22/11/63

cover 22 11 63Alex Heffes
22/11/63 (11.22.63, 2016)
Water Tower Music
24 brani – Durata: 65'36"

Pubblicato nel 2011, "22/11/63" è probabilmente l'ultimo vero grande romanzo di Stephen King; i limiti posti dai ritmi industriali e dalla spiccata autoreferenzialità che caratterizzano infatti la recente produzione dello scrittore del Maine (tra i più grandi in assoluto del nostro tempo), a detrimento della sua originalità ed efficacia, non appartengono infatti a questa opera colossale, sorta di summa "Americana" nella quale confluiscono elementi vecchi e nuovi della letteratura fantastica e delle tematiche dell'autore. Il tutto attraverso il "tòpos" antichissimo del viaggio nel tempo, che però si raccoglie qui drammaticamente intorno ad un interrogativo centrale: sareste disposti a rinunciare al vostro presente pur di cambiare il passato?

Questo è il dilemma del protagonista Jake Epping, un modesto insegnante di provincia che, attraverso un pertugio temporale situato nel retrobottega di un amico, può tranquillamente andare e venire da quel fatidico novembre '63, trovandosi quindi nelle condizioni di impedire l'assassinio di John Kennedy; ma, contestualmente, anche di cambiare tutti gli eventi successivi, compresi quelli che lo riguardano direttamente.
Un intreccio così appassionante e complesso chiama a sè quasi naturalmente le potenzialità della fiction; così, dopo essere stato per un pò accarezzato da Bob Zemeckis, il romanzo è planato nelle sapienti mani di J.J.Abrams, che insieme allo stesso King ne ha prodotto una miniserie per il canale web Hulu (in Italia trasmessa dalla Fox) con protagonista James Franco. E, come sempre quando è Abrams a sovrintendere, anche il ruolo della musica esce dall'orbita di una banale routine per esibire ambizioni più alte e sofisticate. L'inglese Alex Heffes, ad esempio, talentuoso esponente della generazione dei quarantenni che ricordiamo per gli scores del celebrativo Mandela: Long Walk to Freedom e dell'horror sui generis Cappuccetto rosso sangue, è un compositore attento e penetrante, che gravita in un'orbita postgoldsmithiana non troppo lontana da quella in cui si muoveva, almeno ai propri inizi, Michael Giacchino. Ne discende che la sua partitura vive innanzitutto di una scrittura rigorosamente orchestrale, minuziosa e dalla tavolozza timbrica estremamente variegata; questo allo scopo più di ottenere una sensazione di smarrimento, di incertezza che di suscitare emozioni forti o picchi di paura. L'incipit sommesso, quasi titubante, di "Al's diner", affidato ai legni su un soffice tappeto di archi e arpa, ne è un ottimo biglietto da visita, compresi il brontolio dei bassi, le cupe dissonanze e un crescendo magmatico che evoca l'incombere di una dimensione ignota; analogamente "Through the rabbit hole" affida a flautandi dei violini e parchissimi effetti della percussione il compito di creare tensione angosciosa ma anche affascinata, sfociando dopo un altro crescendo di sonorità in un ostinato dei bassi su cui si leva una flebile idea tematica dei violini. Siamo dunque all'interno di un'ottica impressionista più che espressionista, nella quale Heffes lavora di cesello, suggerendo più che esibendo, sussurrando più che gridando; anche i tipici agghiaccianti brividi horror dei violini di "The past pushes back" vengono riassorbiti in un clima alieno da ogni enfasi, e integrati in un'orchestra che si aggira discreta ma vigile. Inoltre tutta la parte romantica della vicenda – che si rivela alla fine determinante – vive di una drammaturgia musicale cameristica e delicata, intessuta di lirismo strumentale ("Meeting Sadie & seeing JFK" o il dolcissimo "Harry's theme" dal timbro trasparente e impalpabile) e di sfumature espressive decisamente inconsuete per la qualità media di uno score televisivo: l'approccio di Heffes, anzi, è molto "alto", concentrato e accurato, e sembra voler suggerire uno stupore del tutto interiorizzato e ipersensibile rispetto al paradosso cronologico messo in campo. "War story" per esempio è basato su pedali dissonanti di archi a fare da orizzonte a note quasi casuali del piano e ad una linea melodica atonale dei violini: il tema in flautando di questi ultimi torna poi in pianissimo in "Halloween night in Holden", prima di una brusca e brutale accensione ritmica di percussioni e archi. Impressionante poi la severità di fraseggio e lo spessore drammatico di alcuni passaggi, come "A changing history", gravato da un disegno ripetuto di tre note dei bassi, o "Dealey Plaza", che nei rintocchi della percussione contrapposti al lievitare sidereo dei violini assume i contorni di una vera e propria marcia funebre; in realtà ogni segmento, ogni battuta di questo score appare come il prodotto di una riflessione in profondità sulla drammaturgia musicale complessiva richiesta dalla vicenda, ad un tempo così iper-realistica e così assurda. Heffes non predilige però un sound fantascientifico ma – al contrario – decisamente umanistico, con alcuni tocchi timbrici che fanno pensare ai più intimi momenti lirici di un Silvestri ("Jake and Sadie", "The hospital") con il pianoforte sempre presente ma in ombra, e la massa di archi a dialogare pacatamente con l'arpa ("Six months later, Lee gets a job", "Mimi gives Jake some advice"). In questo la lezione goldsmithiana, filtrata attraverso il polistilismo diabolicamente duttile di un Giacchino, sembra sempre più il punto di riferimento del compositore inglese; ciò fa sì' che anche nei momenti di più pura e accesa tensione Heffes ricorra a soluzioni solo e squisitamente "musicali", e non di sound design o poltiglia elettronica, come nei sinistri glissandi dei violini di "Lee finds the bug & Jake comers George" o nel minaccioso pulsare ritmico di "Is this the big moment... and don't forget the yellow card man", che appartiene di diritto alla più nitida categoria della suspense music. E tuttavia sono ancora il mèlos desolato del clarinetto e un ostinato pizzicato dei violini a reggere il crescendo di pathos di "22.11.63", sfociando in una ragnatela di dissonanze gravide di sventura. Nel lungo "Inside the book depository" l'ostinato ritmico si coniuga con effetti percussivi (è l'unica concessione elettronica dello score) e agitati, nervosissimi disegni dei violini; si nota l'assenza quasi provocatoria di elementi melodici, a favore di un climax generale inseguito con ostinata ingegneria strumentale. Costruito come una minitragedia musicale, il brano va a chiudersi nel canto dei celli e poi dei violini, con un brevissimo congedo pianistico, in una coda di serena rassegnazione.
I materiali iniziali si riaffacciano in "Back through the rabbit hole", mentre "Harry, again" mobilita di nuovo gli archi in un disegno scattante e staccato, e "I'm Sadie" è un'ultima oasi sentimentale e raccolta, affidata ai prediletti violini; il conclusivo "From here to eternity" consegna infine una limpida pagina dove si dispiega negli archi un cantabile accorato che sigilla la partitura all'insegna di un ineluttabile "omnia vincit amor".
Ed è anche, ma non solo, per questa cifra interiore, delicata e di asciutta commozione, che la partitura si segnala, confermando in Alex Heffes un compositore che meriterebbe senz'altro una maggior attenzione e più impegnative occasioni nel panorama – spesso non esaltante – dei soundtracks contemporanei.

 

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