Marvel’s Agents of S.H.I.E.L.D.

cover_agents_of_s.h.i.e.l.d.jpgBear McCreary
Marvel’s Agents of S.H.I.E.L.D. (Id., 2013-2015)
Hollywood Records HR
18 brani – Durata: 77’52”



Dove non sono riuscite legioni di supercattivi sta riuscendo l’inesorabile e invincibile legge del mercato. E così, l’universo dei supereroi Marvel sta cominciando a scricchiolare e a mostrare qua e là qualche crepa. Lo certificano il cordiale e rumoroso insuccesso del nuovo Fantastic 4 e quello, sia pur meno vistoso, di Ant-Man. Le cause di questa progressiva disaffezione del pubblico (non parliamo della critica, che considera questa produzione come una vacanza dal pensiero) sono molteplici: in testa a tutte l’estenuante ripetitività delle formule, una coazione alla replica che si nutre di sequel, prequel, remake e reboot praticamente infiniti, poi una scarsa delineazione dei personaggi (le cui psicologie all’origine sono invece tutte molto complesse, per non dire complicate), clamorosi errori di casting (Mark Ruffalo è davvero un “incredibile” Hulk!), una bulimica uniformità del comparto effetti speciali ormai del tutto autoreferenziale e alla lunga tedioso; più in generale una assuefazione al genere, che ormai sembra aver esaurito tutta la propria propulsiva spinta immaginifica.
Sono considerazioni che coinvolgono almeno in parte anche l’aspetto musicale, ormai prevalentemente affidato a chiassosi plastificatori sonori come Brian Tyler o Ramin Djawadi, preoccupati unicamente di fornire un “rumble” continuo che si faccia strada fra i botti. Naturalmente vi sono cospicue eccezioni, come l’Alan Silvestri di The Avengers; e a questo proposito – ma vi torneremo sopra più diffusamente - va annotato con particolare interesse come proprio il flop di Fantastic 4 si accompagni ad uno score che costituisce uno dei più brillanti esperimenti di conciliazione degli opposti, essendo stato co-firmato da Marco Beltrami e Philip Glass.
Con queste premesse per ciò che riguarda il grande schermo, è naturale che l’attenzione si sposti sulla serialità televisiva, tanto “live” quanto animata. Qui le cose, vuoi per le proporzioni ovviamente più ridotte, vuoi per una struttura narrativa che mescola sapientemente elementi della spy-story d’azione con la tradizionale componente “super” (in sintesi si può dire che qui non tutti gli eroi sono “super” e non tutti i “super” sono eroi), vuoi infine per una cura senz’altro maggiore nelle sceneggiature e nei soggetti, sembrano andare meglio e sollecitare, anche nel reparto musicale, energie migliori e più fresche.
Svetta, in tal senso, la serie della ABC Marvel’s Agents of S.H.I.E.L.D., più nota brevemente come Agents of S.H.I.E.L.D. (Strategic Homeland Intervention, Enforcement and Logistics Division), creata nel 2013 insieme al nipote Jed dall’inesauribile Joss Whedon, già autore di Buffy l’ammazzavampiri e regista dei due Avengers, e attualmente in programmazione da noi su Rai 4. Più che chiamare inevitabilmente a ripetersi compositori già celebri sul grande schermo, questo settore sembra sollecitare l’emersione di nuovi talenti che non hanno in alcuna soggezione modelli precostituiti. Tra questi, il 36enne della Florida Julian “Bear” McCreary è senz’altro uno dei più dotati. Pianista classico, fisarmonicista autodidatta e già allievo di Elmer Bernstein, McCreary è praticamente cresciuto a pane e televisione (pur essendo attivo anche al cinema), dove ha lavorato a serie fortunate come Battlestar Galactica, Human Target e The Walking Dead. Il suo stile si muove in perfetto equilibrio tra sinfonismo vintage e influenze rock-pop anni ’90, come dimostrano in questa uscita che raccoglie le scores delle prime due stagioni la splendida ballad “Rocket launch” per chitarra e archi, di un carezzevole sentimentalismo, o l’evocativa “Aftermath of the