Torn Music - Rejected film scores - A selected history

cover_libro_torn_music.jpgGergely Hubai
Torn Music - Rejected film scores - A selected history
Silman-James Press, Los Angeles (USA), 2012
Pagg.476, $ 24,95
http://www.silmanjamespress.com/
gwen@silmanjamespress.com


A Hollywood gira, fra i tanti, un detto: non sei un vero compositore per il cinema se almeno una volta non ti hanno rifiutato una partitura. A ricordarlo, nella prefazione di questo incredibile e imprescindibile, monumentale (anche per dimensioni) volume, è Christopher Young, compositore americano di spicco (e non abbastanza richiesto) della generazione dei cinquantenni, che conosce bene l’argomento essendosi trovato nella sua carriera a ricoprire entrambi i ruoli, sia quello di musicista respinto sia di musicista supplente: veste umiliante quant’altre mai la prima, in cui si vede il proprio lavoro fatto e finito venir buttato via per le ragioni più impensabili e spesso miserande; ruolo imbarazzantissimo il secondo, nel quale un artista è chiamato a prendere il posto di colui che spesso è un collega stimato o addirittura un caro amico. Il fenomeno dei “rejected scores” è, come si vede, un evento sia artistico che industriale che umano: e, come ricordavamo qualche settimana fa occupandoci dell’uscita discografica in tre cd La-La Land Records di Il bambino d’oro contenente sia la partitura respinta di John  Barry che quella poi utilizzata di Michel Colombier, attraverso la storia delle partiture rigettate si potrebbe quasi costruire una storia parallela della musica per film: quella occulta, rinnegata, a volte seppellita, altre volte – fortunatamente, e grazie alla discografia e a divulgatori emeriti come Elmer Bernstein o Jerry Goldsmith, entrambi più volte coinvolti di persona nell’argomento - tornata alla luce, portando queste partiture al confronto con chi vi è subentrato, confronto spesso impietoso per i “maestri sostituti” (il caso Barry-Colombier ne è un esempio).
Il poderoso tomo dell’appena ventottenne studioso di origine ungherese, frutto di conoscenze approfondite, di ricerche indefesse, di caccia alle fonti, scritte e orali, di perlustrazione di ogni archivio esistente, traccia ora una possibile storia di questo argomento attraverso la selezione e la documentazione investigativa capillare su 350 titoli che hanno visto, dagli anni ’30 al primo decennio dei 2000, una sostituzione in blocco della parte musicale o la compresenza di due partiture, una per la versione del paese d’origine l’altra per il mercato estero, o infine ancora la presenza di “addictional music”.
Sono fenomeni e casistiche diverse, e diversamente incidenti nel tessuto del film e nel lavoro dei compositori, e non c’è dubbio che il rigetto puro e semplice di una musica e la scelta di cambiare compositore sia la scelta più traumatica nonché la più diffusa. Varrà appena la pena di ricordare che il titolo del libro è mutuato da quel Torn curtain (Il sipario strappato, 1966) che segnò la rottura definitiva e violenta fra Bernard Herrmann e Alfred Hitchcock, dopo che – provocatoriamente – alle richieste del regista di scrivere una partitura “pop”, orecchiabile e provvista se possibile di qualche canzone alla moda dei Sixties, il grande compositore aveva risposto con uno dei suoi scores più violenti, aggressivi, eccentrici e sinfonicamente temerari. Si tratta di un caso-limite, cui non a caso Hubai dedica molto spazio (il libro è intelligentemente diviso per capitoli in ordine cronologico, ad ognuno dei quali corrisponde un titolo: il tutto corredato da un minuzioso indice dei nomi e da un formidabile, inoppugnabile elenco delle fonti), sia per lo iato qualitativo tra la partitura di Herrmann e quella del subentrato John Addison, sia per le conseguenze (umanamente deplorevoli ma artisticamente fortunate) che questo ebbe nella successiva carriera del compositore americano, sviluppatasi prevalentemente in Europa e destinata, grazie a registi “filohitchcockiani” come Brian De Palma, François Truffaut o i meno noti Sidney Gilliat, Alastair Reid e Pim de la Parra, a lasciarci alcuni autentici capolavori.
Varie e molteplici le cause che spingono una produzione o un regista a respingere al mittente una musica già scritta orchestrata e spesso registrata, per rimpiazzarla con un’altra. Ma il motivo di fondo – lo ricorda acutamente Hubai – è che poiché normalmente la musica giunge come elemento ultimo nella lavorazione di un film, essa costituisce anche il fattore, l’ingrediente su cui si può agire più facilmente per cercare di migliorare un prodotto finito allorché ci si accorga che questo non funziona. In parole povere, si cambia musicista sperando di rendere più appetibile un film malriuscito: ancora una volta, il caso hitchcockiano ne è la prova lampante (e fallimentare, giacchè Il sipario strappato rimane uno dei fiaschi di pubblico e critica più clamorosi nella carriera del regista).
