Anon

cover anonChristophe Beck
Anon (Id., 2018)
Filmntrax Ltd.
16 brani – Durata: 43’03”

La particolare concezione della fantascienza e della visione del futuro che caratterizza il cinema di Andrew Niccol ha sempre richiesto soundtracks altrettanto particolari, sotto il segno di una forte astrazione simbolica, con il ricorso a sonorità artefatte e stranianti, ma anche ad un umanesimo e ad un lirismo tanto ostinati quanto disillusi. Ed i compositori succedutisi nei suoi film, da uno dei numi tutelari del minimalismo come Michael Nyman ad Antonio Pinto a Craig Armstrong, si sono rivelati in spiccata sintonia con il mondo e i mondi del regista, dove spesso l’individuo è schiacciato e compresso nella propria identità da sistemi, forze o ideologie oppressive e spersonalizzanti.

 Si colloca ora diligentemente su questa scia anche Christophe Beck, che aveva già musicato in uno stile “fantascientifico” e antinaturalistico uno dei pochi film “realistici” di Niccol, l’antimilitarista Good Kill: ma qui siamo nuovamente nel classico futuro distopico, in cui insieme al crimine sono stati completamente eliminati anche la privacy e il diritto alla riservatezza degli individui (di qui il titolo, abbreviazione di “anonymous”), e dove un poliziotto (Clive Owen) è alle prese con una serie di delitti compiuti da un inafferrabile killer che riesce a penetrare nella mente umana e resettarne la memoria. Le implicazioni socio-filosofiche di un simile assunto, rese più scottanti da alcuni non facili dilemmi contemporanei (il rapporto tra tecnologie onniscienti e il diritto all’oblìo nell’era dei social, per esempio) si innestano così nella struttura di un poliziesco tradizionale; ma al compositore canadese della trilogia Una notte da leoni, la cui già copiosissima filmografia si muove disinvoltamente tra action movies, cinema d’animazione, commedie e supereroi, sembra interessare più il primo aspetto, già in parte esplorato nell’avveniristica score per Edge of Tomorrow – Senza domani (2014, Doug Liman). Ne esce un lavoro rigorosamente elettronico che è un distillato quasi didattico di suoni in provetta, immateriali e inafferrabili eppure in qualche modo tendenti ad un certo sia pur elementare tematismo. Non è tanto il “Theme from Anon” a dimostrarlo, una lenta e asettica figurazione pianistica seguita da una specie di “risposta” ad eco e sostenuta da una regolare pulsazione arricchita da qualche effetto spazialista; quanto piuttosto “Mystery woman”, dal quale si alza come un lamento strascicato una frase fa-la-mi, seguita da uno sviluppo fa-sol-la-re, che rappresenta il nucleo leitmotivico di una partitura per il resto quasi interamente confinata nel sound design più impenetrabile.
 I due aspetti però si combinano in una struttura apertamente dicotomica, dove da una parte pulsa e rimbomba il suono estraneo di una società alienante e gelida (“Elevator delusion”), mentre dall’altra brillano sospesi nell’infinito i rintocchi tintinnanti e celestiali di una “umanità” che geme inascoltata (“Reminiscence”).
 Confinate le pagine d’azione a elementari, efficaci sobbalzi percussivi (”Subway chase”), Beck si dedica con più impegno proprio a suscitare una sensazione che unisca al disagio per una condizione di estraneità e soggiogamento del pensiero la memoria – e la speranza - di un mondo migliore: e lo fa con toni a volte quasi mistici (“Altered reality”), altre con variazioni più mosse (”The plan”) o più distanti, offuscate (“Something else to erase”) del tema principale. Talvolta la sua musica si paralizza in atteggiamento estatico come in “Father’s lament”, dove su un lunghissimo pedale di mi si alzano accordi di organo, fruscii sotterranei, vibrazioni interne in un magma di decifrazione davvero ardua. Più generico e rumoristico in pagine di semplicistico arredo acustico (”Final brain”), il compositore riesce meglio quando segmenta il tema principale in sottocellule isolate e galleggianti in una sorta di iperspazio sonoro (“Sal’s elaborate escape”), oppure radicalizza le proprie soluzioni ai confini del silenzio (“Jealous man”).
 Gli scarni, fantasmatici frammenti tematici appaiono fiocamente in “Restoration” e negli “End titles”, limpidi e nello stesso tempo ossessionanti, come se Beck avesse assunto alcuni stereotipi New Age o “ambient” per dilatarli e compulsarli in una electro-score che suscita senza dubbio una forma di inesprimibile e profondo disagio.

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