uprising”, dalle sonorità “slide”. L’aspetto più evidente di McCreary sembra infatti essere la sua facilità nell’inventare temi e idee melodiche destinati a rimanere impressi anziché annegati in un frastuono generale: su tutti spicca qui, sin dall’imponente Ouverture, un tema principale per corni di scultorea, stagliata grandiosità, che si mangia da solo decine e decine di minuti girovaganti di scores filmici. Un’idea fortissima e penetrante, che a buon diritto il musicista può utilizzare in lungo e in largo, come in “Showdown at Union Station”, iniziando con accenti più morbidi e innalzando poi l’orchestrazione sino a temperature roventi: la diffusione virale del leit-motiv lungo la partitura è anche giustificata dalla preoccupazione, esplicitata da McCreary, di dedicare al tema la necessaria “visibilità” sonora considerando il fatto che la serie non ha titoli di testa, e quindi manca di un’occasione canonica per mettere in mostra l’idea portante musicale.
Poco male, perché il compositore non lascia un attimo di respiro alla musica, utilizzando il proprio tema spesso come inciso fulminante (“The obelisk”)  o come cellula germinatrice di un irrefrenabile dinamismo (“Gravitonium”, impreziosito da effetti in flautando degli archi); per non parlare del pirotecnico “0-8-4”, la cui adrenalina è non poco debitrice nei confronti dell’universo Star Wars, pur rimanendo fermamente ancorata all’originalità del tema principale. Memore dei trascorsi classici dell’autore è senz’altro “Cello concerto”, associato al personaggio della violoncellista Audrey Nathan interpretato da Amy Acker, in pratica una lunga, frenetica cadenza per solista, tenebrosamente e virtuosisticamente atonale; ma l’irresistibile energia coniugata ad una costante tensione che caratterizza la partitura dilaga anche nelle fasi d’attesa come “Willing to sacrifice”, con l’esposizione subliminale e rallentata del tema conduttore, o nello spettrale “Alien DNA”, che chiama in causa i violini nel registro sovracuto; più lirico e pacato è “Fzzt”, dove l’iniziale lavorìo dei celli e bassi incute un senso di ansiosa apprensione. L’aspetto marziale, scandito e militaresco della partitura possiede anche risvolti quasi caricaturali nella loro accentuazione, come in “Garrett”, e si concede qualche momento più convenzionale come in “Hail Hydra”, martellato e frenetico nella propria ritmica asimmetrica: un ottimo contrasto con “Helicopter rescue”, in cui gli archi fraseggiano pacatamente, o “Terrigen crystals”, dove sempre gli archi e in particolare i celli si struggono in brevi, emozionanti enunciazioni melodiche.
Ma la musica cambia, alla lettera, negli oltre sette minuti di “The big bang”, pagina d’azione come poche altre, dove il connubio tra grande orchestra e componenti elettroniche (soprattutto nella percussione) va alla grande: è il momento che forse più di ogni altro si può apparentare al “Marvel sound”, ma rinvigorito da una disinvoltura orchestrale straordinaria e da un’inarrestabile energia motoria. Il tutto è quasi compulsato nel conclusivo “The rising tide”, dove su un sussultante ostinato ritmico degli archi e su una falsariga funky ritroviamo il poderoso leit-motiv opportunamente rielaborato e modulato.
In pratica la partitura di McCreary contribuisce a sfatare il luogo comune, abbastanza valido sino a qualche anno fa, secondo il quale la musica per le serie televisive riveste un ruolo ancillare e di supporto rispetto alla sorella maggiore cinematografica; anzi, anche alla luce dell’incipiente crisi di ispirazione cui accennavamo in apertura, si può dire che lavori come questi svolgano ormai una funzione ben più che di supplenza, configurandosi spesso – nel comparto “action” – come esempi di una ritrovata e sofisticata classicità.

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