Nightmare on Elm Street Collection

AA.VV.
Nightmare on Elm Street Collection (2015)
Varese Sarabande VLE-9203 - Edizione limitata 2000 copie
     
CD 1, Charles Bernstein: Nightmare – Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, 1984)
17 brani + 12 bonus + 7 demos -  brani – Durata: 65’45”
CD 2, Christopher Young: Nightmare 2 – La rivincita (A Nightmare on Elm Street 2 – Freddy’s Revenge, 1985)
13 brani + 17 bonus tracks – Durata: 63’46”
CD 3, Angelo Badalamenti: Nightmare 3 – I guerrieri del sogno (A Nightmare on Elm Street 3 – Dream Warriors, 1987)
16 brani + 11 bonus tracks – Durata: 57’42”
CD 4, Craig Safan: Nightmare 4 – Il non risveglio (A Nightmare on Elm Street 4 – The Dream Master, 1988)
14 brani + 6 bonus tracks – Durata: 53’32”
CD 5, Jay Ferguson: Nightmare 5 – Il mito (A Nightmare on Elm Street 5 - The Dream Child, 1989)
31 brani + 15 bonus tracks – Durata: 65’67”
CD 6, Brian May: Nightmare 6 – La fine (Freddy’s Dead – The Final Nightmare, 1991)
28 brani + 9 bonus tracks – Durata: 66’08”
CD 7, J. Peter Robinson: Nightmare – Nuovo incubo (Wes Craven’s New Nightmare, 1994)
30 brani – Durata: 78’01”
CD 8, Graeme Revell: Freddy vs. Jason (Id., 2003)
41 brani – Durata: 65’24”
     

     
Concepito inizialmente come iniziativa per il trentennale dal primo capitolo di una delle più celebri saghe (e icone) horror non solo degli anni ’80 ma di ogni tempo, questo lussuoso cofanetto Varèse Sarabande contenente le OST rimasterizzate e integrali (con un’incredibile quantità di bonus, materiali aggiunti e versioni alternative o inutilizzate) di tutti i film del ciclo Nightmare on Elm Street ha finito col diventare invece un omaggio alla memoria del suo creatore, Wes Craven, scomparso nel 2015.

La circostanza si fa dunque dolorosa, nondimeno persino nella confezione che balena quell’ironia beffarda, macabra, quel sarcasmo tagliente (molto tagliente…), quell’intelligenza luciferina e autoironica che l’ex professore di filosofia e letteratura Craven aveva instillato nella sua creatura più famosa, Freddy Kruger: a cominciare dal semplice box nero, dove è effigiata la traccia delle lame di rasoio che corredano la micidiale mano guantata del mostro, perdipiù il tutto avvolto in una versione miniaturizzata (ma fedelissima, e in pura lana vergine) del leggendario maglione a strisce rosse e verde marcio che, insieme all’altrettanto mitico cappellaccio, costituisce la “divisa da lavoro” del protagonista.
Ma, al di là dei gadget, l’architettura musicale di questo ciclo, snodatosi nell’arco di un decennio più una postilla ad inizio dei 2000 e lo scolastico, superfluo reboot nel 2010 (ci torneremo), si propone come un insieme molto complesso e disomogeneo: popolato da otto compositori, di fatto uno per capitolo, e con l’unico collante di un’idea-comune denominatore, l’iconico e arzigogolato tema di Charles Bernstein, ingannevolmente delicato nella sua enunciazione, che funziona da richiamo demoniaco e insieme segnale di pericolo, materializzando la presenza di Freddy anche quando costui non è presente sullo schermo: dunque un mondo oscuro e complicato musicalmente, nel quale ci guida con la consueta perizia Randall D. Larson con le sue puntuali note nel corposo libriccino che accompagna il cofanetto (si segnala però un errore di impaginazione laddove in luogo della scheda sulla partitura del capitolo 4 è stata invece ristampata l’introduzione..).