Naturalmente, all’interno di questo principio, le variabili si moltiplicano e la casistica aumenta esponenzialmente. Non sempre alla base vi sono la malafede o l’avidità dei produttori, o l’ignorante cinismo del regista. Vi sono casi in cui il compositore non riesce a finire il lavoro, altri in cui si crea un misunderstanding palese fra compositore e committenza, altri ancora in cui il diverso mercato distributivo del film richiede due o più “versioni” musicali a seconda dei paesi di uscita (ma all’interno di quest’ultima eventualità si son compiuti spesso veri e propri misfatti, come nel caso di Il disprezzo di Jean-Luc Godard, 1963, con le due partiture antitetiche di Georges Delerue e Piero Piccioni). Vi sono anche casi in cui il compositore, specie se “altolocato”, viaggia per conto proprio prescindendo dal film e convinto di poter gestire la situazione da una posizione di prestigio. Questo riguarda soprattutto i tentativi del cinema americano di far collaborare compositori fondamentali del Novecento storico come Maurice Ravel, Heitor Villa-Lobos, Igor Stravinsky o Arnold Schönberg, tentativi tutti diversamente naufragati e tutti ricostruiti da Hubai: fermo restando la misteriosa assenza, anche solo a livello di contatti, fra Hollywood e il compositore del Novecento cui forse più deve in assoluto la storia della musica per film, ossia Sergej Rachmaninov (la cui musica peraltro è stata sovrabbondantemente utilizzata dal cinema). L’esempio dell’autore del “Bolero” e del Don Chisciotte di Pabst (1933), per il quale il produttore Selznick indisse una sorta di sciagurata “gara d’appalto”, ognuno all’insaputa dell’altro, fra Ravel, Jacques Ibert, Darius Milhaud, Manuel De Falla e Marcel Delannoy (vinta poi dal secondo), è plateale: ma anche il modo in cui Irvin Thalberg trattò il padre della dodecafonia, inizialmente assunto per lo score di La buona terra (1937), bocciandone il lavoro – certamente estraneo ai canoni hollywoodiani – senza degnarlo di una spiegazione, è emblematico: così come, sul fronte opposto, fa specie l’imprudente prosopopea di Stravinsky che, contattato dalla Columbia per la partitura del war-movie resistenziale Uragano all’alba (1942) cominciò tranquillamente a scrivere la sua musica senza uno straccio di contratto, senza aver visto un fotogramma del film e prendendosi tutto il tempo necessario come si trattasse di una propria normale composizione sinfonica. Ovvero, senza minimamente porsi il problema (e i conflitti che da questo naturalmente derivano per i compositori “alti”, v. Sostakovich o Prokofiev, ma anche per quelli specializzati) di differenziare metodologie, tempi e tecniche tra la musica concertistica e quella applicata.
Il libro di Hubai – frutto di una passione evidentemente genetica e sviluppata in un lavoro iniziato dall’adolescenza - si legge, per gli esperti e per chiunque abbia a cuore la storia della musica per film, come un avvincente romanzo a puntate, ad ognuna delle quali corrisponde un titolo,  ciascuno dei quali a sua volta reca con sè una storia, una genesi, un percorso. La mole di informazioni di prima mano, di interviste raccolte dai protagonisti (registi e compositori, sia sostituiti che sostituti), di dettagli anche aneddotici, nonché la competenza specifica, tecnica e storica, e la precisione da altissimo giornalismo di servizio con cui l’autore fornisce i dati e gli apparati cognitivi essenziali per ogni nome e/o titolo chiamati in campo, rendono “Torn Music” un esempio di saggistica unico nel suo genere.
La casistica, anche umana, si rivela praticamente inesauribile e a volte davvero spiacevole. Se normalmente l’avvicendamento avviene quasi in automatico, e i compositori rimpiazzati sono i primi a non stupirsi – magari accingendosi a loro volta a rimpiazzare qualcun altro, spesso colui che poco prima li aveva surrogati - si notano però curiosi esempi di “accanimento”, come la staffetta fra Michel Legrand e John Barry (Robin e Marian, La virtù sdraiata), due tra i maestri che più spesso ritroviamo nell’uno o nell’altro ruolo – vi sono talvolta esempi di tracotanza e/o semplice maleducazione da parte dei produttori o registi che rimangono scolpiti nella memoria: come il modo in cui Stanley Kubrick liquidò Alex North (che pure gli aveva regalato una partitura-capolavoro per il suo Spartacus, 1960) nel 1968 sostituendo il suo score sperimentale e d’avanguardia per 2001 odissea nello spazio con il ben noto collage di pagine classiche (operazione ripetuta dal regista, che come noto rifuggeva dalle partiture originali a favore della propria discoteca personale, anche in Shining a discapito di Wendy Carlos, altro/a suo/a fedele sodale); oppure la sbrigatività e l’arroganza con cui William Friedkin licenziò e respinse la partitura, ancora una volta spiccatamente d’avant-garde, di Lalo Schifrin per L’Esorcista, di nuovo per far posto a un pot-pourri rock-classico-contemporaneo.
