The Paradise & Peter & Wendy: based on the novel Peter Pan by J. M. Barrie

Maurizio Malagnini
The Paradise – Al paradiso delle signore (The Paradise, 2012-2013)
Silva Screen Records SILCD 1429 – 1° stagione
Silva Screen Records SILED4815 – 2° stagione
Cd 1: 29 brani – Durata: 56’35”
Cd 2, 22 brani – Durata: 54’00”

Maurizio Malagnini
Peter & Wendy: based on the novel Peter Pan by J. M. Barrie (2015)
Silva Screen Records SILCD1512
27 brani + 1 canzone – Durata: 65’55”

La cosiddetta “fuga dei cervelli” è un fenomeno che riguarda, ormai da tempo, anche la musica per immagini del nostro Paese. I casi di Dario Marianelli e Marco Beltrami costituiscono i due esempi forse più rappresentativi di talenti italiani che hanno trovato sul mercato estero spazio, occasioni e mezzi di espressione adeguati alla propria ambiziosa inventiva e probabilmente impossibili da ottenere qui, vuoi per ragioni produttive vuoi – ancor più – per ragioni estetiche e culturali riconducibili all’àmbito, spesso ancora ristretto e provinciale, in cui si muove una parte della musica per film italiana.

A questi nomi (e citeremmo anche Gabriele Roberto, ormai “adottato” in Giappone) converrà ora aggiungere quello di Maurizio Malagnini, bergamasco, classe 1977, solidissima formazione accademica, allievo di Luis Enriquez Bacalov, da anni trapiantato a Londra dove lavora intensamente per la televisione e dove ottiene prestigiosi riconoscimenti. Cosa che non deve sorprendere poiché è opinione largamente diffusa che, a fronte di un declino qualitativo lampante e complessivo del cinema su grande schermo, in molti casi sia oggi il piccolo schermo a proporsi come “vero” cinema per un pubblico sempre più vasto, esigente e sensibile: serie non a caso britanniche come Downton Abbey o Call the Midwife, per non parlare di prodotti americani di genere thriller o crime (il più recente è 22.11.63, dal romanzo di Stephen King), riescono infatti a coniugare anche grazie alla ricchezza di raffinate ed elaborate partiture musicali quegli aspetti di complessità e spettacolarità, di profondità e comunicatività, spesso negati a tanta produzione “maggiore” ormai solo per formato di proiezione e ampiezza di budget…
Non è un caso allora che, ad esempio, proprio l’ultima stagione di Call the Midwife, la serie della BBC creata da Heidi Thomas sulla base delle memorie dell’infermiera-levatrice Jennifer Worth (“Chiamate la levatrice”, 2014, ed. Sellerio) nella Londra proletaria dell’East Side negli anni ’50, sia tra le fatiche più recenti e notevoli di Malagnini: il quale – al pari del suo collega Marianelli su grande schermo – si dimostra particolarmente a proprio agio nelle atmosfere del cosiddetto “period drama” di collocazione britannica, ossia quel genere drammatico (ma venato di ironia) in costume che spesso e volentieri declina illustri ascendenze letterarie.
È appunto il caso di The Paradise – Al paradiso delle signore, pubblicato nel 1883 dallo scrittore francese Émile Zola all’interno del ciclo dei “Rougon-Macquart”, venti romanzi dedicati alla storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero di Napoleone III (1852-1970). La serie tv della BBC ideata da Bill Gallagher ruota, come il libro, intorno alle vicissitudini di Denise Lovett, giovane inglese che alla metà degli anni ’70 dell’800 si fa assumere come commessa nel grande magazzino Paradise, dove viene subito notata per la propria intraprendenza, innescando intorno a sé una serie di vicende sentimentali e drammatiche. Uno scenario ideale per l’ispirazione di Malagnini, il cui stile compositivo rivela un’attenzione e una devozione sincere, ma non piattamente nostalgiche, alla tradizione di Rota e di Morricone, con una fedeltà quasi filiale alla scrittura orchestrale, di straordinaria e variopinta ricchezza ma priva di qualsiasi pesantezza o enfasi. Lo attestano, nello score della prima stagione, la grazia quasi mendelssohniana, trasparente e lieve, di ”The Paradise lovebirds”, con lo staccato leggerissimo e saltellante degli archi a sostenere le evoluzioni dei legni; o la floreale, malinconica evanescenza del “Reception walzer”, seguito dalla festosa brillantezza di “Opening the doors”, nel quale si radica uno dei moduli principali dell’orchestrazione di Malagnini: un disegno melodico prevalentemente affidato ai violini e sostenuto ritmicamente dai fiati, con il pianoforte a fare da discreto contrappunto.
