Come un delfino

cover_come_un_delfino_serie.jpgEnnio Morricone
Come un delfino (2013)
La serie tv, seconda stagione – RTI Music
15 brani – durata: 40’48”



Si colgono non poche differenze, nel lavoro del maestro romano, tra la seconda e la prima stagione della serie Mediaset interpretata (e in questo caso anche diretta) da Raoul Bova dedicata alla vicenda umana e sportiva di Domenico Fioravanti, campione di nuoto dalla carriera interrotta una decina d’anni fa per una grave patologia cardiaca. Differenze di atmosfera e di impianto. La partitura per la prima stagione era infatti dominata da accenti gravi, meditativi e presaghi, da colori scuri e malinconicamente lirici. Questa seconda fatica morriconiana esibisce invece sin dall’inizio un tessuto trasparente, sonorità impressionistiche, e un tematismo che si direbbe quasi “francese” nell’eloquio; una vera “musica dell’acqua”, che a tratti ricorda anche la scrittura britteniana degli Interludi marini dal “Peter Grimes”. Ancora una volta domina il dialogo serrato fra la massa degli archi, in questo caso coinvolta molto più in profondità, e i legni (oboe, corno inglese, flauto) cui è richiesto un melodismo sospeso, verticale e limpidamente solitario.
“L’estate dei ricordi” si apre con un sommovimento brulicante degli archi, attraversati da rapidissime scalette discendenti e da un mesto tema dei fiati; schema che parzialmente si ripete in “Isolati”, salvo che la scaletta discendente si fa quasi una frustata sul ponticello, e  la conversazione fra i legni si dipana con mobile emotività. Un violoncello solo alza un canto lirico incerto e divagante, squisitamente morriconiano, in “Sole e sabbia”, mentre “A piedi nudi sulla sabbia” si fonda su una linea melodica degli archi contrapposta ad un sottofondo ritmico insistito e stratificato di percussioni, seguendo un percorso ostinato e alternato, dando come risultante l’effetto di due voci che tentano di comunicare invano e ciononostante arrivano ad un intreccio reciproco: è una pagina sotterraneamente inquietante, inconsueta per il maestro, e memore di alcune sue ricerche sulla coesistenza ritmo-melodia degli anni ’60. Il tema spezzato dei violini di “D’amore una storia” reca nondimeno l’imprinting del compositore (si pensi al celeberrimo “Chi mai”, da Maddalena, 1971, Jerzy Kawalerowicz); qui compare anche per la prima volta una citazione esplicita nei fiati da Mission, che funge però da cellula di sviluppo autonoma, mentre il cantabile degli archi, pastosi e severamente raccolti, si srotola in “L’altra” con nitida compostezza. La seconda versione di “L’estate dei ricordi” riprende il movimento liquido degli archi e il tema intensamente cromatico dei legni, innescando un gioco a specchi di dissonanze e intersezioni contrappuntistiche che approdano ad un climax sonoro cangiante e surreale, laddove il modulare sommesso del clarinetto e poi dei corni, sempre sostenuti dagli archi, di “I delfini affettuosi”, trasmette un senso di pacificazione intensamente emotivo. La melopea in minore dell’oboe di “Difficoltà nei rapporti” ha quasi il sapore di una nenia funebre, espressione di un dolore contenuto quanto profondo, ma segnali d’allarme psicologico si levano da “L’ora e il dopo”, con i lunghi accordi in crescendo e diminuendo degli archi, e soprattutto con “Tempesta”, che impegna un pianoforte usato percussivamente nella parte grave, opposto ad accordi minacciosi di ottoni, in un viluppo ostinato e ribattuto contrassegnato da accenti degli archi, il tutto praticamente indifferente a qualsiasi ancoraggio tonale. Anche “A precipizio nel fondo” evoca, armonicamente, una fase drammatica nel tema dei due legni contrappuntato dagli archi, e nel richiamo distante ma penetrante dei corni, il tutto poi collegato nuovamente dagli archi. Appare di nuovo il tema di “D’amore una storia”, ma stavolta legato nei violini, in un fluente, vibrante cantabile, e l’idea variativa che sta alla base della partitura si espande ulteriormente in altre due “seconde versioni” di brani: “Difficoltà nei rapporti” e “A piedi nudi sulla sabbia”. Il primo delega al canto struggente della viola d’amore un pathos mediterraneo quieto ma imperioso, mentre il secondo è pagina di struttura formidabile e geniale: al sottotesto originale delle percussioni infatti qui si sostituisce un ostinato di pizzicati gravi che fa da substrato ritmico implacabilmente pacato. Su questo i violini legano inizialmente il loro tema, ma a questi si aggiunge un nuovo movimento di due archi divisi, anch’esso secondo uno schema iterato e inesorabilmente regolare. La pagina si trova così formata da tre strati progressivi in cui la stessa sezione orchestrale viene tripartita in funzioni diverse, con un effetto suggestivo di rara potenza, che viene alla fine incanalato in un accordo conclusivo di si minore.
Osservavamo già in altre circostanze come l’ultimo Morricone sembri riflettere, dall’alto di una sapienza compositiva ormai unica, su modelli e procedure che il maestro ha perfezionato ampiamente in sessant’anni di carriera: questo lavoro non fa eccezione, offrendo, al di là della committenza seriale, una piccola crestomazia di pagine, momenti e inquietudini nei quali è sempre consistito, con varia intensità e diverse accentazioni, il fulcro della sua opera.

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