Il Gattopardo

cover il gattopardo newNino Rota e AA.VV.
Il Gattopardo (1963)
Quartet Records QR327 – Edizione limitata 2000 copie
CD 1, 30 brani + 3 bonus tracks – Durata: 66’03”
CD 2, 10 brani + 12 bonus tracks – Durata: 64’50”

Dove si annida con precisione l’incontrovertibile, particolarissima grandezza di Nino Rota?
 Siamo ancora a chiedercelo, a più di un secolo dalla nascita e quasi quarant’anni dalla scomparsa, consapevoli della natura sfuggente, inafferrabile e ubiquitaria di questo compositore. Perché il primo elemento a cui Rota sfuggiva era innanzitutto il proprio tempo. Tanto per cominciare era nato nel secolo sbagliato. La sua epoca, i suoi modelli, i suoi riferimenti erano tutti nell’Ottocento, da Rossini a Verdi, da Puccini ai lasciti del verismo passando per le lusinghe del belcanto e risalendo sino al melos belliniano tanto amato da Richard Wagner. Ma, per chiarire, insieme alla decisa avversione per qualsiasi sorta di avanguardia e per la modernità in genere, Rota non nutriva certo spiccate propensioni per il mondo musicale mitteleuropeo, in particolare per il gigantismo postwagneriano; semmai poteva registrare qualche sintonia con i russi, forse il primo Stravinsky o quello neoclassico, forse il Prokof’ev più asciutto ed ellittico (sicuramente non il rivoluzionario Shostakovich).

 E tuttavia, quand’anche avessimo formulato tutte queste ipotesi interpretative, il nocciolo continuerebbe a sfuggirci, e la sua intima natura a non farsi stanare facilmente. Prendiamo ad esempio, il suo cosiddetto “candore”. Lo annotava diversi anni fa il grande e rimpianto musicologo Giovanni Morelli, già custode del Fondo Rota conservato alla Fondazione Cini di Venezia: si trattava di una maschera, di un infingimento, di un espediente. Il “candido” Rota era in realtà di un’astuzia diabolica: a dimostrarlo basterebbe il suo autocitazionismo compulsivo, che lo portava a riciclare idee, temi, spunti da una propria opera all’altra, in una circuitazione vertiginosa e stordente (an inveterate self-borrower, un incorreggibile autoreferenziale lo definisce Frank K. De Wald, e su questo aspetto torneremo). Cui si accompagnavano, caratterialmente, un’infinita pazienza ed un sopraffino quanto prezioso talento di manipolatore, nonché una mostruosa capacità di “imitazione” di stili, delle cui prove chi scrive ha avuto la fortuna di essere testimone diretto. Autentico Zelig musicale, Rota sedeva al piano e a richiesta suonava à la manière de chiunque, da Bach a Sibelius, da Verdi a Ravel, da Brahms a Mozart, da Ciaikovski a Kachaturian, senza citarne direttamente nemmeno una nota ma mimetizzandovisi e parafrasandone lo stile in maniera stupefacente e indistinguibile dagli originali.
 Ma a seguire questa pista si rischiano altri equivoci: dunque Rota compositore “a freddo”, calcolatore e furbo, genio assimilatore più che creativo? Ovviamente no. E allora?
 Lasciamo momentaneamente in sospeso tutti questi interrogativi e proviamo a restringere il campo di indagine al settore nel quale Rota ha lasciato forse l’impronta più profonda e duratura: la musica cinematografica. E arriviamo al dunque, applicando il primo di questi quesiti ad una circostanza ben precisa: è stato più grande, più significativo il Rota di/per Fellini o il Rota di/per Visconti? Prevedibile l’obiezione: la domanda è, alla lettera, impertinente giacché punta a stilare classifiche meritocratiche e a formulare giudizi di valore a fronte di due universi cinematografici, due personalità protagoniste della storia del cinema, due culture e quindi altrettanti linguaggi musicali non paragonabili né tantomeno sottoponibili a “competizioni” di qualità. Tuttavia, se questo è vero (e lo è) l’interrogativo a proposito di Rota si fa però ancora più urgente. Come ha fatto il maestro milanese a divenire così incredibilmente, insostituibilmente decisivo, ed in misura così paritaria, a fronte di due maestri del cinema che si possono a buon diritto considerare antitetici? L’onirico, surreale, paradossale e grottesco Fellini vs. il sontuoso, aristocratico, letterario e melodrammatico Visconti?
