The Chamber Suites

cover chamber suites cmiralElia Cmiral
The Chamber Suites (2016)
MovieScore Media MMS16013 
14 brani – Durata: 39’26”     

Vi sono, nella storia della musica cinematografica, figure che costituiscono in modo esemplare un punto d’incrocio e di scambio fra culture. Elia Cmiral è senz’altro una di queste.
68 anni il prossimo 1° ottobre, Cmiral è nato nell’ex-Cecoslovacchia, nipote di uno degli allievi prediletti di Antonin Dvořák, ed ha avuto a che fare con la musica sin dall’adolescenza, soprattutto in àmbito teatrale, dove si è perfezionato anche grazie ad un soggiorno in Svezia, che del teatro di prosa ha fatto una delle proprie eccellenze artistiche.

Ma è stato il suo trasferimento negli Usa, a metà degli anni ’80, a imprimere una svolta decisiva alla sua carriera: perché qui, e precisamente a Los Angeles, Cmiral ha studiato composizione per il cinema e qui ha praticamente debuttato in questa veste nell’88 (dopo un primo titolo dell’86, Sulla vita e sulla morte, realizzato in Svezia) per il thriller politico Apartment Zero di Martin Donovan. Da qui ha preso il largo una carriera svoltasi prevalentemente sotto il segno appunto del thriller, più spesso dell’horror indipendente, con titoli non sempre all’altezza del suo talento (Pulse, Wrong Turn, The Mechanik, Splinter, Stigmata, Piranha 3DD), che però il compositore ha sempre utilizzato in piena libertà creativa per fare quello che molti altri suoi colleghi hanno fatto in queste circostanze (pensiamo all’ultima fase della carriera di Herrmann, o a parte della filmografia di Pino Donaggio): ossia sperimentare, cercare, combinare formule e soluzioni innovative.
 Questo lo ha reso un musicista decisamente fuori dai canoni hollywoodiani consueti, e come tale decisamente sottoutilizzato: anche se la sua fama è legata alla sua score certo più riuscita ed esplosiva, ancorché brutalmente secca e terribilmente scarna, ossia Ronin (1998), gioiello spy-action di John Frankenheimer. Un titolo cui ne sono seguiti molti altri, anche televisivi e persino di videogame, a costruire il profilo di un compositore rigoroso e continuamente curioso, creativo e imprevedibile. Così come ora sorprende che Cmiral, dietro suggerimento di un amico, abbia approfittato di una pausa della sua attività per dedicarsi – com’egli stesso ci racconta nelle note di accompagnamento - alla trascrizione per trio da camera di alcune sue pagine cinematografiche più note. Decisione in realtà felicissima perché l’organico prescelto (il violino di Mark Robertson, il violoncello di Vanessa Freebairn-Smith e il pianoforte di Robert Thies) evoca immediatamente un intero universo europeo, e segnatamente viennese, in un arco temporale che va dai trii di Schubert sino alle opere da camera di Berg e Webern, quanto dire dal nucleo del romanticismo sino all’espressionismo e alla rivoluzione dodecafonica. Inoltre, l’esproprio della parte orchestrale se da un lato sottrae evidentemente alla musica di Cmiral uno dei suoi elementi di maggior fascinazione dato il sovversivo talento del maestro sotto questo aspetto, dall’altro ne scarnifica il linguaggio portando alla luce il superbo rilievo contrappuntistico e l’asciutta, scabrosa limpidezza delle sue idee melodiche, imbevute di echi mitteleuropei. Si esalta così, ad esempio, la linea cupamente brahmsiana del tema che apre la suite da Ronin (”Faith of a Ronin”), mentre il sussultorio virtuosismo esecutivo richiesto per “Crossfire” vibra incandescente in uno spiccato atonalismo che passa con tutta evidenza attraverso i quartetti di Bèla Bartòk.
Con una svolta radicale, la suite da Apartment zero assume colori jazzistici in “Streets of Buenos Aires” e notturni in “No regrets”, una specie di blues desolato e aspro costruito sul colloquio tra violino e cello; ma è poi per un dramma familiare ambientato nel cuore dell’Europa dilaniata dal secondo conflitto, Habermann (2010) di Jurai Herzl, regista suo compatriota, che Cmiral ritrova le proprie fonti ispirative. La figurazione staccata e ricorrente del violino in “Exodus”, sostenuto dal pianoforte in una ectoplasmica marcia funebre, instilla un turbamento di rara efficacia emotiva, così come il canto straziato di “Be safe, my friend” accentua l’intensità drammatica del tematismo di Cmiral, mentre “Execution day”, con l’utilizzo percussivo del pianoforte e il nuovo sforamento delle barriere tonali, ci riporta nuovamente alle fasi “barbare” dell’opera di  o Prokof’ev, con il furore iconoclasta che caratterizzava le avanguardie europee del primo Novecento, mentre “Farewell” ci congeda da questo titolo con un ulteriore, disarmante e spettrale epicedio del violino. Nuovo cambio di rotta con Atlas Shrugged Part I (2011, Paul Johansson), primo capitolo di una trilogia distopica basata sul romanzo del 1957 della scrittrice russa Ayn Rand e ambientato in una società americana “immaginaria” (…) dove il capitalismo è stato lasciato libero di crescere e moltiplicarsi senza la minima regolamentazione (vi ricorda qualcosa?). Cmiral riprenderà poi in mano il progetto nella Parte III, mentre la seconda è stata affidata per la musica a Chris Bacon (Bates Motel, Source Code). Qui gli accenti si fanno più movimentati, quasi avventurosi: pianoforte e violoncello si agitano irrequieti (“Colorado”) mentre il violino tende una melodia piuttosto affranta. Laddove in “Hope” prevale invece un cantabile più fluido e rilassato affidato sempre al violino (ma si noti la finezza di scrittura nella parte assegnata al violoncello, degna di una cultura cameristica di alto lignaggio). Festoso, con un’andatura quasi da  austriaco settecentesco (magari filtrato dai turbamenti mahleriani) è “Celebrazione” (sic), cui però segue quello che è forse il punto più elevato dell’album: “In love with Dagny”. Qui veramente l’ispirazione di Cmiral declina per intero le proprie origini europee, in una struttura liederistica dove violino e pianoforte comunicano alla pari in un clima sospeso tra la Secessione viennese e l’angoscioso lirismo del primo Berg: e pochi momenti esprimono con tanta penetrazione la solitudine pietrificata che scaturisce dalle ultime battute. Persino nel finale di “Victory”, malgrado il tono indubbiamente più positivo e luminoso, l’amalgama creato tra i tre (superlativi) solisti californiani si forgia in un’atmosfera in qualche modo decadente e oscuramente profetica. Se davvero questo, come racconta Cmiral, è stato solo una sorta di passatempo tra una committenza e l’altra c’è solo da augurarsi che i futuri impegni del compositore gli lascino altro spazio per proseguire nell’esplorazione di un genere (e molto probabilmente nella riscoperta delle proprie radici) nel quale sembra che egli abbia davvero molto da esprimere e da svelarci.

Stampa