Elizabeth Taylor in London & Sophia Loren in Rome

cover_elizabeth_sophia_barry.jpgJohn Barry
Elizabeth Taylor in London (1963)
Sophia Loren in Rome (1964)
Harkit Records HRKCD 8437
24 brani – durata: 69’37”



In una sorta di via di mezzo fra il documentario e il reportage, l’operazione Elizabeth Taylor in London, voluta dai produttori americani Philip D’Antoni e Norman Baer, e seguita l’anno successivo da Sophia Loren in Rome, rappresentò un curioso excursus televisivo per il musicista di James Bond: si trattava infatti di ritratti dedicati a due dive colte nell’apice massimo della loro popolarità, e inserite nel proprio background culturale e geografico, quasi a farne dei simboli-guide in un ideale tour di memorie personali, in un florilegio di vedute, di scorci e di emozioni legate al contesto e al fascino delle due capitali e delle due star.
Il progetto vide cadere quasi obbligatoriamente la scelta musicale su Barry, considerato all’epoca il compositore british per eccellenza, ma anche artista capace di scollegarsi per questa circostanza dalle esigenze di una musica drammaturgica e di provvedere ad un soundtrack di sfondo, di accompagnamento e descrizione, unendo il glamour di uno stile accattivante e carezzevole all’abilità nel mettere a fuoco alcuni particolari non necessariamente narrativi ma squisitamente visivi. Si fanno luce dunque in queste pagine già le caratteristiche del Barry autore oltre un trentennio più tardi di musica extracinematografica, assoluta, come le pagine racchiuse nella splendida raccolta “Beyondness of things” del 1998 (London 289 460 009-2): un background impressionistico di temi psicologici e descrittivi ad un tempo, terreno quantomai favorevole all’ispirazione del maestro inglese, che fu chiamato alla stesura della partitura frequentando di persona il set e potendo assistere all’effettuazione delle riprese.
Ora questi due score, preziosamente e integralmente recuperati dalla Harkit, rivedono la luce e restituiscono intatte la propria freschezza e felicità inventiva, configurandosi come due acquerelli sonori finemente e puntualmente caratterizzati secondo le rispettive, diverse location e personalità divistiche. La partitura scritta per la star di Cleopatra colpisce per il tono aristocraticamente e  morbidamente malinconico, sottolineato dalla voce medesima, felpata e grave, della Taylor che accompagna le riprese del Parlamento londinese, di Westminster, di una chiesa inglese distrutta dai bombardamenti nazisti, rievocando la propria infanzia nei sobborghi di Hampstead Garden e alternando gli aneddoti alla recitazione di brani tratti da poeti britannici o scorci di rievocazione storica attraverso i discorsi di personaggi celebri della storia britannica. L’appassionato “Elizabeth teme” si sviluppa in una lussureggiante frase dei violini, fra cascate di arpeggi e interventi dei legni, trasmettendo immediatamente la sensualità e il pensoso magnetismo dell’attrice; l’orchestrazione appare trasparente, anche se strutturalmente complessa (l’orchestra è sotto la direzione di Johnny Spence, rarissimo caso di delega nella produzione barryana), e il fraseggio vibra di irresistibile intensità emozionale; la ripresa, più lenta, del tema in “London at dawn”, fra timbri impressionisti e delicati, fa da sfondo al monologare sussurrante di Liz, mentre il secondo tema dello score, “London theme”, è nobilmente, solennemente elgariano; ancora il tema di Elizabeth si fa largo, fra trilli dei flauti e il risuonare della celesta, in “Lovers and Browning”, così come il “London theme” accompagna il declamare poetico dell’attrice nel riproporre il discorso del primo ministro William Pitt in “Pitt’s speech”. Due deliziosi valzer si susseguono: il “Jazz waltz” movimenta per sax il London theme denotando la dimestichezza che in quegli anni Barry poteva vantare con questo genere musicale; l’”Elizabeth waltz”, assai più lento, non è che una versione del suo tema mollemente adagiata su ritmo di danza nell’impasto fluente degli archi in serrato contrappunto coi fiati; da un’Elizabeth