Può apparire – e forse in parte è – una scrittura “vintage” (non poche le analogie con le partiture di John Lunn per la serie Downton Abbey), ma in questo caso l’effetto retrò è controllato da una cognizione culturale e strutturale altissima, dove i materiali sono meditati e riproposti in una luce crepuscolare e malinconica, mai recriminatoria o feticistica. Malinconia che, ad esempio, si fa strada nell’andatura piana e orizzontale di “We will never know” o nel lirismo sommesso e intenso di “I have married the wrong man”, mentre la ricerca di un suono il più possibile luminoso si avverte negli arabeschi dei pizzicati del “Pauline’s theme” o nel dialogo vibrafono-pianoforte di “Perfume from Morocco”. Questa musica amabile e delicata accompagna le vicende dei protagonisti con una discrezione e una classe d’altri tempi e d’alta scuola (merito anche del suono nitido e calibratissimo della BBC Concert Orchestra), senza indugiare in facili pseudominimalismi o citazionismi mascherati; una partitura che, dopo aver valso all’autore una nomination agli Emmy e tre premi internazionali, è confluita quasi naturalmente nello score per la seconda serie, caratterizzato dalla presenza di elementi “francesi” (dovuti allo sviluppo della trama) com’è facilmente avvertibile nella fisarmonica di “A letter from Paris” o “Clemence and Dudley”, mentre il leit-motiv principale di “The Paradise lovebirds” trova nuove e interessanti varianti in “A scorpion in the Paradise”, e “The music hall” è un pezzo virtuosistico di “musica di scena” costruito come un tema con variazioni sui moduli canonici del variété parigino. Le tonalità si fanno più meste in “Clemence’s past” per schiudersi subito in solari aperture melodiche con “The fireworks”, lasciando però spazio anche a squarci più drammatici e allarmati come nella marcia staccata degli archi di “Tom Weston’s suspect”, o a pagine più direttamente descrittive come nel ticchettio e nell’andamento pendolare di “Hypnotizing Susy”, giocato tutto sulle evoluzioni dei flauti con una leggerezza di scrittura che ricorda la Danza dei flauti dallo “Schiaccianoci” ciaikovskiano. Un’analoga, anzi ancor più accentuata trasparenza timbrica caratterizza l’avvio di “The house on the hill”, con il ricamo della celesta sui tremoli dei violini contrastati dalla minacciosa presenza dei bassi e l’intervento inaspettato di un mandolino: il che contrasta nuovamente, in un continuo alternarsi di atmosfere, con la tesa agitazione degli archi e il rintocco quasi funebre dei timpani in “The duel”.
Questa varietà di colori, unitamente ad una verve più spiccata, quasi disneyana nel ritmo e nel fantasismo tematico, caratterizza la partitura per il tv-movie diretto da Diarmuid Lawrence che rivisita i personaggi di Barrie in una chiave mista tra cronaca e invenzione. Qui tra l’altro l’impegno di Malagnini appariva complicato anche dalla presenza dei molti illustri precedenti: dallo score e canzoni di Oliver Wallace per il cartoon appunto disneyano del ’53 al recentissimo Pan di John Powell, passando per l’Howard di una versione live del 2003 a firma di P.J.Hogan, per il Kaczmarek di Neverland e, naturalmente, per lo straordinario Hook – Capitan Uncino spielberghiano di John Williams. Non è forse un caso che proprio echi del compositore newyorkese affiorino ad esempio nelle ariose, liberatorie fanfare dei “Main title” o di “The flight to Neverland”: l’impronta principale rimane tuttavia quella di in lirismo magico e delicato, toccante, che guarda semmai alla lezione di Alan Silvestri nel lucente nitore della scrittura orchestrale (qui alla strumentazione ha collaborato anche Jhan Stefan e l’esecuzione, puntuale e scintillante, è della Chamber Orchestra of London diretta da Jeff Atmanjian), che all’occorrenza coinvolge anche il coro, virando verso una marzialità che è ad un tempo minacciosa e caricaturale, come accade in “Captain Hook”. Il film infatti mobilita anche pagine dichiaratamente “action”, e il compositore non dimostra la minima sudditanza verso i modelli americani nel ricorrere a tutta l’attrezzatura sonora necessaria, dai glissandi degli archi (”The bear and the crocodile”) ad una violenta marcatura ritmica di ottoni e coro (“Keep your eyes open”). Solo che, rispetto alla rumorosa, frastornante e generica routine ormai dilagante oltreoceano Malagnini contrappone un costante gusto per la forma, per il fraseggio (“Lucy is alive”), per l’utilizzo dei leitmotifs (qui ve n’è uno particolarmente felice e immediato), per la riflessione contrappuntistica, per una strumentazione aerea e vibratile (“The execution”): il suo modo di approcciare l’universo fantasy, in altri termini, appare completamente interiorizzato e governato da una grande sensibilità, soprattutto – va detto – nelle pagine più intime e raccolte psicologicamente, come “The death of Captain Hook”, o nella bella canzone “Peter and Wendy” offerta dalla potente voce della giovane “cantattrice” inglese Phobe Fildes, o ancora, e soprattutto, nel “Peter’s farewell”. Un momento, quest’ultimo in particolare, di sorvegliato abbandono e di meditativa dolcezza che conferma in Maurizio Malagnini un compositore gentile ma consapevole, capace di innovare in chiave del tutto “mediterranea” e personale il lascito e il patrimonio ideali dei grandi maestri del passato.

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