Questa complessità, del resto, non è che il rispecchiamento di quella strettamente cinematografica del ciclo, cui posero mani registi molto diversi tra loro, trasformando il character principale dalle fondamenta. Come si sa infatti, attraverso i vari sequel, spin-off, serie tv, versioni animate e a fumetti, parodie più o meno esplicite, Freddy Kruger è diventato una delle maschere più popolari e globali di fine ‘900, acquisendo quasi immediatamente una valenza buffonesca, da commedia nera, che alcuni dei capitoli (in particolare il 5 e il 6) hanno esasperato. Nasce da questa manipolazione verso i tratti costitutivi del suo personaggio l’atteggiamento polemico tenuto sempre da Craven nei confronti dei vari sequel, sino ad indurlo – a dieci anni esatti dall’esordio – a riprendere in mano egli stesso la saga, per chiuderla definitivamente con il suo capolavoro nonché uno dei più fulminanti esempi di metacinema mai realizzati, Nightmare – Nuovo incubo: sorta di prologo semantico e di laboratorio di preparazione al nuovo ciclo che sarebbe iniziato di lì a poco, quello di Scream.
Conviene dunque procedere con ordine, adeguandoci per quanto possibile ad un’ovvia necessità di sintesi.
Tutto iniziò nell’84 con Charles Bernstein, nessuna parentela con altri famosi omonimi come Elmer o Leonard (ma se ne segnalano altri quattro o cinque meno illustri): all’epoca quarantenne, Bernstein vantava una formazione decisamente eterodossa. Agli studi accademici alla Juilliard School affiancava infatti esperienze jazzistiche in Europa, di folk-music in Grecia, e nel teatro off-Broadway, Inoltre a metà degli anni '80 aveva già alle spalle una quarantina abbondante di titoli e quindici anni di carriera, nei quali il suo linguaggio musicale spregiudicato e poco ortodosso si era dimostrato particolarmente adatto a quel filone cinematografico di horror indipendente che appunto autori come Craven, Teague, Cunningham, Hooper e soprattutto John Carpenter (il quale però per la musica faceva tutto da solo) andavano sviluppando negli anni ’70 e ‘80. Freddy Kruger però, a differenza di Michael Myers (Halloween), Leatherface (Non aprite quella porta) e Jason Voorhees (Venerdì 13) non abita nel mondo reale ma in quello dei sogni, da cui va e viene in una sorta di limbo dark che lo rende ad un tempo proiezione mentale delle sue vittime e loro concretissimo carnefice. Questa condizione consentì ai musicisti di prescindere da ogni vincolo di realismo, spronandoli anzi ad una fantasia di mezzi e linguaggi altrimenti difficilmente praticabile.
Ma siccome talvolta occorre fare di necessità virtù, ecco che per esempio la score interamente elettronica, e molto “Eighties”, di Bernstein, rispondeva anche alle ristrettezze di un budget assai limitato: e tuttavia il musicista, che proveniva da alcune notevoli esperienze nell’horror come Cujo di Lewis Teague e Entity di Sidney J.Furie, e che per Craven musicherà nell’86 anche un’anomala rilettura al femminile del mito di Frankenstein come Dovevi essere morta, si presentò all’incarico dotato di tutto il proprio armamentario hi-tech (Yamaha DXT, Oberheim OB-SX, Prophet-5), all’epoca di avanguardia, e pronto a fornire personalmente gli effetti vocali previsti (“School horror”). Il risultato è un insieme ancora oggi fortemente perturbante, invasivo, indirizzato più a suscitare disagio permanente che a provocare passeggeri soprassalti: anche se al bisogno (“Fountain of blood”, “Run Nancy”) Bernstein ricorre senza risparmio a risorse e soluzioni vigorosamente percussive e ad un vasto parco-effetti (tintinnii, scariche, pulsazioni, e più in generale sonorità di tipo squisitamente “elettrico”), comprendente anche un organo (“Horror movie”), amalgamati in un insieme di rara efficacia. Merito, certo, dell’utilizzo virale di quel celebre e pervasivo tema di dieci note, basato sull’alternanza re minore-si bemolle minore, che si espande in tutta la score con una chiara funzione medianica, spesso associato ad un’altra idea, ancor più primaria: le prime due note della tiritera infantile “Uno due tre Freddy viene da te”, canticchiata dalle bimbette biancovestite che giocano a  “jump rope” (salta-la-corda) nelle visioni che precedono invariabilmente l’arrivo del killer. Anche in questo caso l’intento è eminentemente segnaletico, di allarme, e perfettamente centrato.
