Revolutionary Road

cover_revolutionary_road.jpgThomas Newman
Revolutionary Road  (id. - 2008)
Nonesuch Records 517387 
15 brani – Durata: 45’ 47’’

 

È la storia di una sconfitta, di una resa nei confronti del dolore e dell’inadeguatezza quella che Sam Mendes ha scelto di raccontare nel suo Revolutionary Road, ultimo film del regista inglese tratto da un celebre romanzo di Richard Yates. Una storia di disperazione, dunque, a cui Thomas Newman, già collaboratore di Mendes in più di un’occasione, ha dato voce con una partitura semplice, poco invadente, che non sorprende l’ascoltatore con invenzioni musicali particolarmente originali, ma che è comunque in grado di colpire duramente e di emozionare.
Il film è un dramma raggelato, i personaggi sembrano galleggiare negli ambienti: il regista non corre, osserva, contempla con sguardo preciso e malinconico quei tempi morti, quei silenzi o quelle interminabili, crudeli discussioni che sono parte della vita di chiunque. Lo score di Newman non è però freddo né, al contrario, eccessivamente passionale, è bensì delicato e partecipe, è bello di una bellezza splendente e inquietante, come quella luce incredibilmente bianca e pulita che riempie le inquadrature di Mendes. 
La caratteristica più rilevante della colonna sonora è l’ossessività espressa attraverso la reiterazione insistita di gruppi di note, particolarmente evidente in “Night Woods”, quasi insopportabile nella sua ripetitività, ma anche nel tema principale che torna spessissimo lungo lo sviluppo dello score, dall’introduttivo “Route 12” agli “End Titles”. Si tratta di una melodia semplice e malinconica, che ad una prima impressione può persino apparire un po’ impersonale ma che poi, di brano in brano, cresce e si arricchisce, toccando accenti di disperazione e di forte intensità drammatica.
Notevole da questo punto di vista è “April”, la traccia più lunga dell’album nella quale torna nuovamente il tema principale, diluito e rarefatto. Newman conduce la melodia ad identificarsi con quello sguardo pieno di disperazione sorda che la protagonista rivolge verso la realtà e verso se stessa; il pezzo si incupisce nella parte finale, si carica di un opprimente senso di tragedia dando così voce all’orrore nero che occupa la mente di April.
Il compositore non rende mai aggressive o rabbiose la tristezza e la depressione che abitano i corpi dei personaggi e così i brani risultano spesso contemplativi, quasi dolci (“Picture Window”, “Simple Clean Lines”) fino a costruire un’atmosfera densa, avvolgente, sinuosa in “Golden People”.
Non c’è varietà di temi nella partitura, ambienti e personaggi parlano la stessa lingua e dicono le stesse cose, non c’è mai un vero e proprio dialogo, né nella musica né nel racconto cinematografico; proprio a questa stasi della comunicazione e dei sentimenti Newman vuol dar voce con “Hopeless Emptyness” che, già dal titolo, si presenta come mezzo per veicolare uno dei concetti attorno a cui ruota l’intero film, quel vuoto di senso che tanto spaventava i protagonisti April e Frank e che si esplicita nell’amaro, conclusivo “A Bit Whimsical” attraverso cui la musica riassorbe in una sorta di quiete immobile il dolore espresso dai brani precedenti, in particolare dall’ultima, tesissima parte di “April”.

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