 Ha potuto farlo, vien da rispondere, proprio in virtù di quella strabiliante capacità di adattamento cui accennavamo più sopra, una sorta di vocazione al camuffamento che ha attraversato tutta la sua carriera. Diamo per buona la spiegazione, ma persiste la curiosità – destinata a rimanere insoddisfatta - di scoprire con quale di questi due universi il maestro si sentisse in maggiore sintonia. Rota, come si sa, era uomo del Nord, cresciuto in una famiglia di musicisti, formato al Conservatorio “Verdi” di Milano, perfezionatosi negli Usa; ma era anche irresistibilmente attratto dal Sud e dalla cultura mediterranea, musicale e non solo, anche per aver a lungo insegnato a Taranto e Bari. E in quanto tale gli era facile identificarsi con climi e ambienti del melodramma verista di Mascagni (ricordate il finale del Padrino parte III sull’intermezzo di “Cavalleria rusticana”?) e Leoncavallo, oltre che Puccini, traslitterandone l’influenza poi nelle memorabili score per la saga del Padrino.
 Ma a ben vedere la divaricazione tra Fellini e Visconti sembrerebbe non reggere se non altro per la sproporzione quantitativa fra i due sodalizi: sedici titoli per il sognatore di Rimini, solo tre per il nobiluomo di Milano, Le notti bianche, Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo. Il punto dirimente risiede tuttavia nella complessità, nella densità, nell’intensità di queste tre partiture, soprattutto le ultime due. Va da sé che quanto segue è solo frutto di una predilezione personale, ma senza nulla togliere alla stratosferica leggerezza e al lirismo talvolta disperato delle partiture felliniane, è nel calore appassionato, nella ricchezza di echi e suggestioni, nel taglio squisitamente ottocentesco (quindi oltremodo congruo) e operistico delle score viscontiane che ritroviamo uno degli aspetti, forse il principale, che compongono la grandezza di Nino Rota.
 Rocco e i suoi fratelli celebrava nel ‘60 con tragica immediatezza il dissidio insanabile, lo scontro financo sanguinoso tra un Sud ancora in qualche modo tribale, primitivista, istintivo e violento e un Nord gelidamente estraneo, nebbioso e  cinicamente metropolitano, già alle soglie del “boom” economico e delle sue contraddizioni; e la partitura del milanesissimo Rota si divaricava appunto tra queste due componenti, enucleando un tema torturato e straziante, fra i più belli di tutta la storia della musica per film, e accostandolo al tipico sound jazzistico dei primi Sixties, che veniva importato nei locali meneghini dai compositori e dai gruppi più sprovincializzati. Nel Gattopardo invece, le storie fanno i conti definitivi con La Storia.  Sull’architettura del celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa (sessant’anni dopo si dibatte ancora se trattisi di romanzo storico o meno), Visconti erige il proprio cantico di disillusione ideale nei confronti dell’avventura risorgimentale (mezzo secolo prima del Noi credevamo di Martone), in un apparentamento tra pubblico e privato che pare in qualche modo prefigurare alcune istanze sessantottine, ma con tonalità e in una forma sospese – in una splendida ambiguità – tra nostalgia per ciò che fu e rassegnata ineluttabilità di ciò che sarà. Di qui il celebre motto del romanzo, e del film, pronunciato da Tancredi/Alain Delon: Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Ovvero, spesso chi sbraita di “cambiamento” (se vi ricorda qualcosa…) punta in realtà all’immobilismo, alla conservazione dei propri privilegi quando non all’arretramento complessivo della società. In una parola, alla Reazione.
 Da tutto questo discende che la partitura rotiana è forse la più genuinamente “ottocentesca” della sua intera produzione. E qui la saldatura con il mondo di Visconti non poteva essere più netta. La fascinazione del regista per l’universo del melodramma, esplicitata nelle sue numerose e leggendarie regie operistiche e nel frequente utilizzo di musica classica specie nei suoi film più tardi, veniva da lontano; la madre di Visconti, Carla Erba, era una nipote di Giulio Ricordi, l’editore di Verdi e Puccini, e aveva personalmente conosciuto entrambi. E Il Gattopardo parve l’occasione aurea per celebrare insieme l’apoteosi e le esequie di quel mondo.
