Ocean's 8

cover oceans 8Daniel Pemberton
Ocean's 8 (Id., 2018)
WaterTower Music
24 brani - durata: 66'50"

In vacanza dalle impegnative committenze per Ridley Scott, Daniel Pemberton rileva il testimone da David Holmes, cui si devono le scoppiettanti partiture pop-jazzistiche per la soderberghiana “trilogia di Ocean” e ne affronta lo spin-off al femminile senza discostarsi troppo da quel modello ma aggiornandolo, addobbandolo di tecnologiche ironie e puntando con tutta evidenza a divertire senza troppi pensieri né cipigli autoriali.

 Atmosfera, strumentazione e ritmi si mantengono dunque vistosamente “retrò” ma con alcune sottolineature che svelano come Pemberton guardi forse, più che ai precedenti di Holnes, al ciclo manciniano della Pantera Rosa. La morbidezza dei timbri, che accanto ad una corposa sezione di ottoni e batterie annoverano anche archi, legni e chitarre d'antan, ingentilisce alcuni passaggi con grande abilità citazionistica e mimetica ma non muta il quadro d'insieme, che è quello di una fenomenale big band jazzistica retrodatata agli anni '70 con un occhio a Quincy Jones e l'altro a John Barry. Del compositore britannico suo compatriota Pemberton adotta alcune sospensioni strumentali (soprattutto nei violini), raffinate e carezzevoli, come nella breve intro di “5 years, 8 months and 12 days” o nell'avvio teso di “Taking out the trash”, ma sono solo trampolini per la partenza a razzo di ritmi indiavolati e stacchi vintage che non sarebbero sfigurati nella serie Attenti a quei due!, protagonisti Roger Moore e Tony Curtis, musiche appunto di Barry.
 Interessanti però sono gli inserti personalizzati di Pemberton, come l'effetto elettronico comico di “Nine ball”, che svela la post-modernità dell'intera operazione comprensiva di intenti caricaturali, oppure – e anche qui siamo nel pieno di quel citazionismo neobarocco che si usava tanto negli anni '70 o addirittura '60 – la “Fugue in D minor” con la quale il compositore trascrive con grande affetto e accademico rispetto una pagina bachiana riportandoci al repertorio dei Swingle Singers o Waldo De Los Rios, o – per restare a casa nostra – di Giampiero Reverberi o Luis Bacalov. Considerato poi che Pemberton è un compositore appena quarantenne, sorprende – o meglio, si spiega con una grande passione e conoscenza per il repertorio e la tradizione – la spontaneità e genuinità con cui egli riesce a calarsi in un sound così inconfondibilmente nostalgico e metropolitano, tra sincopati sapienti e tastiere irrequiete, come in “Deborah Ocean”.
 Non c'è dubbio che sia piuttosto difficile, in questo contesto, individuare qualche “tema” specifico associato ai personaggi che affollano il “dream team” femminile di cui si compone il cast: qualche idea, ma abilmente dissimulata nel contesto generale, sembra affiorare in “Nine ball”, ma più complessivamente è il colore generale della partitura a fare da unico, onnicomprensivo leit-motiv: il che espone ovviamente Pemberton al rischio di qualche ripetitività (“The met” è sovrapponibile a molte altre tracce nella sua saltellante, ma sofisticata e innocua ritmica da 007 e dintorni), riscattata però da una freschezza non facile da conseguire né da mantenere per tutta la lunga score.
 Inoltre quando l'attenzione del compositore si focalizza su alcune sezioni, come nel caso delle percussioni per “Okell bongos '63”, i vari momenti del lavoro si trasformano quasi in “studi” o variazioni su schemi prefigurati, dove le chitarre a plettro, la batteria spazzolata e il pulsare del basso con gli interventi degli ottoni in stile Stan Kenton (“The investigator”) formano un mix decisamente di alta sartoria musicale.
 Allorché poi a fare capolino è la nostalgia vera e propria, come in ”Hacking the Met”, dove si affaccia il buon vecchio organo Hammond della nostra adolescenza, e allora Pemberton si dimostra un sorprendente alchimista di memorie musicali: e il suo lavoro complessivo, al netto del divertimento assicurato, si dimostra una prova quasi filologica di spessore tutt'altro che scontato.

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