Hereditary

cover hereditary Colin Stetson
Hereditary – Le radici del male (Hereditary, 2018)
Milan Music 398 027-2
23 brani – Durata: 71’05”     

«Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera», ammoniva Goethe. Già, ma se l'ombra è dovunque cosa la distinguerà dalla luce? Come rilevare il conflitto fra le due? Come desiderare la prima, se è dato conoscere solo la seconda al punto da non temerla più ma – anzi – considerarla quasi familiare?
 Sono quesiti che molte partiture horror impongono drasticamente, nella loro uniforme e generalizzata fissità, nella struttura monocorde e onnicomprensiva, che non conosce più pause, contrasti, alternanze ma si spalma opprimente e inesorabile dall'inizio alla fine, perdendo altrettanto inesorabilmente in efficacia. Perché, come annota il sempre acuto Jonathan Broxton, se tu metti una musica horror su una signora che attraversa la strada o su un bambino che gioca a pallone, il risultato (senza scomodare le teorie sul montaggio delle avanguardie sovietiche) sarà che quando poi la metti sull'irruzione di un mostro o sulla vittima che percorre un corridoio tenebroso, quella musica non comunicherà più nulla.

 Complice l'inevitabile effetto di déjà vu (o meglio, di déjà entendu) che produce il ricorso pressoché unanime all'elettronica, con le sue sonorità ormai standardizzate e l'enorme difficoltà dei compositori di escogitare soluzioni originali, l'horror music contemporanea finisce dunque per somigliarsi tutta, e perdere quel carattere di innovazione sperimentale e di estrema libertà formale che caratterizzava le score di maestri come Goldsmith, Chris Young, Donaggio, Goldenthal. C'è, è vero, la scuola spagnola dei Baños, Velázquez, Vidal, Navarrete, Bataller, ci sono i compositori del Nord Europa, c'è ancora qualche outsider come l'agghiacciante Joseph Bishara, o Mark Korven o Jed Kurzel: ma più spesso a dominare è la routine.
 Ed è proprio in opposizione a questa routine che con Hereditary sembrano volersi schierare sia il giovane sceneggiatore e scrittore statunitense Ari Aster, qui al suo esordio registico, sia Colin Stetson, che non è proprio l'ultimo arrivato. Il quarantenne musicista del Michigan è infatti una delle figure di spicco dell'avanguardia jazzistica contemporanea, già collaboratore di musicisti come Lou Reed, David Byrne e Tom Waits e di gruppi come gli Arcade Fire e i Chemical Brothers. Celebre in particolare per l'utilizzo aggressivo e anticonformista del suo strumento elettivo, il sassofono, Stetson è un artista che si muove con disinvoltura e temerarietà sui terreni dello sperimentalismo più avanzato e onnivoro, utilizzando un linguaggio musicale scabro e respingente, che non si preoccupa certo di blandire l'ascoltatore. Questo stile, decisamente inusuale per un compositore americano, ne ha finora confinato le score cinematografiche a qualche corto o documentario, oltre che ad un paio di film di nicchia, orgogliosamente indie, e senza contare il contributo come performer in titoli quali 12 anni schiavo o Un sapore di ruggine e ossa: si può dunque legittimamente asserire che Hereditary, horror e insieme tragedia familiare tanto intransigente quanto aliena da effettacci gore, sia il suo primo impegno di un certo rilievo e respiro.
 L'opzione di Stetson è radicale, senza appello, e si traduce in 71 minuti di ascolto all'insegna del disagio quasi fisico, senza interruzioni né variazioni apprezzabili da una traccia all'altra. Si tratta di una specie di lunghissimo, interminabile cluster elettronico con sporadici inserti strumentali, che viene continuamente e bruscamente troncato ma solo per riprendere più cupo e minaccioso di prima. Un lungo incubo sonoro che ricerca puntigliosamente il malessere anche fisico dell'ascoltatore immergendolo in un magma instabile di suono notturno e ancestrale, che sembra sbucato dalle viscere dell'ignoto e dell'indicibile. Elettronico sì, ma non solo: perché la partitura è anche il risultato di un mix abilissimo di sintetizzatori e orchestra (archi e ottoni in particolare, oltre alle percussioni), ma quest'ultima manipolata e quasi violentata con tecniche di estensione e distorsione timbrica che la rendono pressoché irriconoscibile.
 Lo stesso sax di Stetson vi compare, quantunque in forme che lo trasformano in una presenza informe e oscuramente gorgogliante nel registro acuto, come in “Funeral”; ma si odono anche, sfigurati e riassemblati così da ricavarne un sound orribilmente innaturale, clarinetti e oboi, e lo stesso impiego della voce umana risponde all'esigenza di evocare un'immagine del Male sgomentante e inedita. Pagine come “Aftermath”, “Seance/Sleepwalking” o “Classroom” vibrano così di una claustrofobica tensione, all'insegna di una misteriosa ostilità, di una insidiosa, appiccicosa malevolenza. Si direbbe una sorta di “ambient” provocatoriamente repellente, dove si viene ammoniti a non entrare.
 La soffocante uniformità di questo lavoro, che conosce solo impercettibili modifiche da un brano all'altro, finisce naturalmente, come accennavamo all'inizio, con il perdere di valenza drammaturgica nel lungo periodo: anche se per evitare il rischio di assuefazione Stetson alza continuamente il tiro con inserimenti quasi di musica “concreta”, tra sfarfallii, cigolii, tonfi, rintocchi legnosi, versi gutturali e animaleschi, lamenti urlati (“Charlie”, “Party, crash”), contrasti dinamici estremi (“Steve”) e improvvise, telluriche esplosioni di suono, sparse un po' ovunque.
 Ma saltuariamente, forse con parsimonia eccessiva, il compositore ricorre anche a soluzioni relativamente più convenzionali, come i pochi secondi convulsi di “Chasing Peter”, un galop percussionistico travolgente, o “Mother & Daughter” e “Brother & Sister”; nei quali ultimi si affaccia, ancorché sepolta sotto uno spesso strato di rumori ed effetti di ogni ordine e grado, una parvenza di “tema familiare” che avrebbe forse meritato maggior possibilità di sviluppo. Così come abbastanza sorprendente risulta “Reborn”, che nella solennità dell'avvio si rifà addirittura al “Rheingold” wagneriano per lasciare poi finalmente uno spazio riconoscibile al virtuosismo irrequieto e gracchiante del sax, e avviare in “Hail,Paemon!” ad una breve ma significativa conclusione corale in una luminosa tonalità maggiore.
 In sintesi: un album e una score che sembrano programmaticamente indirizzati a chi ama l'avanguardia più radicale e si affida all'ascolto come ad una esperienza sensoriale non necessariamente piacevole. Tutti gli altri sono avvisati...

Stampa