 Ce lo ricorda bene De Wald nel prezioso libretto accompagnatorio di questa memorabile expanded edition della Quartet, prodotta da Josè M.Benitez e Claudio Fuiano sui nastri originali degli archivi CAM, restaurati e rimasterizzati da Nacho B.Govantes. Sarà appena il caso di ricordare che si tratta di uno dei lavori più discograficamente fortunati di Rota e in generale della musica filmica. Numerose le edizioni e le ristampe, a partire dai due vinili usciti in contemporanea con il film, uno negli States per la Fox l’altro in Italia con etichetta Titanus; oltre a questi, svariati 45 giri e suites, sino all’edizione Rca Cinematre del 79, anno della morte del maestro, poi ripresa in CD dalla CAM, e all’edizione Varèse, sempre in Lp, dell’83. Né vanno dimenticate le interpretazioni che molti direttori hanno voluto dare di queste musiche, su tutte quella sublime di Riccardo Muti (che di Rota fu allievo) con la Filarmonica della Scala, in un’antologia rotiana Sony Classical del ’95.
 In principio, comunque, era un altro lavoro del self-borrower Rota: una sinfonia incompiuta risalente alla seconda metà degli anni ’40 i cui temi principali, accennati dal musicista al piano, convinsero immediatamente Visconti a scartare qualsiasi idea precedente così come l’ipotesi di un improbabile assemblaggio classico con pagine di Massenet, Wagner e Gounod, a favore di una composizione originale basata su di essi. Così nasceva anche, oltre al soundtrack del film, la celebre “Sinfonia sopra una canzone d’amore” che verrà eseguita per la prima volta nel 1972. Più coerentemente con lo spirito del film, al contributo di Rota si sarebbe poi aggiunto quello del nume tutelare Verdi, non solo con il celebre e salottiero “Valzer brillante” inedito, dedicato all’amica e protettrice del compositore Clara Maffei, e riscoperto in un autografo da un amico di Visconti per essere utilizzato nella grande scena del ballo, ma anche alcune pagine de “La Traviata”; mentre dagli archivi CAM è spuntata anche la registrazione di un frammento dal “Capriccio italiano” di Ciaikovski, inutilizzato nel film e sulla cui possibile destinazione si specula da decenni. Altri brani addizionali, in parte basati sempre su temi di Rota, furono scritti da musicisti di seconda fila del Novecento italiano come Italo Delle Cese (sua la spiritosissima “Marcetta imbarazzata”) o Felice Montagnini, autore di svariate partiture per i film di Totò.
 L’articolazione in due CD restituisce nel primo, e per la prima volta, l’integrale della partitura su tracce monoaurali e nell’ordine sequenziale del film, comprensiva delle “musiche di scena”, di tracce alternative e addirittura di un “pezzo” intitolato “Accordatura” in cui si ascoltano, appunto, gli strumenti prepararsi all’esecuzione… Il secondo CD è la spettacolare rimasterizzazione stereofonica dell’album originale, anch’esso includente numerosi bonus tracks e versioni alternative oltre al già citato “Capriccio italiano” ciaikovskiano.
 Partiamo proprio da quest’ultimo, apparentemente un dettaglio di fatto estraneo al corpus della OST, perché è uno dei casi che ci consentono di riascoltare la grandezza direttoriale e l’immenso magistero interpretativo di Franco Ferrara, il sommo direttore d’orchestra e didatta che ragioni di salute allontanarono dai podii maggiori favorendone la specializzazione nella musica filmica, dove ci ha lasciato esecuzioni strepitose, di rigore toscaniniano e adamantina chiarezza; spesso sconfinanti nel repertorio classico, laddove richiesto dai registi, come accaduto proprio per Visconti in Bellissima (da “L’elisir d’amore” di Donizetti) o Senso, l’altro grande affresco ottocentesco-risorgimentale del regista, (con l’adattamento dell’Adagio dalla Settima Sinfonia di Bruckner); o ancora per I sequestrati di Altona di Vitorio De Sica, basato sull’Adagio dell’Undicesima Sinfonia di Dimitri Shostakovich (che lo stesso Ferrara parafraserà poi nella sua composizione “Fantasia tragica”).
