A Quiet Place

cover a quiet placeMarco Beltrami
A Quiet Place – Un posto tranquillo (A Quiet Place, 2018)
Milan Records
16 brani – Durata: 47’18”

Date a Marco Beltrami una storia dall’involucro horror-fantascientifico, in realtà declinata sul versante psicologico e addirittura sociologico, in più incentrata sul tema del silenzio come strumento di sopravvivenza, e il 51enne compositore di origini italiane – già collaboratore di Luigi Nono e allievo di Jerry Goldsmith, non lo si ricorderà mai a sufficienza – vi si muoverà con l’acutezza, la profondità e lo smalto delle sue prove migliori.

 Tale è la score per il film di John Krasinski, con una superlativa Emily Blunt, angoscioso e pervasivo ritratto di una famiglia di sopravvissuti ad un’invasione aliena, costretta a vivere nella più tombale assenza di rumori per non essere individuata dai mostruosi occupanti, completamente ciechi ma provvisti di un udito e di una ferocia implacabili. Un simile impianto narrativo, tradotto in una pressoché totale assenza di dialogo, delega ovviamente ogni tipo di comunicazione fra i protagonisti al linguaggio dei segni, mentre la sfera sonora e musicale s’incarica di interagire con lo spettatore, che non solo vede ciò che gli alieni non possono vedere ma ode – non visto nemmeno dai protagonisti – ciò che a lui solo è dato di udire.
 Come si vede, una base anche teorica entusiasmante, che rovescia in una chiave molto più diretta e terrificante il tema della “comunicazione” fra la nostra ed altre specie, al centro ad esempio – ma su un piano assai più intellettuale e interiorizzato – di Arrival di Denis Villeneuve: né il parallelo appare troppo casuale, visto che c’è chi ha rilevato una certa assonanza tra un tema secondario di questa score e il tema scritto proprio da Jóhann Jóhannsson per Sicario di Villeneuve…
  Dunque la partitura di Beltrami, affiancato da un plotone di collaboratori (ben sei orchestratori, tra cui il fedele direttore d’orchestra Pete Anthony, e quattro musicisti aggiuntivi, tra i quali i sodali Buck Sanders e Marcus Trumpp), se da un lato si fa carico dell’esigenza di tenere premuto al massimo l’acceleratore della tensione e della paura (compito nel quale il compositore è maestro), dall’altro avverte anche la responsabilità di dover esprimere qualcosa di più profondo e recondito, in termini di psicologie e di suspense più raffinata. Ed è forse su questo secondo aspetto che si concentrano maggiormente gli sforzi dell’autore, in una tavolozza sonora dove orchestra e tecnologie convivono paritariamente, integrandosi e dialogando con terroristica efficacia. Dalle pulsazioni abissali e viscerali dell’inesorabile, scandito e violento “It hears you”, dal melodismo distorto, ad esempio, sino al suono delicato ma in qualche modo “sporco” di un pianoforte scordato in “A quiet family” o “A quiet life”, idilliache quanto ingannevoli oasi di pacatezza dal decorso cullato morbidamente dagli archi, si evince che Beltrami differenzia nettamente le parti più minacciose e opprimenti da altre più intime e chiaramente aspiranti ad una pacificazione e a quella quiete vanamente evocata nel titolo. Il connubio, estremamente inquietante, ottenuto dalla compresenza di questi due aspetti e simboleggiato dalla presenza di altrettanti, rispettivi quanto elementari leit-motifs (uno per i mostri, l’altro per la famiglia) consente a Beltrami momenti di sintesi espressiva felicissima, come in “Babyproofing/Bonfire”, affidato ad un dolente fraseggio degli archi ma guardato a vista da lontani quanto incombenti suoni astratti; a differenza di quanto accade in altre celebri partiture horror del musicista (si pensi al suo sodalizio con Wes Craven in particolare per la serie Scream), qui l’angoscia non passa attraverso scorciatoie di soprassalti repentini o “botti” sussultori, bensì dalla costruzione lenta e paziente di un climax oscuro, malato e allarmante, come risulta dal terrificante, macabro “Old man” o nella lunga “Labor intensive”: quest’ultima pagina di impressionante, attonita efficacia e di tensione pressoché insostenibile, basata su un ostinato ritmico affiancato da striduli e formicolanti effetti di archi, in una sfiancante alternanza di crescendi e diminuendi, sino a una deflagrazione finale cacofonica  e animalesca, gutturale che è un vero pugno nello stomaco.
 Per contrasto, “Kids bonfire”, di nuovo con l’impasto suadente degli archi,  ci risospinge sulle rive di quel sinfonismo lirico rasserenante e malinconico che è il tratto forse meno noto ma non per questo meno coinvolgente della poetica beltramiana.
 A toni nuovamente agghiaccianti e sinistri si ritorna con “Water in the basement” e “Silo attack”, forse con l’abuso di qualche stereotipo di troppo (pedali elettronici, cluster acuti di archi ecc.), mentre “Rising pulse” scatena ancora una volta il pieno dell’orchestra con la frenetica agitazione degli archi e le brutali accentazioni degli ottoni; ed è all’insegna di queste atmosfere nerissime e ostili che si muovono anche  i conclusivi “All together now” e “Positive feedback”, il primo recuperando i materiali di “It hears you”, il secondo suscitando nuove, spaventose collisioni tra substrato ritmico pulsante e “versi” di innominabile provenienza ottenuti con il combinato disposto di orchestra ed elettronica.
 Come altrove in Beltrami, dunque, colpisce il rigore geometrico, ingegneristico, calibrato al millisecondo, di una partitura addossata al film sin quasi a sostituirvisi, ma nello stesso tempo anche portatrice di una mentalità compositiva che fa tesoro di tutte le esperienze accumulate in ormai quasi un quarto di secolo di onorata carriera svoltasi quasi per intero sotto l’inquietante cielo del soprannaturale e della paura.

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