The Curious Case of Benjamin Button

cover_benjamin_button.jpgAlexandre Desplat
Il curioso caso di Benjamin Button  (The Curious Case of Benjamin Button, 2008)
Concord Records – CRE 31231-02
Disco 1 (score): 23 brani – durata: 60’10”
Disco 2 (repertorio e dialoghi): 23 brani – durata: 52’02”

In una storia ideale dei gusti e delle abitudini dell’Academy Award il 2008 merita di passare agli annali d’oro. Il massimo autocompiacimento dell’establishment critico si è realizzato quest’anno in un quintetto di candidature dove il biopic, basato sulla realtà o d’invenzione pura, si offre al meglio e in tutte le sue declinazioni più popolari. Il curioso caso di Benjamin Button, perfetto esercizio filmico della parabola esistenziale secondo i canoni della nuova classicità, ha offerto un'ulteriore ragione di affezione per la giuria dell’Oscar rispetto agli omologhi contendenti Milk e The Millionaire, perché garante di un conservatorismo ancora fondante le attitudini dei votanti nonostante le passate dimostrazioni di audacia. Le somiglianze strutturali del film di David Fincher con Forrest Gump, premio Oscar nel 1994, che da più parti sono state evidenziate non devono aver lasciato indifferenti i membri dell’Academy, favoriti piuttosto in un’operazione di orgogliosa e gongolante autocelebrazione nell’attribuirgli ben 13 nomination. E in effetti la pellicola interpretata da Brad Pitt e tratta dal novella di Fitzgerald non condivide con la favola americana di Zemeckis solo il suo sceneggiatore Eric Roth, ma anche un’impostazione di regia e un’articolazione d’intreccio da parte di Fincher che, salvo aver mancato la visione del referente, obbliga a continue sensazioni di déjà vu, non di rado al limite della sfacciataggine. Senza considerare quanto il regista si sia prodigato nella costruzione del “capolavoro perfetto” regredendo dalla vespertina, personale idea cinematografica finora sostanziata nei suoi precedenti lungometraggi – di cui resta, spesso solo in controluce, davvero poco. E’ noto in fondo come l’Academy sia ormai abbonata alle tratte ritardatarie e congenitamente affetta da miopia, cause alle volte sconcertanti di quanto si possa arrivare a premiare (anche solo con la candidatura) autori di primo rilievo alla loro opera forse meno rappresentativa e meritoria. Riconoscimenti che intercettano un regista al suo esito meno autentico, spersonalizzante e omologante.

Di certo, premiando il commento originale di A.R. Rahman per The Millionaire, gli Oscar hanno mancato quest’anno l’occasione importante di riconoscere il talento, altrove ormai ampiamente conclamato, di Alexandre Desplat (leggi l'intervista sul nostro sito), che applica con il suo contributo musicale un apporto decisivo alla pellicola di Fincher elevandola quanto più possibile al di sopra della derivazione e della pura confezione. Di pari passo con il lavoro del direttore della fotografia Claudio Miranda, Desplat ha saputo cogliere gli elementi maggiormente genuini del progetto, provvedendo ad una caratterizzazione del testo non limitata all’idea di partenza e allo sviluppo risaputo, bensì alla forgia di un commento capace di individualizzare il racconto, astrarlo nella sfera del suo elemento più esclusivo: l’egemonia del tempo. Una volontà di rendere autonomo e riconoscibile il film che trova fondamento nelle dichiarazioni del compositore riguardo la scelta di astenersi – in accordo col regista – da una cornice d’ambientazione troppo influenzata nella forma dallo scenario musicale che la sceneggiatura avrebbe imposto: il jazz big band anni ’30 che anima New Orleans. Ipotesi peraltro incapace di salvaguardare un deriva anacronistica vista lo spandersi dell’azione per ben otto decadi (dal 1918 al 2005). Piuttosto Desplat integra nella sua tavolozza strumentale le timbriche definenti quello scorcio storico (Fender Rhodes, chitarre elettriche, trombe in sordina e sassofono) ma le rielabora ai fini di un idioma musicale che sembra trovare il suo soffio d’ispirazione e la sua massima contestualizzazione nei piani esplicativi dell’epilogo: veri e propri quadri che ritraggono i protagonisti del lungometraggio fuori dal tempo, cristallizzati nel pieno delle loro personalità, elevati dal loro cammino esistenziale e fotografati all’azimut delle rispettive potenzialità.