 Ma è proprio nell’approccio fiammeggiante e insieme iper-razionale alle pagine originali di Rota che Ferrara coglie l’essenza del compositore, in cui citazionismo e nostalgia convivono strettamente con una specie di autocoscienza intellettuale che fa da freno ad impeti scompostamente neoromantici o banalità patetizzanti. Si prendano i tre principali temi della partitura: quello dei titoli, affermativo sino alla declamazione declamatorio e subito seguito da una variazione mossa, irrequieta; a seguire una seconda idea in fa minore esposta dal corno poi dall’oboe infine dagli archi (proveniente dal terzo movimento della sinfonia incompiuta); e infine l’elemento assolutamente meraviglioso, insuperabile della score, quel tema (associabile ad Angelica/Claudia Cardinale e più latamente definibile come “love theme”) in fa maggiore che si srotola negli archi sino all’ottava superiore e sfocia in quella frase dei violini primi di disarmante bellezza fa-mi-fa-la-fa-do, contrappuntata nei secondi dalla scala discendente fa-mi-re-do-si bemolle-la (se volete identificarla con precisione andate al minutaggio 1’38”, traccia 1, CD 2). Una frase di tale ardente intensità e così carica di mediterranea sensualità che Martin Scorsese la assumerà come leit-motif del suo imprescindibile documentario (vale più di mille storie del cinema cartacee) sul cinema italiano My Voyage to Italy del 1999.
 Su questi materiali Rota tesse una complessa rete di variazioni, cui si aggiungono ovviamente altri tasselli, a cominciare (“Viaggio a Donnafugata”) dall’imperioso, scattante “allegro e tempestoso” della musica di battaglia che spesso interrompe bruscamente i momenti idilliaci della score, ed al quale segue un oscuro, solenne tema dei corni che ha anch’esso forse qualcosa a che fare con Ciaikovski, quello dell’ouverture-fantasia “Romeo e Giulietta”. Il magistrale contrappunto che Rota edifica tra tutte queste idee, in una strumentazione la cui ricchezza non va mai a discapito del nitore timbrico (il maestro è stato forse l’ultimo a scrivere ereditando davvero il respiro sinfonico e melodico dei grandi del passato), è via via perfezionato per accostamenti e associazioni continue, in una visione unitaria e coesa che si esalta non nel semplice assemblaggio dei materiali bensì nella loro enunciazione consapevole e critica.
 Così “Angelica e Tancredi” sintetizza in modo vibrante l’aspetto sentimentale della score in un incessante altalenare di sensazioni e soluzioni; il volteggiare leggero degli archi con sordina, la ripresa del tema d’amore iniziato da tutti e lasciato poi terminare dal violino solo… o le drammatiche riprese della fanfara di battaglia alternata all’ansioso fluttuare dei legni del tema principale in “I sogni del principe”, o ancora lo ieratico tema dei corni di Donnafugata riproposto in “Partenza di Chevalley”.
 La rielaborazione instancabile di questi elementi, tutti provenienti dalla sinfonia del ’47 (peraltro “autosaccheggiata” da Rota anche nelle score di La donna della montagna, 1943, di Renato Castellani, e La montagna di cristallo, 1949, di Henry Cass), si trasforma così miracolosamente in un affresco storico-musicale di inaudita potenza evocativa; del quale naturalmente fanno parte anche quelle pagine nelle quali si esplica al meglio il funambolismo stilistico di Rota, come le musiche da ballo (“Polka, Quadriglia, Galop”), il cui spirito salottiero e d’antan è talmente impeccabile da farle tranquillamente passare per contributi preesistenti; sino al “Valzer del commiato”, che Rota sembra quasi aver voluto contrapporre a quello “brillante” di Verdi, tanto per cambiare anch’esso prelevato dalla musiche per Appassionatamente (1954, Giacomo Gentilomo) e provvisto di una sorridente ma anche malinconica lievità.
 Indubbiamente tutto questo immenso lavoro di rievocazione musicale di un mondo perduto passa per il mèntore più forte della partitura, la presenza continuamente, direttamente o indirettamente evocata e invocata: Giuseppe Verdi. Non solo in quanto figura-simbolo (ma anche opportunamente scettica e disincantata) del Risorgimento, e autore del già citato Valzer brillante, ma più in generale come supremo esponente di una civiltà musicale che non poteva che estinguersi con l’estinguersi del XIX secolo. Verdi, guarda caso, muore infatti nel 1901; e l’epitaffio con il quale lo celebrò Gabriele D’Annunzio non era certo sconosciuto a Rota, e potrebbe ben attagliarsi anche a questo capolavoro: Pianse e amò per tutti.

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