Vi sono poi casi di compositori che hanno sostituito… se stessi, come il nostro Ennio Morricone (più volte in rotta di collisione con produttori e registi per il proprio radicalismo), costretto dopo una prima partitura a riciclare per Joss il professionista, 1981, la propria canzone “Chi mai” cantata con voce rauca e sexy da Lisa Gastoni per un dimenticatissimo Maddalena di dieci anni precedente; nonché – meno infrequenti di quanto si creda – casi di tripla sostituzione, in una sorta di ricerca infinita di salvataggio di film che probabilmente erano destinati a soccombere al box-office. Come Terrore cieco, 1971, di Richard Fleischer, “blind-thriller” con Mia Farrow non vedente perseguitata da un maniaco omicida, che nacque con uno score di André Previn, all’epoca marito dell’attrice, poi sostituito da David Whitaker a sua volta rimpiazzato da Elmer Bernstein! Hubai si rivela preciso e implacabile investigatore di questa casistica (solo parziale, il sommerso è probabilmente ancora più vasto) anche nel documentarci sui materiali sopravvissuti, specificando in quali casi le partiture rigettate sono state comunque recuperate, registrate e pubblicate su disco, o in quali altri comunque alcune tracce sono confluite in altri lavori e sono rintracciabili in altre antologie.
Di tutto questo incredibile viaggio attraverso otto decenni di musica cinematografica (in pratica tutta la sua storia) segnaliamo soltanto due “avventure” particolarmente significative, sulle quali lo studioso fa finalmente piena luce: la storia del “James Bond Theme” conteso fra Monty Norman e John Barry per Agente 007 licenza di uccidere, 1962, e la sostituzione di Howard Shore con James Newton Howard per il King Kong di Peter Jackson, 2005. Nel primo caso viene chiarita esattamente la paternità della celebre pagina, il cui nucleo centrale (il tema per chitarra di due note ribattute otto volte, eseguito da Vic Flick) di Norman venne avvolto dallo scatenato arrangiamento jazz-sinfonico di Barry e preceduto dalla cantilenante e ossessiva terzina cromatica a saliscendi, sino a divenire non più un “arrangiamento” ma parte integrante del tema stesso: il tutto destinato a finire per decenni in aule di tribunale fra i due compositori inglesi in un estenuante conflitto di attribuzione.
Al capo opposto, il divorzio fra il regista e il compositore che insieme avevano creato l’immensa saga, anche musicale, de Il signore degli Anelli, avvenne consensualmente e senza traumi, una volta preso serenamente atto che fra i due non c’era più quel comune sentire di ispirazione che aveva reso possibile l’impresa precedente. Tuttavia, da quel poco che è rimasto della partitura di Shore, non sembra che la sostituzione da un Howard… all’altro abbia giovato molto al film, destinato ad un flop clamoroso e malservito da una musica ridondante e scarsamente personalizzata. Ma il dato bizzarro è che, prima di essere amichevolmente licenziato, Shore fece in tempo a registrare una scena in cui appare come direttore d’orchestra durante il gala di “esibizione” della Bestia, impegnato a dirigere nient’altro che brani dalla storica partitura di Max Steiner per il primo King Kong (1933) . Questo prima che Kong irrompa nella buca orchestrale e si avventi sul malcapitato maestro: una forma davvero brutale, scherza Hubai, di respingere un compositore!...
In sintesi, siamo dinanzi ad un lavoro che coniuga, in una piacevolissima e avvincente lettura, la ricerca sul campo con una febbrile perlustrazione dietro le quinte e con una profondissima conoscenza della materia – sia musicologica che filmica, fatto assai raro - in ogni suo risvolto, e in ogni suo periodo storico.
Infine, ove per caso vi chiedeste se esiste almeno un caso di un compositore famoso che violi il detto hollywoodiano con cui abbiamo aperto questa nota, ossia che non abbia mai dovuto subire l’onta del rifiuto e del rimpiazzo venendo viceversa più volte chiamato a subentrare ad altri musicisti, ebbene sì c’è: si chiama John Williams. Una ragione ci sarà…

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