate a questo personaggio nella prima stagione. Ma alla protagonista Gregson-Williams e Balfe continuano a rivolgere pensieri piuttosto meditabondi e malinconici, come “I have no choice” e “A new chapter” che si snoda attraverso un flebile lamento dei violini per assumere poi una consistenza ritmicamente più movimentata e pulsante, sino allo sbocco finale di “Bring him home”, che archivia definitivamente qualunque tentazione enfatica per lasciare spazio ad un fraseggio sottovoce che, se sviluppato con più coerenza e rigore, avrebbe forse potuto dare ben altri frutti.
Vogliamo dire l’intera verità, senza girarci tanto intorno? L’impressione è che in circostanze come questa si dimostri come il tentativo degli allievi, collaboratori o seguaci che dir si voglia, di imitare, con scarse varianti, il maestro, sia poco redditizio in termini di qualità. Nulla di male, in altre parole, a fondare una scuola, una factory, uno stile: ma all’interno di questo le singole personalità, i talenti individuali (che ci sono, eccome) devono essere lasciati liberi di svilupparsi autonomamente e creativamente, anziché indotti a manipolare materiali e stilemi che solo il capostipite è in grado (spessissimo, non sempre) di ravvivare e rendere giustificati e avvincenti. In questo caso invece il “remote control” del capo non sembra neanche tanto “remote”… e si avvera l’assioma secondo cui lo zimmerismo senza Zimmer somiglia ad un impeccabile, appariscente e ingombrante involucro dal contenuto di difficile interpretazione.

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