Per il secondo capitolo, La rivincita di Jack Sholder, Christopher Young parte da scelte opposte. Anche Young è un compositore che si sta affermando in quegli anni come particolarmente dotato nell’horror (i primi due Hellraiser, La mosca 2), ma a differenza di Bernstein, ed anche su precisa richiesta dei produttori, opta per una partitura squisitamente orchestrale, sotto la guida attenta di Paul Francis Witt, malgrado anche in questo caso il budget sia abbastanza ristretto. Il compositore del New Jersey è però dotato di un’abilità diabolica nel far ricorso a tutti gli espedienti, le alchimie, le manipolazioni possibili nel trattamento dell’organico strumentale: legni, arpa, pianoforte brutalmente percosso, glissandi, pizzicati e distorsioni di violini, oltre ad un battaglione di percussioni, vengono così chiamati a raccolta per una partitura impressionante e terroristica, con punte di violenza che lasciano sbigottiti (“Fire bird”, “Sports attack”). Inoltre Young decide di lasciare fuori dalla porta, in segno di discontinuità, il tema di Bernstein (caso unico nel ciclo), e di sostituirlo con un proprio leit-motif, affidato al corno, di ambigua malinconia (i “Main title” e la splendida Suite conclusiva di oltre un quarto d’ora), ma non per utilizzarlo come presenza costante bensì come elemento autonomo. La partitura appare così estremamente frammentata, episodica, ma anche ribollente e di concezione massicciamente aggressiva: il ricorso all’elettronica serve solo per amplificare alcuni effetti orchestrali (“Wrong turn right”, “Head on fire”) con riverberi, miagolii e altre sonorità inconsuete che il compositore avrebbe poi ulteriormente perfezionato in alcune sue prove successive.
Anche Angelo Badalamenti, per I guerrieri del sogno di Chuck Russell, scelse di prescindere dal tema bernsteiniano, salvo ritrovarselo inserito dalla produzione – insoddisfatta del risultato e desiderosa di creare un collegamento più immediato con la serie – in sostituzione di alcuni propri brani, con l’aggiunta all’ultimo minuto di alcune tracce addizionali composte da Ken Harrison, onesto, efficiente ma mediocre autore di moltissime score televisive. Il maestro di origine siciliana è comunque la personalità decisamente più “autoriale” tra quelle succedutesi nelle musiche della saga, soprattutto grazie al proprio rapporto preferenziale con l’universo labirintico e perverso di David Lynch: e la sua scelta è coerentemente radicale. Come Bernstein, e per le medesime ragioni (ancora una volta il budget limitato, dato sorprendente se si pensa alla qualità degli effetti di questi film), anche Badalamenti opta per una score integralmente elettronica fatti salvi gli interventi, specifici e puntuali, di strumenti come il corno o l’oboe (i “Main title”): ma la vertiginosa evoluzione delle tecnologie e l’esperienza di Badalamenti in materia gli consentono risultati che il suo predecessore non poteva ottenere. Inoltre questo compositore sa ottenere come pochi formule sonore esclusive, in bilico fra l’orrido e il comico, ed è capace di usare i synth caricandoli di una forza immaginifica unica, sia quando li spinge a riprodurre suoni orchestrali (i “violini” di “Snake attack” o i bassi di tante altre tracce, contrappuntati però da un flauto autentico), sia quando li utilizza per “cluster” minacciosi sovrastati da spensierati tintinnii (“Nursery theme”). E infine è capace di momenti di ripiegamento lirico, squisitamente strumentali (oboe e flauto) in pagine come “Deceptive romance”: fermo restando che in questo capitolo vengono associati con particolare efficacia i due elementi principali di queste partiture, ossia il tema di “Jump rope” e quello di Freddy, come ad esempio nei “Main title”.