all’altra, la Taylor dà voce alla Regina in “Elizabeth at Tilbury” mentre “English garden”  ha sonorità misteriose, con i flauti dialoganti sul tremolo degli archi, i corni in lontananza, l’arpa in rilievo, in quello che appare evidentemente un richiamo bucolico ed intimistico ai suoni di natura. L’eloquio si fa qui particolarmente gentile e discreto, ricordando il nitore e la purezza adamantina di molte partiture cinematografiche contemporanee del maestro inglese. Di nuovo il London theme sostiene “Queen Victoria”, mentre “The great fire of London”, rievocativo del tragico incendio che semidistrusse la città dal 2 al 5 settembre 1666, ripropone moduli che ricordano da vicino il Barry di 007: orchestrazione mossa e acuminata, scandire dei timpani, una frase obliqua e maligna del sax raddoppiata dai violini, campane, frustate dei legni, dissonanze degli ottoni, il tutto però vittoriosamente sovrastato ancora una volta dal London theme nell’esposizione di corni e tromboni. E non a caso è un ritmo tambureggiante marziale che accompagna il volitivo, brevissimo ”Churchill speech” prima che il tema di Elizabeth riesploda, accorato e fiammeggiante, in forma di congedo.
La partitura per il documentario che ha per protagonista l’attrice premio Oscar per La ciociara denota, com’è ovvio, un radicale cambio di registro: vi si respira immediatamente un’aria mediterranea, latina, accentuata dalla presenza di strumenti caratteristici come il mandolino o la fisarmonica. “Secrets of Rome”, tema principale, è di un’accaldata, solare opulenza (qui è Barry a dirigere), indirizzate a sottolineare la grandiosità e la magnificenza della città Caput Mundi. Lo score è decisamente movimentato e brillante, esuberante com’era Sophia Loren in quel periodo: “The Ballet” è uno squarcio quasi prokofieviano, comicheggiante e sardonico, affidato a interventi solisti dei fiati e ad un tema baldanzoso degli archi, sul pulsare ininterrotto della batteria. “Sophia”, per piccola orchestra, è un altro valzer lento e accattivante, dove spicca il ruolo solistico dell’oboe nel delineare liricamente una dedica voluttuosa all’attrice. Chiaramente intitolato a colui che fu il partner prediletto della Loren, “Marcello” (Mastroianni) è invece uno slow per archi intenerito e seducente, che introduce un terzo, importante tema nello score. Mandolino e armonica sono in primo piano in una versione napoletaneggiante  di “Secrets of Rome” per piccola orchestra, che più avanti viene proposta dalla stessa Loren in una morbida, suadente versione vocale; e deliziosa musica da passeggio risulta “Arm in arm”, anch’esso poi riproposto per piccola orchestra, vibrafono e legni, in tonalità e atmosfere decisamente popolaresche, Fisarmonica e arpa, in un dialogo inconsueto ma affascinante, offrono ancora una volta “Sophia”, arricchendolo di sonorità eteree cui si uniscono i legni con spunti variativi: qui la scrittura di Barry si fa davvero impalpabile, quasi immateriale anche nel ricorrere a strumenti caratteristici o linee melodiche di palese estrazione folclorica. Marziale e tambureggiante è “The agressors”, dove nuovamente fa capolino il musicista di James Bond nell’accentuazione ritmica e nell’incalzante progressione. Una versione sorniona e ballabile di “Marcello” per piccola orchestra, ancora più esplicita sul fronte di una musicalità partenopea e popolana, precede il conclusivo valzer basato su “Secrets of Rome”: iniziato dai celli e ripreso dagli archi, il tema si srotola avvolgente indugiando sulle proprie modulazioni, non prive di reminiscenze operistiche, per concludersi luminosamente.
Due “rarities” molto istruttive, dunque, dell’evoluzione artistica del compositore a metà di quegli anni Sessanta che ne proclamarono l’ascesa nell’Olimpo dei musicisti cinematografici, e due partiture che, nella differenza di metodo e di applicazione, confermano lo straordinario eclettismo e l’intuito formidabile che John Barry riservava anche a committenze particolari e inconsuete come queste.

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