Questa passerella riepilogativa ben inquadra lo spirito compositivo perseguito dall’autore, evidenziandone i principi di senso e di conformazione ambientale dell’organica partitura. La preferenza di Desplat per uno svolgimento sintattico improntato, in pressoché tutti gli interventi di scoring, alla compiutezza e all’eleganza formale (ogni cue è una miniatura compiuta dell’intero obraz musicale del film) attivano un generale procedimento di sviluppo circolare raffreddato stilisticamente nella sensazione di moto perpetuo: è la scomposizione metonimica di quel freeze temporale ricercato nella citata sequenza di chiusura che pervade il film come semema sonoro dell’ubiquità immanente del tempo. Persino quando chiamato a dar voce allo scorrere “ticchettante” degli eventi, al necessario ma parsimonioso incremento ritmico il compositore giustappone un freno equilibratore a livello orchestrale: il suono mistico di un cimbalom, certamente non annoverabile tra le fila degli strumenti mandatari di flagrante urgenza. Semmai una propagazione metafisica dell’addivenire quotidiano come hic et nunc piuttosto che come avvicendamento degli eventi (interessate notare come lo strumento ungherese sia già stato scelto da Osvaldo Golijov, in tempi recenti, per le musiche del coppoliano Un’altra giovinezza, altro plot intessuto sull’importanza del tempo). Dunque dai quadri essenziali dei personaggi all’immagine-suono, poi direttamente ad un suono-tempo che agisce come emanazione, assecondata nella sua significazione da un spotting assai generoso – controtendenza del progetto sonoro di Fincher e Desplat rispetto all’analogo di Zemeckis, dove il repertorio aveva la meglio sull’underscore (Benjamin Button offre comunque squarci di musica d’epoca, tra source ed extradiegetico, raccolti nel secondo cd della presentazione discografica del soundtrack). Inevitabile allora – e anzi quasi naturale - che il compositore ritorni alla costruzione minimalista approntata con successo in Birth unendo alla possibilità di assecondare le volontà di Fincher – dichiarato estimatore della partitura e probabilmente principale fautore della sua inclusione nella temp-track – un’aggiuntiva sublimazione temporale attraverso quella persistenza del pattern così innata all’espressione reiterata della forma minimalista. In ultimo, le inquadrature esplicative finali sanzionano alcune delle maggiori influenze estetiche del lungometraggio riflesse nell’elaborazione coloristica del lavoro di Desplat. L’iconografia da Belle époque del fotografico, circense e felliniana, enfatizzano la congenialità dei contorni da operetta del tratto musicale, il forte ascendente del parossismo di Nino Rota tanto quanto dell’insistito ricorso ai tempi valzeristici. Il ballo in 3/4 come metafora di un movimento centripeto, di un darsi circolare dell’avvenimento esistenziale. Trama e personaggi sono consegnati alla balìa di un tempo inclemente ma incidentalmente dolce ed emotivamente carezzevole, da cui il cullante effetto carillon della scrittura musicale capace di riscattare il testo dall’operosità di una paratassi narrativa tipicamente postmoderna riaffermandone il valore intimamente lirico degli intenti. Alla stessa stregua potrebbero essere lette le assonanze di alcuni interventi con la più nota opera di Satie, quelle Gymnopédie portatrici di un’istantanea ebbrezza malinconica, perpetuo sospiro di un tempo onnipresente il cui procedere è sostanziato dalla dolcezza melodica fugacemente rilasciata al suo passaggio.