      I due capitoli successivi, Il non risveglio di Renny Harlin e Il mito di Stephen Hopkins, segnano un oggettivo arretramento di qualità in termini musicali: e ciò malgrado dal punto di vista cinematografico – soprattutto nel caso del n.4 – si tratti dei due episodi migliori tra i vari sequel. Craig Safan (Il non risveglio) è un attivissimo compositore di seconda fila, inesauribile in TV e con una singolare propensione parallela sia all’horror o all’action movie (I dinamitardi, Dissolvenza in nero, Incubi) che alla commedia grottesca-macabra (A spasso con la morta, Milionario per caso), anche se la sua fama rimane legata soprattutto alla score “williamseggiante” per Giochi stellari dell’84: comunque il suo approccio a questa tappa alla saga, cui il regista di Cliffhanger e 58 minuti per morire imprime una delle svolte più violente e cupe, è ancora una volta elettronico ma nella direzione di un accentuato sound design. Scariche, vibrazioni, sobbalzi, battiti si susseguono impetuosamente, lavorando di preferenza sulla percussione (“Kirsten’s haunted dream”) e sul conflitto fra registro grave e acuto (“Freddy’s back”). Safan ha anche ben presente che la dose di umorismo nero di cui si fa latore Freddy ha ormai raggiunto livelli ultimativi, e ne accompagna le battute e le “gag” letali con manipolazioni intelligenti, distorte e sottili del suo tema (“Joey’s wet dream”, “Rick’s kung fu death”), non prive di improvvise, drammatiche armonizzazioni e slanci  imponenti, addirittura concertistici per organo da cattedrale (“Corpus Kruger”).
Jay Ferguson (al secolo John Arden Ferguson) viene poi direttamente dall’universo rock-pop (è tra i fondatori della band californiana degli Spirit, attiva tra i ’70 e gli ’80), e non può esibire nel mondo della musica applicata le medesime referenze dei predecessori. Ma forse proprio per questo, o forse perché chiamato all’ultimo minuto quindi senza troppo tempo per sollevare obiezioni, il suo approccio a Il mito è molto “alto” sin dal “Prologue” dove ritroviamo l’organo in funzione chiaramente goticheggiante (ancor più in “Freddy delivers”), nonché un coretto infantile alquanto sinistro, che il compositore dichiarò di aver ottenuto campionando la voce della propria figlioletta di cinque anni. Qui si comincia ad avvertire forse l’influenza di alcune esperienze di rock “progressivo” che in quegli anni – e in quei generi filmici – andavano maturando altrove, ad esempio con i nostri Goblin (“Don’t dream and drive”); ovviamente a prevalere è nuovamente la ricerca dell’effetto rapido, ficcante (“Shower”), ma l’inquietudine che trasmettono alcune pagine come “The asylum”, tra suoni acutissimi e rintocchi tombali, è notevole, e l’uso delle tecnologie di Ferguson spericolatamente variegato ma di preferenza orientato verso espliciti riferimenti misticheggianti (l’organo appunto, ma anche campane e cori vari), nei quali s’intrufola di tanto in tanto il tema di Bernstein. Costretto comunque a lavorare di fretta, il compositore, che più tardi avrebbe ottenuto una certa celebrità con la partitura del serial NCIS: Los Angeles, dovette alla fine ricorrere anche al supporto di un brillante orchestratore come Brad Deschster.
