William Walton - Tra Londra e Ischia tra musica da concerto e musica per film

cover_libro_comuzio_walton.gifErmanno Comuzio
William Walton - Tra Londra e Ischia tra musica da concerto e musica per film (2013)
pagg. 127, Grafital s.r.l. Edizioni, Torre Boldone (BG)
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Nel 1996 Ermanno Comuzio, “padre” italiano di tutti gli studi di musica cinematografica scomparso il 24 agosto dell’anno passato, fu invitato dall’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli in unione con il circolo “Georges Sadoul” di Ischia a tenere un corso di lezioni sul compositore britannico William Walton e sui musicisti inglesi del ‘900. Non stupisca la collocazione geografica. Walton infatti, nato a Oldham nel Lancashire, nel nord-ovest dell’Inghilterra, il 29 marzo 1902 scomparve proprio a Ischia, nella sua villa di Forio, l’8 marzo 1983: in quell’Italia e in quel Mediterraneo che adorava e che ne avevano non poco influenzato e addolcito l’ispirazione.
 I testi di quelle lezioni, ampliati e approfonditi, divennero in seguito un libro, sin qui mai edito. Ora la famiglia Comuzio, in segno di omaggio a Ermanno ma anche per ricordarne la passione, la perizia, la competenza e l’amore totale per cinema, musica e teatro, ne ha deciso la pubblicazione, regalandoci non solo una testimonianza analitica preziosa sull’argomento specifico ma un ultimo significativo lascito del suo metodo di studioso e della sua inconfondibile, approfondita eppure colloquiale, “gentile” scrittura (l’istituzione di un “archivio Comuzio” che ne raccogliesse e sistematizzasse tutti gli scritti, i materiali e gli interventi sarebbe un’iniziativa di inestimabile valore).  Scorreva sicuramente una profonda affinità fra l’argomento di queste lezioni nonché di questo libro, ossia la musica cinematografica inglese, e la natura stessa di Ermanno Comuzio, che era il più “british” dei nostri critici cinematografici: un gentiluomo lombardo che pareva uscito da un set di David Lean o di James Ivory, e che alla passione e preparazione, costruita in decenni di visioni, ascolti, annotazioni, raccolta di fonti e informazioni, univa il tratto pacato ma fermo di un esegeta rigoroso e acuto, dai giudizi a volte pungenti ma sempre garbati e civili, sideralmente estraneo alla volgare, violenta aggressività verbale e intellettuale che, tentando invano di mascherare l’assenza di contenuti e di cultura, domina ormai ampi settori della critica in ogni campo, e purtroppo non solo della critica.
 Colto nella sua fertile ambivalenza fra tradizione e modernità, fra “inglesità” e avanguardia, fra pomposa seriosità britannica e incontenibile humour, William Walton è individuato da Comuzio come perfetta figura di transizione fra le epoche, protagonista di una stagione creativa che vedeva l’Inghilterra in netto ritardo rispetto ad altre aree europee (in particolare l’area mitteleuropea) sul piano delle conquiste dell’avanguardia musicale. La vivace problematicità di questa fisionomia è quindi da Comuzio collocata sullo sfondo di un’analisi più complessiva, agile quanto esaustiva, del panorama della musica inglese d’inizio Novecento, dal caposcuola Britten a Elgar, da Delius a Tippett, da Vaughan-Williams a Holst, e dei suoi ambivalenti rapporti con l’Ottocento austro-tedesco e con i retaggi postromantici e postwagneriani. Emerge il ritratto di una nazione sempre in bilico – su questo come su altri fronti – fra i legami con il passato, l’attaccamento alle tradizioni, e l’irriverente tendenza alla loro demistificazione e destrutturazione ironica, che nei decenni – trascorsa l’irripetibile esperienza del “teatro d’anima” britteniano – giungerà sino al minimalismo di Michael Nyman.
 Autore di opere (“Troilo e Cressida”), balletti (“il più celebre “Façade”), musica da camera e sinfonie, vocale e per banda, Walton – cui toccò l’onore di orchestrare l’esecuzione dell’Inno nazionale inglese “God save the Queen” per l’incoronazione di Elisabetta II nel 1953 – aveva trovato nel cinema, più e meglio di altri musicisti suoi conterranei, una particolare, eterodossa fonte d’ispirazione: ma, come ben sottolinea Comuzio, la composizione per il cinema era da lui considerata, a differenza della maggioranza dei suoi colleghi, un genere di “pari dignità” rispetto a tutti gli altri, cui dedicarsi con la medesima attenzione, concentrazione, cura di qualsiasi altro settore. A questo atteggiamento, decisamente “europeo”, Walton univa una straordinaria facilità nell’assemblare e introiettare gli elementi più diversi, le fonti più disparate dell’ispirazione musicale: dalla canzone popolare alle reminiscenze spagnoleggianti, dalla musica militare a quella medioevale, prosciugandone ogni prolasso retorico, giocando sull’alternanza fra un romanticismo a tratti persino patetico, una nobiltà d’eloquio “regale” ma sobria, ed una sorridente, lieve sdrammatizzazione del tessuto sonoro. Sin dall’esordio con lo score per la prima versione di Non mi sfuggirai (1935, regia Paul Czinner), apparve chiaro il metodo di Walton: la cui orchestrazione evitava sistematicamente le trappole della ridondanza e dei comuni stereotipi hollywoodiani e puntava ad una dialettica drammatica, narrativa, sempre in movimento fra musica e immagine.
 Passa di qui il percorso che lo condurrà alla collaborazione fondamentale per la trilogia shakespeariana di Laurence Olivier (Enrico V, Amleto, Riccardo III, tra il ’44 e il 55) con un trittico di partiture che assorbivano con inesauribile inventiva moduli classici, spunti arcaici, istanze moderniste, architetture sinfoniche ed elementi folklorici. Qui l’analisi di Comuzio si fa puntuale e dettagliata, consegnandoci un ulteriore e prezioso esempio del suo metodo di lavoro, corredata da esempi musicali, supportata da una vastissima rete bibliografica, suggellata da scheda biografica, catalogo delle opere e nota discografica, confermando così la struttura del libro, che muove da un’indagine complessiva sullo “stato di un’arte” per focalizzarsi, contestualizzandolo, su uno dei suoi principali protagonisti. Nella convinzione, del tutto condivisibile, che Walton fosse un “drammaturgo” musicale straordinario e che non solo il cinema ma l’intera cultura inglese del Novecento abbiano ricevuto dalla sua opera un imprescindibile contributo di innovazione.

 

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