Posta un’intelaiatura di siffatto rigore metrico – la determinazione lineare degli spartiti produce interventi spesso sviluppati lungo un’unica divisione di tempo e ritmo – la colonna musicale di Benjamin Button interagisce dialetticamente con le immagini soprattutto in sede di orchestrazione e di tramatura armonica. All’interno di un’incessante permanenza dell’orizzontale dominio temporale la musica affianca semanticamente il racconto attraverso un procedimento di corrispondenza verticale, fatto di accumuli, entrate e sovrapposizioni strumentali. Desplat, che magistralmente dimostra il suo expertise nella difficile pratica di accoppiamento del minimalismo alla forma cinematografica narrativa, interagisce per sincresi media, in una logica interna (continua e progressiva) tutt’altro che abbandonata al free-timing, arrivando a mantenere unità e varietà proprio sul doppio binario della variazione minima e della descrizione sincronica. Verso un traguardo – raggiunto – fortemente isotopico. Il cesello timbrico collabora in maniera decisiva, mantenendo tra i due livelli equilibrio formale ed evitando potenziali derive nel conflitto semiotico. Se infatti l’avvicendarsi puntale degli strumenti garantisce il necessario dettaglio descrittivo, la predisposizione per le timbriche fortemente riverberanti, prolungate e trasparenti (su tutti gli archi, l’arpa, il flauto e il citato cimbalom) si sintonizzano all’effimera caducità rimarcata dalla metrica sottostante. In alcuni casi il procedimento evapora verso un’inflazione del ritmo a favore del colore, sospendendo il progredire degli eventi a favore di una singolarità. Si veda soprattutto l’impianto concepito per i momenti di maggiore intimità del protagonista eponimo con l’amata Daisy, caratterizzati da un idillio rinascimentale dettato dall’etera voce dell’arpa. L’effetto è particolarmente interessante in “Children Games”, dove per altro Desplat, a partire dal titolo, sembra profondamente debitore (o riconoscente) del delicato “Toys” di John Williams per E.T. (ma l’afflato williamsiano segna trasversalmente altre parti del cimento, elevandosi vividamente anche in “Alone At Night”).

Sebbene lo score trovi massimo valore nel lavoro ritmico-armonico, Desplat ha comunque un bel da farsi nello sviluppo di una vivida e coesa fisionomia melodica – purtroppo indebolita su disco da una compilazione non cronologica. L’impianto tematico brilla di un acume non intrusivo e a sua volta rassegnato al dominio tempistico. Persino quando interessato ad alludere melodicamente al motivo centrale del film, l’invecchiamento al contrario, il compositore lavora internamente, svolgendo la seconda frase del tema di Benjamin come un retrogrado della prima abbinato ad una modulazione accordale da maggiore a minore, lasciando così immutato l’incedere del componimento. Desplat agisce sugli intervalli, definendo un certa preferenza strutturale per i cromatismi. E se questo atteggiamento melodico, che tanto pare accomunare la recentissima produzione mainstream (da Twilight di Burwell a Che di Iglesias), trova diretta giustificazione nella volontà di sincretizzare il linguaggio jazz dell’epoca con lo score (il tema ‘ellingtoniano’ della giovane Daisy in “Meeting Daisy”), altrove rappresenta forse l’unica vera caratterizzazione di quella misteriosa e sovente imperscrutabile metafora giacente nel testo che il regista non pare essere riuscito a visualizzare con la sagacia dello sguardo autoriale espletato in passato e che tanto avrebbe giovato in questo frangente. Inoltre, aprendo a sensibilità esotiche profuse tanto nell’accenno pentatonico della melodia quanto nella resa timbrica del violoncello (è il caso dello straordinario “Sunrise On Lake Pontchartrain”), la musica aggiunge alla fibra sonora un necessario alone mistico reclamato dallo sbozzo “trascendentale” di un protagonista allegoricamente diviso tra umano e straordinario (opacità di sceneggiatura che contemporaneamente gioca a favore e a sfavore dell’interpretazione di Pitt).

Desplat dunque pare l’unico - come detto, insieme alle luci di Miranda - ad ergere un ponte tra Benjamin Button e la pregressa opera di Fincher: quel frequente cromatismo non a caso aleggiava tutt’altro che secondario nel livido e sottocutaneo score di David Shire per Zodiac, prova sicuramente più personale e coerente del regista di Denver. Ma qui si esaurisce il grosso del rimando intertestuale nella prova del musicista francese – che sia più o meno volontaria non è dato sapere – per il resto alacremente dedita all’istanza e ai bisogni della pellicola. Tanto che a conti fatti, sul profilo musicale, l’ingaggio di Desplat sostanzialmente sembra dare molto a Button e togliere in parte al cinema di Fincher così come finora fruito. I precedenti contributi di Goldenthal e Shire, ma soprattutto di Shore, restano strettamente connessi con l’anima genuinamente torbida del regista. Bilancio da cui si evince la fortuna del cineasta nell’aver ottenuto l’apporto di Desplat: gli altri, per indole endemicamente legati all’altra identità del regista, forse non avrebbero saputo fare altrettanto bene.

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