Mentre le score della serie vanno arricchendosi sempre più, accanto ai contributi originali, di compilation variamente rock o death-metal, con il sesto capitolo La fine (provvisoria…) diretto da quella Rachel Talalay che aveva già prodotto il terzo e il quarto, si torna ai piani alti del Gotha cinemusicale. L’australiano Brian May infatti (da non confondere, ripetiamolo sempre, con il leggendario chitarrista dei Queen), viene dal perentorio successo delle sue partiture avventurose e distopiche per i due Mad Max di George Miller. L’elettronica gli interessa e lo attira meno dell’orchestra – che dirige personalmente – e tanto per ribadirlo sfoggia subito una velenosa, pungente versione synt del tema di Freddy seguita però da una sua ripetizione affidata pensosamente ai violoncelli. Dopodiché nei “Main title” estrae l’asso dalla manica, con una citazione diretta dalla “Notte sul Monte Calvo” di Mussorgsky: anzi, ne fa un vero e proprio leit-motif, attraverso parafrasi astute, riproponendolo spesso (”Wuizard of odd” e altrove), forse con malcelata allusione allo spessore ormai cartoonistico del protagonista (di qui il riferimento al corrispondente episodio di Fantasia di Disney). Peraltro il tema di Bernstein, dilagante, trova qui sviluppi sinfonici  e variativi (“Freddy 101”) sinora impensati, in un’orchestra dove archi e ottoni recuperano quel respiro “classico” e lussureggiante – anche grazie ad una registrazione particolarmente accurata – che negli ultimi capitoli si era smarrito. La score risulta così più drammatica che orrorifica (“I hate this house”, “Maggie faces Freddy”) ed anche i pur presentissimi effetti elettronici si integrano in un paesaggio acustico (“The orphanage”) dalla rigorosa distribuzione di ruoli. Esilarante e indimenticabile, poi, la “Videogame suite” che il compatriota di May (scomparso nel ’97 a soli 63 anni), Ashley Irwin, attivissimo in Australia, ha scritto per la sequenza in cui Freddy diventa esplicitamente un videogioco, pensata come se improvvisamente nelle avventure di Super Mario Bros. facesse irruzione uno spirito maligno.
Quando Wes Craven decide finalmente di riappropriarsi della sua creatura per decantarne e liquidarne definitivamente il mito con Nuovo incubo la scelta cade non a caso sul britannico J. Peter Robinson, che è attivo in cinema e TV sin dalla metà degli anni ’80 e conosce bene Craven avendo scritto per lui le musiche per il primo, fortunato spin-off della saga, la serie televisiva Nightmare Cafe (1992: Robinson tornerà poi a collaborare con Craven nel ’95 per il fallimentare Vampiro a Brooklyn con Eddie Murphy e Angela Bassett). Anche Robinson è uno che con l’horror va a nozze (da The Believers – I credenti del male, a Streghe, da Il ritorno dei morti viventi 2 sino al recente, giustizialista Solo per vendetta): qui però, d’intesa col regista, Robinson avverte lo spessore metalinguistico dell’operazione e quindi l'importanza dell’impegno richiesto e, di conseguenza, la necessità di riprendere – aggiornandolo – lo spirito se non la lettera dell’originale di Bernstein. Forse per questo in “Opening & Theme” vengono immediatamente associati il “Jump rope” theme e il tema di Freddy, seguiti in “Claw attack” da un agghiacciante tour de force orchestrale a base di strappi di ottoni, archi impazziti e percussioni selvagge. Masse strumentali, corali (“Freddy calls”) ed elettroniche si intersecano poi continuamente creando quella tipica atmosfera “symph & synth” ricorrente in molte partiture degli anni Novanta.
Ma le fonti e gli stili cui Robinson attinge sono multiformi; c’è l’andatura rockettara da discoteca (memorabile la versione del tema di Freddy in “Tv show source”, corrispondente al massimo di commercializzazione del personaggio), ci sono i corali solenni precipitati nel più convulso caos orchestrale di “Funeral part A & B”, le cantilene ossessive di “Nosebleed”, i sinistri sussurri di “Painting at Robert Englund’s part A & B”, la scrittura nettamente atonale di “Oxygentyten” e “Julie killed” (quest’ultima una traccia davvero da brividi per temerarietà orchestrale), insomma i continui cambi di passo e di clima di una partitura irrefrenabile e a tratti caotica, che solo la perizia direttoriale di Michael McCuistion (della squadra di compositori delle Avventure di Superman e Young Justice) riesce a tenere sotto controllo, governando impercettibili pianissimi alternati a fortissimi demolitori, tra le pieghe dei quali si annidano spinosi assoli di fiati, adagi pianistici o addirittura scampoli e parafrasi di rigorose fughe bachiane.
