Mission: Impossible – Fallout

cover mission impossible falloutLorne Balfe
Mission: Impossible – Fallout (Id., 2018)
La-La Land Records
26 brani – Durata: 95’59”

Non è dato sapere che cosa Lalo Schifrin (classe 1932 come Williams e Legrand) pensi delle partiture susseguitesi per oltre vent’anni nel ciclo di film derivati dalla celebre serie TV degli anni '60 di Bruce Geller, cui regalò quell’intramontabile, fulminante e adrenalinico leit-motif. Forse si sarà accontentato che questo tema ricorra come logo in ciascun capitolo (anche se in quest’ultimo occorre aspettare oltre venti minuti per ascoltarlo compiutamente, in “Fallout”).

Più probabile che come noi comuni mortali stenti a raccapezzarsi nel ventaglio di compositori e di stili succedutisi, senza eccessive preoccupazioni di mantenere un’atmosfera e un “segno” musicali unitari: ma se nel ‘96, per il primo capitolo di De Palma, dopo la rejected score di Silvestri, Danny Elfman dimostrava di possedere ancora sufficienti risorse di quel fantasismo e colorismo orchestrali poi persi per strada, gli epigoni, pur con risultati eccellenti, sono andati ciascuno un po’ per conto proprio. Zimmer ha adottato i suoi soliti toni da Crepuscolo degli Dei, Giacchino si è scatenato per due volte in lavori di straordinaria fattura e complessità, e Joe Kraemer ha sorpreso tutti in Rogue Nation con una score impreziosita da elementi esoticheggianti e acuta rielaborazione dei materiali preesistenti.
 Lavori discontinui ma egregi, insomma.
 Al proprio turno, Lorne Balfe conferma l’impressione di aver ormai, per questo genere di film, inserito il pilota automatico. Se la definizione, in questo contesto, avesse un senso e non denotasse un concetto antitetico allo stile del compositore inglese, verrebbe da parlare di “minimalismo action”. Detta altrimenti: si prendono due o tre cellule ritmiche, prevalentemente ostinati di archi (“Good evening, mr. Hunt”) o rulli galoppanti di percussione (“A storm is coming”), meglio se combinati (“The manifesto”), e si crocifigge più di un’ora e mezza di partitura a questi due elementi, ripetuti ossessivamente semmai con la sola variante della stratificazione di fonti sonore (coro e ottoni, con squilli drammatici di tromba e pesanti sottolineature di tube e tromboni, in “Change of plan”); ne esce un continuum difficilmente distinguibile e quasi fisicamente faticoso da approcciare, all’insegna di un’aggressività ringhiosa e monotona, che non conosce ed anzi disprezza le sfumature e le mezzetinte. Ma mentre, tanto per fare un esempio, l’overdose di testosterone che emanava dal Junkie XL di Mad Max: Fury Road era resa necessaria anche dalla struttura stessa del film nel suo compulsivo iperdinamismo, qui s’impone una omologazione verso il basso che cela scarsità di idee e ancor minor disponibilità a sviluppare le poche messe in campo.
  Ovvio che se Balfe e il regista McQuarrie (oltre al sicuramente decisivo zampino dell’intramontabile Cruise) avessero voluto, qual cosina di più si poteva dare; le variazioni sul tema schifriniano di “Escape through Paris” o “The Exchange”, ad esempio, pur rimanendo dentro i canoni dell’action music, denotano una certa movimentazione di scrittura; così come fanno il sapiente contrasto di registri di “Unfinished business”, tra violini in sovracuto e brontolii di ottoni, o l’assolo percussivo dei bongo in “Stairs and rooftops”, bizzarramente sostenuto da coro e pianoforte; o ancora le deflagrazioni al calor bianco di “Scalper and hammer”, di elementare e brutale efficacia.
 Né vanno passati sotto silenzio gli episodi (rari) più acquietati sul piano ritmico, ma non per questo meno allarmanti, come il notevole “We are never free”, una sorta di marcia per archi lenta e strascicata, quasi penosa, cosparsa di dissonanze, che approda ad un lamento insistente e implorante pur nella propria immobilità; o l’ancor più severo “Kashmir”, fascinoso adagio interrotto dal solito martellare ma alla fine confluente nella ripetizione dagli archi di una cellula del tema di Schifrin. Il problema è che si tratta sempre e solo di brevi tregue, fuggevoli bagliori nel tunnel di una ricercata e soffocante uniformità stilistica al termine del quale (“Mission accomplished”) si scorge con comprensibile sollievo, dopo oltre un’ora e mezza, la luce del tema originario svettante per un’ultima volta. Nella speranza (ma c’è da dubitarne) che ora la serie, le sue musiche e il suo protagonista possano finalmente godersi la meritata pensione.

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