Loving Vincent

cover loving vincentClint Mansell
Loving Vincent (Id., 2017)
Milan Records 399 941-2 
13 brani + 1 canzone – Durata: 50’49”     


     
Nella ricca filmografia dedicata alla vita del più grande tra i pittori “maledetti”, Vincent Van Gogh, la memoria – musicalmente parlando – va ancor oggi a quel fiammeggiante capolavoro che fu la partitura di Miklós Rózsa per il biopic realizzato nel 1956 da Vincente Minnelli, Brama di vivere, protagonista un tormentato e visionario Kirk Douglas. In quella score il maestro ungherese coglieva il retroterra culturale profondo della pittura di Van Gogh, le sue radici impressioniste (con tinte e profumi orchestrali memori di Debussy e Ravel), ma anche la sua follia e il suo straziante male di vivere.

Oltre sessant’anni dopo, possiamo considerare Loving Vincent, produzione anglo-polacca, un’operazione nettamente antinomica rispetto a quel modello: lavorando su un progetto del Polish Film Institute che ha coinvolto numerosi artisti del paese ed applicandovi le tecniche dell’animazione dipinte direttamente su tela, utilizzando in larga misura il rotoscope per realizzare le figure umane, i registi Dorota Kobiela e Hugh Welchman hanno inteso prima e più di ogni altra cosa addentrarsi nel vivo delle opere dell’artista olandese, attraverso un filo narrativo ricostruttivo che percorre ad una ad una dall’interno tutte le tappe della sua breve e sofferta esistenza.
Un atto d’amore e di devozione verso l’arte di Van Gogh che rifugge dunque, a patire dalla tecnica adoperata, dai luoghi comuni romantici sulla follia del genio e ne ricerca piuttosto motivazioni ed esiti nel corpo vivo delle sue meravigliose tele, brulicanti di colori, di luci e di ombre.
Anche per questo, oltre che per la propria indole stilistica, Clint Mansell si situa agli antipodi rispetto al fluviale, travolgente eloquio rózsiano. Il compositore caro a Darren Aronofsky e considerato un caposcuola del “minimalismo dal volto umano”, aborre infatti la retorica ma nondimeno coltiva una sorta di sentimentalismo intellettuale, ellittico, che lo rende particolarmente efficace nel raccontare musicalmente storie di solitudine, di delirio e di ossessione: tre categorie che sembrano racchiudere in sé tutto l'itinerario di Van Gogh.
Ecco allora che questa partitura travagliata e di una raffinata tristezza, scritta prevalentemente per un organico di archi e pianoforte, si muove insistentemente intorno ad un polo armonico di tre note ripetute, fa mi e re, adottando una serie di variazioni ed elaborazioni sapientemente intrecciate. Così, “The night cafè” nasce come un agitato duetto tra archi e piano che finisce poi con l’orbitare intorno ad una ripetuta frase dei violini sulla quale s’innesta l’intervento irreale e onirico del coro, mentre le terzine pianistiche e gli staccati ripetuti degli archi, irrequieti e instabili, preannunciano in “The yellow house” la comparsa del tema di tre note sopra citato, ben presto divenuto cellula ossessiva e germinante di un’angoscia a stento trattenuta. Anche “At eternity’s gate” si basa sul disegno sconsolato e vagante del pianoforte appoggiato su accordi strascicati degli archi divisi, mentre in “Portait of Armand Roulin”, dopo l’introduzione lenta e incerta, si registra un’accensione di toni nel moto degli archi, pur rimanendo il tutto confinato nell’alternanza di pochissimi accordi base, e in un paesaggio timbrico pressoché invariato. “Marguerite Gachet at the piano” è uno dei punti apicali della partitura: vi permane l’impronta minimalista, ma il suono iniziale dei violini in flautando, quello “impuro” e tentennante del piano e i disegni conclusivi degli archi creano un’atmosfera di impalpabile ma innegabile disagio emotivo; egualmente “Still life with glass of absinthe & a carafe” accentua il crescendo di emozioni e ossessioni interiori del pittore con il ricorso a note ribattute e martellanti e all’esasperata ripetizione di brevi frasi basate sulla triade discendente iniziale. Sarà appena il caso di annotare che l’associazione tra pagine musicali e celebri dipinti dell’artista scavalca con decisione qualsiasi tentazione impressionistica o descrittiva: Mansell cerca di scavare più a fondo, nel substrato simbolico, quasi filosofico di queste “visioni”, in ciò sollecitato anche dalla particolarissima scelta linguistica del film: dunque non ci sono facili naturalismi o altrettanto superficiali “psicologismi”, bensì sofisticate trascrizioni delle sensazioni più complesse suscitate dalla visione dei quadri. “Five sunflowers in a vase” a esempio, con il lungo, pacato distendersi melodico di legni e archi dal suono freddo e vagamente spettrale, esprime un tipo di contemplazione tutt’altro che rassicurante; e il lungo tremolo in re di “Thatched roofs in Chaponval”, sul quale rintoccano echi sinistri e dissonanze minacciose, esprime bene quell’intima angoscia che ha pedinato tutta l’esistenza di Van Gogh.
La score di Mansell infatti sembra progressivamente aggrovigliarsi in percorsi sempre più labirintici e cupi, toccando punte di aspra drammaticità come in “Blossoming chestnut tree”, attraversato da tetre frasi degli archi, mentre “The sower with setting sun” ripropone inizialmente le geometrie fisse e iterate del minimalismo manselliano per scioglierle poi in una sorta di afflato mistico nel quale interviene nuovamente il coro. Anche la breve “Starry night over the Rhone”, nel suo sfavillante crescendo, introduce poi l’omaggio più diretto e forse noto all’opera del pittore, ossia quella “Starry starry night”, qui proposta con dolcezza dalla voce dell’inglese Lianne La Havas, che il cantautore americano Don McLean dedicò nel suo album del 1971 ”American pie” al celebre quadro “Notte stellata” attualmente conservato al MoMa newyorkese: una ballata partecipe ed emozionante, che non confligge affatto ma anzi si integra con il calore meditato e severo di una partitura pregevole.

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