Freddy vs. Jason di Ronnie Yu pose a Graeme Revell, vecchia volpe del soundtrack con una robusta filmografia action-fanta-horror di oltre cento titoli in un trentennio, problemi completamente diversi. Se ne ha immediata, icastica idea nei primi dieci secondi del “Nightmare theme” d’apertura, dove convivono come vecchi amici il leit-motif di Bernstein e il celeberrimo “Jason theme” ossia quell’effetto vocale prosaicamente chiamato “ch-ch-ch ha-ha-ha” che Harry Manfredini s’inventò nel 1980 per il primo capitolo delle malefatte di Jason Voorhees nella saga Venerdì 13 inaugurata da Sean Cunningham (il quale peraltro nei primi anni ’70 fu tra gli amici e compagni di strada di Craven). Nel film di Yu infatti si rispolverava quel genere cosiddetto “cross-over”, molto pop e molto pulp, che andava in voga negli anni ’50 e ’60 con i nostri Maciste contro Zorro o i low-budget hollywoodiani tipo Frankenstein contro l’Uomo Lupo. Ne deriva che i nuclei leitmotivici associati ai due protagonisti, dapprima alleati poi ovviamente acerrimi competitors, duellano insieme a loro in un incessante e inesauribile fuoco di fila di incandescenti materiali sinfonici, che segnano anche la discesa in campo della City of Prague Philharmonic sotto la direzione di Mario Klemens, mentre la ripresa del tema di Manfredini è affidata alla band metal americana dei Machine Head.
Revell non è uno che va tanto per il sottile (forse questo è il suo maggior limite), ma resta il fatto che quando c’è di mezzo lo scontro fisico non lo ferma nessuno: “Gibbs shower”, “Trey gets killed”, con la loro ritmica arroventata e le deflagrazioni secche dell’orchestra rinforzata da un imponente apparato digitale, lo testimoniano. Inoltre la sua partitura varca perentoriamente i confini della tonalità con soluzioni coraggiose e urticanti (“Girl with no eyes”), da autentica avanguardia, che pagine come “Dream fight part A” portano a fasi terrificanti, soprattutto nel trattamento degli archi. Notevole poi la bipartizione tra il materiale relativo a Jason (“Jason’s weakness”, “Jason unmasked”), caratterizzato da vigorose accelerazioni ritmiche e galoppi della percussione, e quello di Freddy, gravato da suoni distorti che mandano minacciosi bagliori: che si concludono con lo scontro ultimo di “Freddy dies/Finale”, chiosato dall’ultima enunciazione del tema di Bernstein e dalla risataccia irriducibile del mostro…
Quando nel 2010 lo zimmeriano Steve Jablonsky riprenderà in mano l’argomento per il fiacco reboot di Samuel Bayer cui accennavamo all’inizio di questo excursus, è tutta un’altra storia. Il distacco totale dai materiali preesistenti non è solo questione di copyright ma di formazione: Jablonsky è un compositore nato negli anni ’70, ossia una generazione abbondante dopo quasi tutti i musicisti di cui ci siamo occupati. E anche l’horror music ha ormai intrapreso strade, tecnologiche e concettuali, prevedibilmente seriali e difficilmente distinguibili da altri generi. Charles Bernstein & soci invece venivano da un altro mondo, erano imbevuti di musica per vecchi B-movies e di generi “forti”, erano abituati ad ottenere il massimo risultato con risorse tempistiche e mezzi limitati, e recavano in sé ancor l’entusiasmo e la fantasia creativa appresa o ereditata in qualche modo dalla Golden Age. Per questo il cofanetto Nightmare on Elm Street, al di là di risultati e stili così diversi, è anche un viaggio in vent’anni di musica cinematografica strettamente di genere, molto indipendente e se vogliamo persino un po’ “naïve”, ma soprattutto un’imperdibile occasione di approfondimento e di studio.

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